Prima e seconda puntata.
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Prima puntata, 29 aprile 2020
Ci volevano chiuse e chiusi in casa, anche nella giornata della Festa della liberazione dal nazifascismo. L’invito era ai festeggiamenti “virtuali”, il massimo concesso – per chi poteva accedere a un balcone (un balcone! Come non associarlo, il 25 aprile, a quello di piazza Venezia a Roma, altare del verbo fascista durante il Ventennio?) – l’esposizione del tricolore, l’intonazione di Bella ciao.
Ma l’occasione ha fatto fremere i corpi e tremare le gambe, e tante sono le testimonianze che si registrano di piccoli gesti ribelli (come quelle che si possono leggere nei commenti a questo post su Giap, post che è a sua volta il resoconto di una resistente evasione, meta il dirupo di Sabbiuno), di persone – con le necessarie cautele – nelle strade a commemorare le donne e gli uomini che hanno fatto la resistenza. Tra le tante, meritorio di menzione è quanto organizzato “in basso” da donne e uomini liberi che con una staffetta – la staffetta della lupa verde – hanno portato a Monte Sole pensieri resistenti raccolti lungo il tragitto. Purtroppo, senza troppa sorpresa, si sono registrati anche casi di repressione poliziesca, come nel caso, il più grave, di Milano.
In questo post iniziamo a raccogliere le resistenti evasioni che abbiamo agito, i racconti che abbiamo ricevuto, consapevoli, ancor più dopo gli ultimi annunci sulla presunta “fase 2”, che gesti come questi dovremo produrne molti per riuscire a forzare un’apertura nelle gabbie in cui ci troviamo costrett*.
È stata, nonostante tutto, una giornata di festa per molte e molti. Prima di lasciarvi ai racconti, vogliamo mostrarvi quanto avvenuto a Trieste, nelle strade della città vecchia e rispettando il distanziamento fisico: un ballo collettivo e liberatorio, un rito laico propiziatorio per quando torneremo a occupare lo spazio pubblico.
La storia di F1
Nei giorni precedenti l’ho scritto via mail a tutte le persone che vivono vicine
Care tutte, cari tutti,
ci penso già da qualche giorno e la lettura di questo articolo della Wu Ming Foundation mi conforta nel proposito. Nella giornata di sabato 25 aprile, insieme alle persone con cui vivo, ho intenzione di recarmi sulle targhe dei partigiani orbassanesi, deporre dei fiori, cantare delle canzoni. Manterremo il distanziamento fisico, indosseremo mascherine.
Furono il senso di responsabilità e l’amore per la libertà a spingere partigiane e partigiani a disobbedire.
F.
PS: Se decidete di far circolare questo messaggio in altri ambiti, magari assumetevene la responsabilità e sostituite il mio nome con il vostro.
Ho ricevuto due risposte. Gino Gallo, lo storico locale di Rivalta, mi ha chiesto di portare il saluto suo e di sua moglie alle salme dei partigiani rivaltesi sepolti a Orbassano e un altro compagno, Gianni, che dopo lettura della mia mail ha deciso che avrebbe girato il suo contributo per un videomessaggio alle comunità palestinesi fuori, in strada. Stop.
Il 25 siamo uscite. S. e io a piedi, M. in bici. Appena abbiamo messo il naso fuori dal cancelletto condominiale, è passata la macchina dei carabinieri.
– Ritornano alla base. – La caserma dei CC è a centocinquantametri da casa.
– Sono entrati nel parcheggio. Stai a vedere che fanno inversione.
Invece no. Proseguono verso ovest.
Ci incamminiamo. La prima targa è vicina. Ricorda Armando Rossi e Leonardo Tarable, due civili trucidati dai tedeschi in ritirata il 29 aprile 1945. Quel giorno le armate naziste cannoneggiarono il paese, si diedero a razzie e uccisero sette persone. La violenza devastante dei colpi di coda.
S. ha raccolto fiori di tarassaco, io pratoline. Lasciamo qualche fiore sulla targa. Poi ci muoviamo verso la piazza. Il silenzio è irreale, il sole ci scalda. M. corre avanti con la bici e noi più lente, a chiacchierare, dietro.
In piazza c’è un’altra targa. La sindaca ha fatto il suo giro istituzionale, una corona al milite ignoto della prima guerra mondiale, una al monumento per “gli orbassanesi immolatisi per la patria e la libertà”, ma qui, a trenta metri dal municipio, non ha lasciato niente. I nomi scritti sono quelli di Vincenzo Ventrella e Giulio Corino, entrambi partigiani, entrambi impiccati in piazza nell’estate del 1944 come monito alla cittadinanza.
La targa è troppo in alto e non saprei proprio come arrivarci. Lasciamo i fiori in un incavo di una colonna della chiesa, lì affianco, e poi cantiamo Siam le ribelli della montagna. È una delle canzoni preferite di M., ma non partecipa. Ci guarda a distanza di sicurezza e sorride.
Esiste anche un video che testimonia la performance canora. L’intonazione è un’altra cosa.
Ci dirigiamo verso il cimitero, qui ci sono le lapidi di partigiani orbassanesi e rivaltesi operanti in Valsangone. Ogni volta che incrociamo un altro essere umano S. ci prova:
– Buongiorno, buon 25 aprile.
Silenzio.
Il cancello del cimitero è chiuso da catena e lucchetto. Tiro fuori dalla borsa un foglio e lo scotch di carta. Scriviamo un messaggio. Poi esito un secondo. Guardo davanti e c’è scritto “area video sorvegliata” e quindi smetto di esitare. Firmo. Firmano anche Sara e Miriam. Fissiamo il foglio sul cancello e incastriamo i fiori fra le sbarre.
M. ci fa una foto e poi lentamente torniamo verso casa.
Ripenso alle manifestazioni a cui abbiamo partecipato in questo stesso giorno negli anni precedenti e concludo ad alta voce.
– Il nostro 25 aprile questa volta è davvero una liberazione.
La storia di Y
Qua dove vivo il 25 Aprile non si festeggia, visto che Vienna fu liberata dall’Armata Rossa, alla fine della battaglia che ci fu tra il 2 e il 13 Aprile del 1945, contro la Wehrmacht. A ogni modo qualcosa volevo farla anch’io. Anche qua c’è stata la Resistenza, ci sono state persone che combatterono il nazifascismo. Così decido di uscire e andare a rendere omaggio a Johann Gärtner, di cui ho visto la targa davanti all’ingresso della stazione di cambio dei tram qui nel distretto dove vivo.
Passo spesso davanti a questa targa, visto che è su uno dei percorsi che faccio per andare o tornare dal parco che sta davanti al palazzo di Schönbrunn. Sulla targa si legge che visse e lavorò per la libertà e l’unità. Per saperne un po’ di più ho dovuto fare qualche ricerca in internet: era un reduce decorato della prima guerra mondiale, membro del partito socialdemocratico dei lavoratori e del sindacato. Conduttore di Tram, in servizio presso la stazione operativa del quindicesimo distretto, quella dove ora c’è la targa che i suoi colleghi posero in suo ricordo. Faceva parte del Servizio rosso e fu arrestato nel settembre del 1943, venne processato insieme alla moglie per “Vorbereitung zum Hochverrat” (preparazione all’alto tradimento). Fu giustiziato nel novembre del 1944, sua moglie – di cui non ho trovato il nome – fu condannata a 10 anni di prigione.
E così sono uscito di casa e ho raggiunto la targa davanti alla stazione di servizio Rudolfsheim. Intorno non c’era nessuno, poche auto passavano sulla Mariahilferstrasse e non c’era nessuno a lavorare nelle sale dove stanno parcheggiati i tram. Mi sono sentito un po’ stupido per essere arrivato lì senza neppure un fiore da posare. Così, anche se stonato, ho cantato Fischia il vento / infuria la bufera / scarpe rotte / eppur bisogna andar…
La storia di F2
Sì, l’antifascismo deve essere una pratica quotidiana, ancora meglio – o ancor di più – una prassi che nel quotidiano si attiva a contrastare il microfascismo: l’antifascismo come arte marziale che abbia come proprio fine la liberazione dei nostri discorsi e dei nostri atti, dei nostri cuori e dei nostri desideri dal fascismo. Il compito di una vita, o almeno di una vita non fascista. Allo stesso tempo non vi è contraddizione se il 25 aprile di ogni anno, nel giorno che rappresenta la data convenzionale della liberazione in Italia dal nazifascismo, si sente il bisogno di portare il culo fuori dallo spazio privato della propria abitazione, per riprendersi lo spazio pubblico proprio così come successe 75 anni fa, e ricordare collettivamente le donne e gli uomini che per il loro antifascismo e durante la resistenza perirono, nelle strade e nelle piazze, o lungo i sentieri segnati dalle pesta dei ribelli e delle ribelli delle montagne.
Riaffermare in questi tempi di confinamento – in cui la dimensione collettiva è rappresentata da almeno due corpi fianco a fianco, anche alla distanza reciproca di un metro – il valore del 25 aprile fuoriuscendo dallo spazio domestico e non abbandonandolo alle stantie celebrazioni ufficiali era più che mai necessario.
Ed è così che sabato mattina dopo aver studiato un piano d’azione, indossata mascherina e fazzoletto rosso al collo, inforchiamo le biciclette e scendiamo in strada, a Brescia. Siamo in quattro: io, mia moglie F., nostro figlio E. e Gabet, l’amico immaginario di E. che da qualche settimana a questa parte è tornato a presentarsi. Gabet è un cittadino del mondo, si muove come si muovono i cirrocumuli nel cielo. Non è un convivente del nostro nucleo famigliare: ultimamente, durante questo confinamento che non può imbrigliarlo, si mette in contatto con E. da luoghi a noi vicini o lontani, solitamente mentre è impegnato in qualche monellata. Invitato, non ha dubitato un attimo dall’unirsi a noi: ogni amic* immaginari* – pensateci – non può che essere intimamente antifascista.
Ci spostiamo di buona lena, lo spazio che ci divide dalla nostra meta non è molto ma comunque superiore a quello concesso per gli spostamenti.
Una volta arrivati a destinazione, troviamo ad aspettarci un amico, nome di battaglia “Lilli”, con cui avevamo fissato un appuntamento. Non ci vediamo da settimane, già è festa ritrovarsi. Lì, anche se con i volti coperti – i volti coperti sì, ma coperti per farci vedere – alziamo gli occhi alla targa apposta sul muro di via Gorizia, via laterale di un più importante viale che è stato attraversato da generazioni di operai e (in tempo di guerra) operaie, poiché porta verso l’ingresso della storica fabbrica OM (ora Iveco).
Leggiamo ad alta voce l’iscrizione sulla lastra posata sulla facciata di un edificio. Infiliamo su un gancio posto sotto la lastra la nostra corona DIY – rosmarino profumato e rose rosse, intrecciati dalle mani di F. –, appena al di sotto di altri due mazzetti di fiori freschi che, con piacere, troviamo già posizionati. La nostra presenza non è dunque la prima della giornata ad aver voluto ricordare Luigi Malzanini. Malzanini che oggi, qui, per noi, è la parte che rappresenta il tutto: la resistenza.
Operaio prima alla Franchi e poi alla Breda, Malzanini erano comunista e dentro alle fabbriche svolse assidua attività antifascista, diffondendo la stampa clandestina. Partecipò ad alcune azioni contro caserme site a Brescia, dovendo poi fuggire entrò in contatto con i primi nuclei di partigiani, operanti a Botticino e in Valtrompia, ma venne presto arrestato. Il 10 dicembre 1943, tentò la fuga mentre veniva trasportato da prigioniero su un camion, ma i colpi di mitraglia lo raggiunsero a poche decine di metri e lo freddarono.
Dei fiori per lui, alla sua memoria, che vogliono essere un fiore – un pensiero e un patto e un gesto e un ricordo grato – a ogni ribelle antifascista.
Rimontati in bicicletta, nelle vie semivuote, pedaliamo intonando Fischia il vento… è il tempo del confinamento, e pur bisogna andar.
La storia di D1
Vivo alle pendici di un monte che è trapuntato di ricordi Partigiani, alcuni eclatanti, altri minori, ma comunque tanti.
Pertanto mi è pesato non potere, quest’anno per la prima volta, fare un laico pellegrinaggio ad onorare almeno alcuni dei luoghi della Resistenza a me vicini. Ma mio figlio ha 11 mesi e muoversi più di tanto con lui – soprattutto con le attuali restrizioni – è impossibile, andarci senza lui e la mia compagna mi pareva insensato.
Stamattina ho però presenziato – come amministratore comunale – alle “celebrazioni ufficiali del 25 aprile”. Di solito comportano banda, folta partecipazione popolare e affari d’oro per i fiorai, che da noi le lapidi partigiane sono decine. Oggi eravamo quattro: io, il sindaco, il vicesindaco e un rappresentante dell’ANPI (e paradossalmente non è poco: fino a ieri una circolare prefettizia imponeva che fosse un solo amministratore, senza alcun accompagnatore, a deporre gli omaggi floreali, poi pressioni dell’ANPI han fatto allargare le maglie).
Nessun discorso comunque, niente musica, nessun applauso.
Solo silenzio.
A modo suo è stato emozionante, e l’emozione in questione era la tristezza. Sembrava che le mascherine ci avessero tolto la voce. Le foto della posa della corona e dei fiori sono uno scarno quadro surreale, in cui si vede che c’è qualcosa di sbagliato: non c’è comunione, non c’è socialità, non c’è vita.
Tornato a casa ho montato l’ampli portatile e sono andato su un prato vicino a casa, che sovrasta la frazione in cui vivo.
All’inizio avevamo pensato, con mia moglie, di cantare I Ribelli della montagna (ignorando l’invito a fare Bella Ciao, canto che non amo pur se qui in Val di Susa ha un gusto particolare, per come è stato adottato dal movimento notav), ma le esigenze di nostro figlio rendono impossibile al momento fare cose insieme. Allora ho preso la chitarra e ho accennato una strofa di Fischia il Vento – scelta banale forse, ma facilmente riconoscibile –, disturbando il silenzio frammentato solo dai richiami dei passeri e delle cornacchie. Niente di che, ma il mio borgo ha ascoltato qualche nota partigiana, in questo settantacinquesimo di ordinata, ligia, grigia e perniciosa clausura. Un’evasione musicale, che spero possa essere stata almeno un po’ collettiva. Domani scendo in borgata e chiedo.
La storia di M1
A Trieste c’è un largo vallone che dal Borgo Teresiano si infila tra le colline fino ai pendii di Guardiella e San Giovanni. Nel fondo pianeggiante del vallone alla fine dell’ottocento si è sviluppato il rione di Barriera Nuova. Sui fianchi delle colline invece i vecchi paesini sono ormai stati inglobati dalla nuova periferia della città. Noi abitiamo su uno dei due versanti, chiamato “lo scoglietto”, vicino all’ università. Sul versante opposto, in via Pindemonte, al limitare del bosco, c’è la targa in ricordo della partigiana Alma Vivoda, che sul sito dell’ANPI viene definita “la prima caduta della resistenza italiana”.
Alma Vivoda faceva parte del gruppo di giovani donne e uomini della classe operaia triestina che entrarono in clandestinità e cominciarono a collaborare con la resistenza slovena già tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943. Il partito comunista aveva mantenuto per tutto il ventennio fascista le sue cellule all’interno delle grandi fabbriche di Trieste e Monfalcone. Dopo l’invasione italiana della Jugoslavia, nell’aprile del 1941, in tutti i territori a maggioranza slovena all’interno dei confini italiani nacquero in parte spontaneamente dalle ceneri del TIGR, e in parte su impulso dell’ Osvobodilna Fronta guidata dal partito comunista sloveno, le prime brigate partigiane in appoggio alla resistenza jugoslava. Alla fine del 1942 anche i comunisti italiani formarono i loro primi distaccamenti, sul collio friulano e sul carso triestino. Alma Vivoda, Ondina Peteani, l’intera famiglia Fontanot… le vicende di questa resistenza di confine le ha raccontate Andrea Olivieri nel suo non-romanzo Una cosa oscura, senza pregio, intrecciate alla storia della sua famiglia e a quella dello scrittore sloveno/americano Louis Adamic. Leggetelo, se non l’avete ancora fatto, perché è un gran bel libro.
Alma Vivoda fu uccisa in un agguato dai fascisti il 26 giugno 1943. Nella primavera del 1943 non c’era ancora stata nessuna invasione tedesca dell’Italia. L’invasore contro cui stavano combattendo l’italiana Alma Vivoda e i suoi compagni era l’Italia fascista, e il paese invaso la Jugoslavia. La storia della resistenza giuliana è una storia di internazionalismo e di lotta di classe, e raccontarla manda gambe all’aria la narrazione nazionalpatriottica sul 25 aprile che si è andata via via imponendo in Italia negli ultimi anni. Per questo, scendere dallo scoglietto e risalire via Pindemonte per portare clandestinamente un fiore ad Alma Vivoda, sul limitare del bosco, mentre nel cono d’ombra del virus la polizia pattuglia le strade e perquisisce persone a caso per motivi arbitrari, e il potere esecutivo ci intima di celebrare il 25 aprile restando in casa e sventolando tricolori, è stato un piccolo atto di insubordinazione.
Abbiamo portato i garofani rossi, abbiamo cantato Fischia il vento e Sivi sokole stonando a mezza voce come ubriachi timidi, e abbiamo parlato con una signora che aveva acceso una candela rossa sotto la lapide. Sulla via del ritorno, abbiamo lasciato ancora un garofano sotto la targa che ricorda i morti e i torturati nella villa triste di via Cologna, per mano della banda Collotti, e un altro ancora sotto la targa che ricorda gli ospiti della casa di riposo ebraica di via Kandler deportati ad Auschwitz.
Tornati a casa, abbiamo brindato col vino rosso, perché è giusto così.
La storia di D2
25 Aprile festa della liberazione dal nazifascismo.
Ci troviamo in pochi, si evade si onora la resistenza.
Monumenti e lapidi in ricordo della repressione nazifascista sono sparsi in ogni paese del comune.
Ricordiamo i caduti per la libertà a modo nostro brindando presso ogni monumento.
La vergogna che proviamo è nel vedere assenti le istituzioni comunali, populisti che vanno a pari passo con i fascisti e nemmeno degni di due parole sullo schifo di facebook.
Schiviamo due pattuglie, ci assale l’idea di dover discutere con i servi dello stato. Ci va bene, non ci fermano, stanno controllando altre macchine.
Si continua con il nostro tour antifascista. Ogni monumento un bicchiere in ricordo degli eroi.
Smrt fašismu Svoboda Narodu!
La storia di R
Cerco sul telefono sulla pagina delle lapidi partigiane quella di Agostino Priuli. Nei giorni scorsi ho fatto una ricerca e ho visto che, tolta quella chiusa negli uffici del comune, è la più vicina a casa nostra. Pagina caricata, pronta per la lettura, E. prende i fori di carta che ha realizzato l’altro ieri con la mamma, la quale mette in borsa lo scotch per attaccarli e usciamo.
È una giornata di pieno sole, la strada non è più deserta come una settimana fa (in realtà è qualche giorno che le vie si stanno ripopolando) e non c’è la proliferazione dei controlli che mi sarei aspettato in questa giornata. In cinque minuti raggiungiamo la lapide, stiamo scegliendo come attaccare i fiori quando arrivano un padre ed il figlio, un po’ più grande di E., con una rosa vera, prima noi e poi loro aggiungiamo i fiori al mazzo di quelli finti deposti l’anno scorso dall’ANPI, e io leggo la storia di Priuli dalla scheda dell’Istoreto, dopodiché scambiamo due parole con lo sconosciuto che ha avuto la nostra stessa idea. Ci racconta che lui e la moglie stanno facendo il giro alle lapidi separatamente, per rispettare alla lettera le disposizioni, e che dopo questa loro andranno alla lapide di via Muriaglio, mentre noi siamo diretti a quella che il sito segnala nella più vicina piazza Adriano. Ci salutiamo e proseguiamo ognuno per la sua strada.
Piazza Adriano è una gigantesca rotonda con nella parte centrale due aiuole molto grandi, separate tra loro da corso Vittorio Emanuele II, il sito dell’Istoreto indica che la lapide è nelle aiuole senza indicare con precisione il punto, quindi vaghiamo per una decina di minuti alla sua ricerca, senza risultato. G. insiste che la lapide non sia nelle aiuole ma dall’altro lato di corso Ferrucci, io le rispondo “Ma no, guarda la mappa, dice che è qui”, ma alla fine non trovandola accetto di andare a vedere dove dice lei, ed effettivamente ha ragione, la mappa dell’Istoreto è sbagliata. Anche qui leggo la scheda relativa a Giovanni Martinetti, decisamente più scarna della precedente, poi ripartiamo.
Visto che non abbiamo incontrato pattuglie decidiamo di prolungare il nostro giro, risaliamo via Dante di Nanni (che è comunque in tema) per raggiungere la lapide di Giulio Berardengo in piazza Sabotino, circa a metà strada incrociamo una signora che ci avverte che nella piazza c’è la polizia che sta multando i passanti. Ci fermiamo per decidere il da farsi, pochi scambi di battute poi alla fine l’ultima parola spetta a E., “Voglio andare dove avevate detto”, dice, e come si fa a dirgli di no?
Arriviamo in piazza Sabotino, a una decina di metri dalla lapide da un lato ci sono due digos, dall’altro una camionetta con una decina di poliziotti, per la maggior parte in mimetica, ma nessuno di loro si interessa a noi, neanche quando ci fermiamo davanti alla lapide . Stavolta non ho cercato la scheda, questa targa fa parte del percorso del corteo che il CSOA Gabrio organizza ogni anno nel pomeriggio del 25 aprile, quindi la storia di Giulio Berardengo la conosciamo già, facciamo solo una breve sosta e poi ripartiamo senza essere multati. Evidentemente la polizia è lì per presidiare il percorso abituale del corteo. Il Gabrio ha pubblicato un comunicato che annuncia che quest’anno ci si limiterà alla tradizionale lettura delle pagine di Senza tregua sulla morte di Dante di Nanni sotto le finestre della sua casa, ma evidentemente non lo prendono sul serio, e presidiano il percorso per impedire la celebrazione.
A questo punto possiamo dirci soddisfatti della nostra uscita e ci dirigiamo verso casa. Certo, è triste il confronto con le celebrazioni degli anni scorsi, con il corteo di centinaia di persone, le chiacchiere, le birre bevute sotto il sole, ma contemporaneamente è l’uscita più lunga dell’ultimo mese e mezzo. Può darsi che stavolta il 25 aprile anziché la conclusione di una rinascita ne segni l’inizio.
La storia di S
Più che in manifestazione, il 25 aprile l’ho quasi sempre passato in montagna, spesso in Val Grande, a volte gioiosamente a sciare, mi sembrava un omaggio anche quello. Oppure tra le pagine di un libro, insomma, sono una persona solitaria. Questo 25 aprile è diverso. Nessuna montagna e un libro non bastava. A Bollate, dove mi trovo in questo periodo, la targa commemorativa dell’ANPI sta dentro al cimitero ma il cimitero è chiuso. Così, la mia amica L mi dice che da febbraio c’è una pietra d’inciampo in via Mazzini, dedicata a Elia Mondelli, che era anche un amico della sua famiglia.
La cronaca ci dice che «Elia Mondelli nasce a Dergano (Mi) l’8 marzo 1923. Operaio, aderisce alla Resistenza e si unisce ai partigiani che operavano a Luino, sul monte san Martino. In seguito a un attacco nazifascista, si rifugia in Svizzera con un gruppo di compagni, ma, dopo pochi giorni, decide di rientrare in Italia per proseguire la lotta contro la dittatura. Arrestato e seviziato per il suo silenzio, viene portato a San Vittore, per poi essere trasferito a Fossoli, Bolzano, Mathausen e, infine, nel campo di Gusen. Dopo tribolazioni e patimenti, riesce a rientrare a Bollate dove, finita la guerra, costruisce la sua famiglia e la sua nuova vita, senza dimenticare il suo passato. Si iscrive all’ANED (Associazione ex deportati) raccontando la sua esperienza soprattutto nelle scuole e ai giovani. Muore a Bollate nel 2003.»
Non ho avuto modo di conoscere “el Lia”, come lo chiamavano gli amici, e anche per questo mi è sembrato che portare un fiore sulla pietra di inciampo fosse la cosa giusta da fare oggi.
Sono andata a raccogliere due papaveri, dietro casa mia crescono sin sui marciapiedi, di quel rosso acceso che non so voi, ma io i papaveri non smetterei mai di guardarli.
Ho deciso che oggi niente tuta, ho messo i jeans e ho sciolto i capelli. Con i papaveri in mano a attraversare la città, ogni passo una conquista, mi sentivo quasi bella.
Ovviamente la pietra d’inciampo era fuori dai canonici 200m. E già immaginavo che proprio nel migliore dei casi le forze dell’ordine mi avrebbero detto eh, ma se tutti facessero come lei. Al che gli avrei risposto eh, ma se non lo facesse nessuno non sarebbe mica peggio?
… Usciti ci introdussero in un nuovo locale, eravamo ancora tutti nudi era la “baracca di quarantena.” A questo punto di fecero coricare sulle tavole di legno, in costa, uno di testa e l’altro di piedi. Passammo così la prima notte, subendo periodicamente le passeggiate dei Kapò che con i loro zoccoli si assicuravano che il loro pavimento fosse uniforme e che nessuno di noi facesse il furbo prendendo una posizione differente. E poi giù bastonate a destra e a manca per farci stringere, per far posto agli altri. A volte facevano stendere sul pavimento un doppio strato di prigionieri. Da questi preliminari iniziavamo a convincerci che non saremmo più usciti da quell’esperienza. Rimanemmo in quelle condizioni per una settimana, senza sapere cosa sarebbe successo, senza nessun conforto se non il pensiero delle nostre famiglie.
Non ho incontrato divise lungo il tragitto, solo la gente in coda al supermercato e all’edicola. Poi ho raggiunto la via. Da una finestra aperta sentivo una signora che parlava di cassa integrazione. Da un’altra le note di “Andromeda”. A un certo punto sono arrivata al civico che mi ero segnata, ma la pietra non c’era. Così, chiamo la mia amica L e proprio mentre mi risponde vedo la pietra luccicare dall’altra parte della via.
“Niente scusami, non trovavo la pietra ma adesso l’ho vista.”
Ho appoggiato i papaveri e ho fatto una foto. La mia amica S. dice che fatto così da sola non serve a niente. “El Lia” scrive questo:
Quando vado nelle scuole indico ai ragazzi come la politica stia naturalmente in tutte le cose che svolgono nella giornata.
(Fonti: http://www.deportati.it/static/pdf/libri/mondelli.pdf; https://quibollate.it/pietre-dinciampo-alla-memoria-di-vincenzo-attimo-ed-elia-mondelli-la-posa-sabato-8-febbraio/)
La storia di M2
Versione solo testo: Magia e Liberazione. Un’impresa collettiva
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Seconda puntata, 1 maggio 2020
La storia di L
Vivo da 5 anni in un bosco in Val Sangone, nel Comune di Giaveno, in una valle poco abitata tra la Val Chisone e la Val di Susa, in provincia di Torino. In questi giorni di isolamento vengo ripagata potendo uscire, dalla baita in cui vivo, a piedi ed evadere nei boschi in cerca di nuovi sentieri. Per l’evasione antifascista invece sapevo dove volevo andare, due luoghi che ricordano giovani morti. Così il 23 aprile ho raggiunto Roc dou preve, un masso lungo una sterrata che porta alle ultime borgate prima del colle, zona molto vissuta dai partigiani, solo 3 anni fa, in un piccolo ricovero per animali, sono state trovate due casse di armi nascoste lì nel periodo della resistenza. A Roc duo preve vi è una targa che ricorda la morte nel 1945 di un bambino di 8 anni a causa di una mina. Quella fu una zona di rastrellamenti e di azioni molto pesanti anche per i civili. Ci sono andata a piedi dalla mia baita. Ho incontrato solo un residente di un’altra borgata che sostava sulla strada. La lapide è curata e ci sono dei fiori finti. Li ho sistemati, ho toccato quella roccia pensando alla crudeltà di minare zone boschive, ben sapendo che avrebbero portato morte a caso per lungo tempo.
Oggi invece, 25 aprile, sono stata sul versante della Val Sangone che guarda la val di Susa, quota 1000 mt, alle Prese di Fransa. Un altopiano molto bello, ai piedi del Col del Besso, una manciata di baite in pietra abbandonate, bosco di faggi e prati. Lì vi è una lapide in memoria di Tiziano Chiabai, partigiano di Udine, ucciso dai nazifascisti durante i pesanti rastrellamenti svolti in valle nel novembre del 1944. Aveva 18 anni.
Ho portato un vaso con un fiore rosso e ho piantato a terra una margherita. Ho cantato in memoria di tutti i morti durante la resistenza, Siamo i ribelli della montagna e Bella ciao, colonna sonora di questa mia giornata, ho bevuto il serpül che faccio con il timo che raccolgo qui. Lo sguardo fiero di un’altro partigiano ribelle era nel mio cuore, quella di mio nonno, Matteo Cavallera, partigiano nella Brigata Saluzzo, nel cuneese. Ero emozionata e triste. Un senso quasi di timore per dover celebrare questa giornata di nascosto, che trovo molto preoccupante, tristezza perché ero da sola, nessuno era passato di lì oggi a commemorare quella morte ed il suo valore. L’anno scorso, in questo periodo, accompagnavo le classi delle scuole medie dell’hinterland torinese, all’Ossario dei caduti ed alla Fossa comune di Forno di Coazze, luogo simbolo della resistenza in Val Sangone. Quest’anno solo silenzio e senso di impotenza. Ma forte era la voglia di essere lì sapendo che altri stavano recandosi in diversi luoghi della memoria, con la stessa emozione nel cuore.
La storia di A1
Da qualche tempo ci stiamo incontrando, in pochi a dire il vero, 2, massimo 4. È l’unico trefolo cui posso aggrapparmi in questa ritirata asfittica, e altri con me. In alcuni, un atomo, non abbiamo mai smesso di farlo, mai chiuso i battenti sociali. Ora i contatti si infittiscono, con mille precauzioni, sterilizzati anch’essi, ma devono, dobbiamo vederci. La serrata in questa protesi del centro, in questa terra socialmente distanziata dal ‘cuore pulsante’, ha ingobbito quasi tutt* – come altrove del resto – e non dà cenno di allentare. Una clausura sempre più illogica, irrazionale, uguale a sé stessa, seppur senza una vera forma o traccia, mutevole nei giorni e nelle divise. Da tempo ne registro memoria e orma, il solco che scava, sintomi dello stesso male d’altri altrove, comunità fisse e sdrucciolevoli, sfarinate e rarefatte, oblique.
Ieri mi chiama uno dei pochi, di quel giro strettissimo con cui continuiamo o meglio proviamo a non arrenderci.
– Sai cosa è successo? –, chiede con un tono di voce rotto e un ritmo frenetico, urgente. Non viene di persona, come suo solito, ché lo hanno avvertito con fermezza, i suoi orari d’uscita futile sono ridotti al lumicino, all’alba o col buio.
Cosa cazzo può succedere ancora; nemmeno il tempo di rispondere e continua, la necessità comunicativa si fa sempre più pressante: – Hanno fermato il figlio di Z. all’imbarcadero, faceva due passi sul lago.
– Cooosa? –, domando in un vortice di rabbia e stupore.
Non ci posso credere, penso di non aver capito, me ne convinco: ho quel cazzo di rumore metallico che sferraglia sopra la testa, uno dei tanti elicotteri dediti a questa pornografia filmica dell’escursionista, di chi cerca di sgranchire gli arti.
Sono sicuro, DEVO non aver capito.
Questa è quotidianità, a questo siamo ridotti: da giorni pale a tutte le ore, anche col buio, e se non è l’uccello metallico allora sono i suoi moscerini, i droni. A chi mi sta parlando sono comparsi in giardino, dentro casa; G. se li è visti sfrecciare mentre stendeva sul balcone, come anche T.
Il porto cazzo, quella prominenza a getto sull’acqua lungo una linea di pavé deserta, il porto è in centro al paese, non è nemmeno quegli altri 200 m più in là, dove si piazzano e bivaccano i CC, dietro a una curva e riparati, pronti a chiamare l’intervento di altre pattuglie, posti là a spezzare una comunità.
Finora il primissimo tratto di lago tra la punta settentrionale ancora libera, più in là invece vietata e transennata, e fin poco prima della sbirraglia era presidiato dai vigili. Tutt’al più un richiamo e via, a casa, litigi, qualche tensione e pressioni pesanti ma ancora nessuna multa per noi delle “vicinanze”, una piccola zona franca strappata a suon di non ci sto.
– Sì, l’hanno raggiunto, passeggiava e sono intervenuti in motoscafo, dal lago. Sono partiti a tutta velocità, l’hanno preso e gli han fatto il verbale, multato.
– Cioè? Ora escono in barca?! A questo siamo, al sadismo? Cosa cristo stanno facendo, cosa ancora? Dobbiamo vederci.
– Sì, a chi ce la fa prima, ciao. –, in effetti l’incontro era già programmato.
***
Il vetro vibra, ne percepisco chiare le onde, mi attraversano e mi fanno sobbalzare, mi giro di soprassalto.
“Chi è?” – penso – “Ah, certo, guarda com’è conciato”, porta cappello da pescatore, occhiali scuri da cui discende un foulard infilato nel collo della giacca tirata su. Mascherato da folletto da B-movie, degno di un film di Monnezza, è fuori dalla sua portata esistenziale, dai suoi 200 m, senza motivo.
– Entriamo?
– Si, non mi fido a stare qui, ormai è impossibile, mi stanno addosso.”
Scendiamo, prendo due sedie e iniziamo a parlare fitto, in brevissimo tempo concludiamo che basta, è tempo di unire i corpi: le uscite solitarie, individuali non bastano più, non possono. Non sono sufficienti nemmeno quelle a due, come questi incontri vietati e clandestini; dobbiamo ampliare, dobbiamo vederci, sorriderci e se non ci starà il giro contatteremo i montanari, anni luce avanti alla rassegnazione di certi compagni.
Tutt’ad un tratto la porta cigola, le nostre espressioni cambiano, cala immediatamente un silenzio denso, opprimente. Mi scopro a gesticolare, sto indicando un angolo cieco ammassato di materiale, quello che era fisico si tramuta in ombra che muove muta alle mie spalle mentre di slancio salgo le scale.
Falso allarme per fortuna, è lui, potevo immaginarlo, è il suo orario; il riflesso è duro a spegnersi, gesticolo ancora, mimo, gli indico di sbrigarsi e scendere.
Sotto l’ombra è scomparsa, o meglio non la rintraccio subito, sorride infrattata dietro un angolo, anzi no, ha capito e sta ridendo, mima un balzo e: – Stiamo pensando di andare in montagna, ci stai?
– Perché non direttamente al C., alle 10:00 depongono una corona di fiori.
– Bene, può essere –, siamo dell’idea, ma se fossimo solo in 3 avrebbe valore quasi zero, sarebbe soltanto l’ennesima e canonica testimonianza poco più che individuale.
– Ok, ma se non peschiamo un minimo cambiamo piano e torniamo alla montagna.
Cosa è resistenza in questo aprile 2020? Abbiamo convenuto che non è negare ma è non negarsi, Covid-19 c’entra poco, non si tratta di corsa alle armi né del suo semplice ricordo per giunta a un balcone, alla finestra, così come non è guerra a un nemico invisibile, anzi, maledetta sia questa stucchevole retorica. Non si tratta di salire in montagna a combattere o ricordare, si tratta di opporre corpi, distanziati ok, sorrisi e pensiero a un potere che è sempre quello, quello che ci vuole ghettizzati, antisociali, quello che ci vieta di portare un piatto di pasta o un tozzo di formaggio a qualcuno in difficoltà, che spesse volte ci nega DI SAPERE se qualcuno è in difficoltà.
No, non stiamo combattendo un subdolo e invisibile virus: qui, oggi, si tratta di replicare a un virus che ha nome e cognome, fatto di negazioni, divise, confino e abusi, sensi di de-responsabilizzazione assortiti e coercizioni varie, negazionismo scientifico paternale e mascherato, isolamenti in paesi, valli e palazzi già normalmente distanziati, isolati. Prove di controllo che nulla hanno a che vedere con la sanità pubblica e parecchio col gusto del castigo: esci, lavora e torna a casa, esci consuma e torna a casa, come da ragazzini dopo qualche stronzata, “ora TU esci solo per andare a scuola e torni qui, in castigo!”.
Ci accordiamo sul giro di chiamate e decidiamo di aggiornarci al pomeriggio col risultato della conta, con uno straccio di certezza.
Ore frenetiche che man mano si dipanano lasciano un ottimo sapore, presto ci rendiamo conto che qualcosa si è rotto, qualcuno che non si era più visto risponde subito che sì, ci sarà, e alla fine raggiungiamo 18 adesioni, avremmo potuto essere molti di più, forse, ma abbiamo deciso di non lanciare una chiama pubblica, sarebbe stata troppo rischiosa, avrebbe potuto far saltare tutto.
7:00 del mattino, scendo con Z. e controllo la situazione, un’auto dei CC blocca la strada principale, l’elicottero già vola. Io mi dirigo verso la caserma, “merda, sono già tutti fuori, chissà come andrà a finire”, mi dico. La sensazione è comunque buona, l’umore anche, “dai, su che ce la facciamo”.
9:00 del mattino, squilla il telefono: – Sono sotto di te, sono uscito con la scusa di pane e giornale, ho incrociato 3 pattuglie, due muovono e una staziona.
– Ok, dove? Una l’ho vista anch’io, quella ferma, è dalle 7 che la controllo. L’altra che ho incrociato piegava in direzione della P.
– Io ne ho viste in via M., alla S. e in via T..
– Bene, alle 10:00, non un secondo prima, dobbiamo sbucargli tutti assieme –, beate l’operosità e puntualità di qui, alle volte servono davvero.
Alle 10:00 allungo lo sguardo mentre cammino, siamo in 10, poi 12, poi 15, alcuni – pochi – mancano e non si presenteranno. Non importa, ormai è fatta e per dove siamo già 10 corpi sarebbero stati un gran successo.
Assistiamo alla deposizione dei fiori e aspettiamo che finiscano le due canzoni istituzionali, poi ci facciamo sotto e intoniamo Bella ciao, il pezzo prescelto, ci sarebbe di più consono a noi, ma questo lo conoscono tutti e non si sa mai che qualche passante per compere si aggreghi. E così sarà, nel picco sfioriamo le 20 persone.
Le autorità se ne vanno, i vigili controllano torvi e noi – non tutti che qualcuno se ne va subito – decidiamo che non è abbastanza, non tanto perché vogliamo osare, quanto perché finalmente ci siamo incontrati, possiamo guardarci e parlare, quanto è bello parlare guardandosi, quanto è liberatorio!
– Abbiamo del vino? Facciamo un brindisi?
Una voce urla: – Lo porto io, assieme ai bicchieri –, ha assistito e cantato con noi dal suo balcone, posto proprio sopra questa piccola e bellissima manifestazione.
Stappiamo la bottiglia, ridiamo, ci si allontana un passo in più e si calano le mascherine per bere, FdO passano più volte, controllano, scrutano, vanno e tornano ma non possono nulla, oggi sono impotenti. Gli stessi vigili che fino a ieri rimbrottavano e sbucavano da ogni angolo in veste da sceriffi e che domani riprenderanno lo sporco lavoro HANNO ceduto, controllano a distanza e stanno muti, oggi abbiamo rotto l’argine e finito il brindisi in quattro (il doppio del limite di assembramento fissato a due), poi in tre, ci facciamo vicini, discutiamo e progettiamo restando a ridere e finire l’ultima bottiglia per due intense e meravigliose ore, solo troppo brevi.
La storia di A2
Mentre mi muovo, mi rendo conto che molti dei canti che sento sono veramente delle eco, che percepisco solo quando sono nella posizione giusta rispetto agli edifici su cui il canto originale rimbalza. È come essere al centro di un enorme flipper, dove la pallina è il chiù dell’assiolo. Adesso, mentre mi avvicino degli ultimi metri, inizio a percepire l’altezza della fonte del suono. Sono ormai vicino, con pochi passi mi ritrovo sotto alla chioma di un pioppo enorme, da cui il canto continua regolare. Guardo in alto, scandaglio le sagome tra i rami e le foglie nere, sullo sfondo delle nuvole arancio del cielo cittadino. Muovo piano la testa. Il suono cessa. Rimango fermo immobile, tendo l’udito, il silenzio fischia tutt’intorno. Mi sembra di indovinare, tra le mille forme scure, una più regolare, appoggiata su un ramo, tondetta e minuta. Allungo il collo, osservo il minimo movimento.
All’improvviso, da lontano sento una macchina avvicinarsi all’incrocio, ancora non la vedo, nascosta dietro la siepe che circonda il cancello del parchetto. A quest’ora, sicuro che è la polizia, penso. Penso anche che io sono a 500 metri buoni da casa mia, e che potrei essere l’unica persona in strada di tutto il quartiere. Mi sento speciale ma anche un po’ esposto allo stesso tempo… è palese che non stia andando a fare la spesa. Troppo tardi per giocare a guardie e ladri e accovacciarsi dietro ad una macchina, l’auto sbuca dalla siepe e si ferma al semaforo, proprio di fianco a me, e mi trovo faccia a faccia con la polizia di stato (quelli meno amabili), cinque metri ci separano. La paranoia degli ultimi tempi, tutto l’impegno speso a pensare ad una scusa plausibile ogni volta che sono uscito di casa, le storie di prima mano di multe arbitrarie e inappellabili che ho sentito durante tutta la quarantena, rendono la mia situazione disperata quasi comica. In tutto questo sono in calze ed infradito, non posso neanche scappare. Tutto l’allenamento, tutte quelle corsette, sprecate. In un attimo scelgo la parte dell’ornitologo nerd ed inizio a fischiare fiù sulla stessa nota dell’assiolo, sperando in una risposta che possa fornirmi un alibi. Già mi ci vedo a convincere le guardie che la bellezza di quel richiamo è un motivo degno di autocertificazione. Dai, assiolo, canta, ti prego. Semaforo verde, l’auto riparte e mentre scompare lontano il canto riprende, ma adesso proviene dai cortili al di là della strada.
Me ne torno sciabattando verso casa. Mentre mi allontano, ricomincio a sentire intorno a me le eco del chiù, che cambiano di direzione e di ritmo man mano che percorro i cinquecento metri che mi riportano a casa, man mano che muta la configurazione degli specchi sonori dei palazzi intorno a me.
***
Mentre mangiamo tutti e tre tranquilli al sole nel nostro giardino, iniziamo a sentire un ronzio lontano, fastidioso, che aumenta via via di intensità. “Ma… lo sentite anche voi?“ chiedo. A. aggrotta le sopracciglia, tende le orecchie, guarda in alto e dice: “Cosa è?“, e mi indica un puntino in cielo, che si ingrandisce man mano che si avvicina, nero sullo sfondo azzurro. Un pettirosso si getta a capofitto dentro alla siepe, cinguettando all’impazzata. Poi silenzio, solo il ronzio meccanico del coso sopra di noi, con le lucette rosse accese. Il merlo arriva volando e si posa sul nostro tavolo, ci guarda, fischia due volte e riparte in volo.
All’improvviso dagli alberi, dai cortili, dalle siepi, dalle fessure degli edifici, dai comignoli, monta un fragore di fruscii di foglie e di rami, di cinguettii di guerra, le penne di arruffano, soffi e fischi da accapponare la pelle, tutto intorno a noi è agitazione. Vediamo uscire dall’edera, dalle chiome degli alberi, dalle siepi, miriadi di pennuti che si lanciano verso il drone. Sono così tanti che oscurano il sole, mentre la parabola del loro volo si avvicina all’obbiettivo, che ronza immobile ed ebete. Un istante dopo il ronzio cessa bruscamente in uno sbuffo di piume ed il drone rovina a terra con un tonfo di ferraglia e plastica fracassati, sul ghiaino dei vicini.
Il merlo torna al tavolo. Noi strappiamo un grosso pezzo di mollica di pane e glielo porgiamo, prima che voli via veloce. Poi riprendiamo a mangiare la nostra pasta al sugo di ortiche e papaveri.
La storia di D.
Domani sarà diverso perché è il 25…
I primi giorni, quando l’onda del brusio cresceva più della curva dei morti, mi ero anche prodigato a spiegare. In montagna non ci vengo. Punto. In montagna non si va. Punto. Perché basta una storta alla Torre, e si tira in piedi un casino per nulla.
A quei giorni si poteva ancora uscire. Anche al piano. Si poteva ancora praticare nel prato. Restando a tre metri. Si poteva passeggiare, da soli, senza far male a una mosca. Aveva senso non salire: sacrifico un po’ del mio per evitar a mio fratello più piccolo, volontario nel Soccorso, di stare in ballo 5 ore per venire pigliarmi anche solo per una stupida storta. Sai che casino se poi mi trovan con la goccia al naso?
Ti guardano… due battute e si ride lo stesso, mentre tutti però pensano: “…e se fosse Covid ?” … No no. Meglio lasciar perdere.
Anche se di là del lago, vedevi netta la traccia degli skialper fuori regione. Avevano approfittato del blocco. A quel tempo ancora solo per noi. Ma all’inizio aveva senso. In montagna non ci vengo. Punto. In montagna era giusto non andare. Punto. Ma domani… domani sarà diverso, perché è il 25.
Già era accaduto. Il sabato prima del lunedì in cui è dilagato il divieto, ci accosta in auto la Polizia. Un agente che conosco. Mi dice assertivo: “Ma non li sai, i morti? … ma allora, non li vedi i tiggì? … pensate di essere i furbi? … i più furbi? Le regole son fatte per esser rispettate”.
Rispondo che non c’è alcun divieto vigente. Che stiamo lavorando. “Vuoi l’autocertificazione?”
Non gli dico che camminavamo a tre metri. Lo ha visto. Non gli dico che indossiamo la mascherina. Lo vede. Non gli dico che la moglie di Beppe indossa due ore al giorno la bombola dell’ossigeno. Già lo sa.
“Era solo per avvisarvi… avvisati, mezzi salvati”. Ripartono. In auto. In due senza mascherina.
Dal lunedì dopo niente più spostamenti se non per le celeberrime ragioni. Due settimane abbiam resistito. La terza era troppo. Le buone ragioni per stare a baita restavano tutte. Ma già allora non se ne poteva più. Ma la prima fuga non è stata politica. Perché mica era il 25. Era solo un bisogno profondo. Limbico. Di stanchezza e cielo.
Per tre settimane, la troppo zelante protezione civile ha infatti consegnato pacchi per il paese con l’alto parlante acceso. Solo la voce del poliziotto. Lo stesso dell’ ultimo sabato all’aria:
Èbenerestareacasapercombattereilvirus.
NonusciteNonuscite.
Benerestareacasa.
Percombattereilvirus.
NonusciteNonuscite.
Èbenerestareacasa.
Percombattereilvirus.
NonusciteNonuscite.
Per tre, quattro volte al giorno. Anche nei posti strambi. Addirittura per i boschi perdio! Li sentivi quando passavano lenti, vicino alla persona con cui eri al telefono…” ‘spetta che passano… Èbenerestareacasapercombat… ok,vai:ora ti sento”
Siam scappati di notte per sfogare l’eccessiva pressione subita. Partiti alle 5 e rientrati alle 17. A piedi da casa. Già un viaggio. Solo un chilometro su trenta di strada carrozzabile. Il resto boschi. Milleotto d+. Niente cima. Troppo esposta. Ne avevano già presi una mezza dozzina i forestali. Unendo l’utile (… la passeggiata che li tiene in salute) al dilettevole (… la caccia ai camminatori di boschi).
Non cammino per 24 ore. E mi vien pure la febbre. Ho esagerato dopo un mese di blocco totale. Ma ne avevo bisogno. Non era “politico” allora, era solo il corpo… Tre camosci nel canale a nord. E i larici. Sole. E il sole. Dio quanto sole. Anche troppo. Ho avuto la febbre due giorni… E l’elicottero. Ha fatto due giri e poi via verso nord. Ma tanto gli eravamo già sopra… lo abbiamo visto dall’alto… e se fosse stato politico già il primo sgarro?
Ma domani non è il bisogno di andare. E proprio che si vuole andare. Perché è il 25.
“Ciao D., si, tutto ok… dici di fare oggi?” Ci penso. Ha ragione. Domani è il 25 e ci saranno i blocchi stradali. Temono le fughe verso le seconde case. “Andata allora, a stasera”
Stacco un’ora prima e mi fermo a comprare due dalie rosse. Raggiungo D. al suo paese. Ha l’auto piena di cartoni. Anziché fermarci al centro di raccolta proseguiamo qualche decina di metri e prima della galleria svoltiamo a monte. Saliamo al tornante e lasciamo lì l’auto. Passiamo la volta rugosa del vecchio tunnel del saggio di scavo per la statale. La strada passa lì sotto a quaranta metri, fra il lago e la parete. La statale, che di solito rigurgita il caos è deserta. Il sentiero d’accesso al luogo della fucilazione è stato tagliato di fresco e ridiamo. Si sentono solo le pietre cadere dalla scarpata di sopra. Forse un cinghiale. Ed un mare di uccelli. D. posa le dalie e le innaffia. “Bello qui, non c’ero mai stato. Ci tornerò il 26 a piantarle.”
Il 26 D. torna e le pianta. Trova un altro mazzo di fiori. Al ritorno lo fermano i carabinieri. Se la cava. Stava andando al centro di raccolta a buttare i cartoni ma era chiuso.
La storia di I
Ci pensavo da qualche giorno: cosa faccio il 25 aprile? Resto a casa con la mia famiglia? Per me il 25 aprile è sempre stata l’unica vera festa, quella che merita di essere festeggiata e durante la quale, appunto, si fa festa. Si sta con gli amici, si mangia, si beve, si balla, si ascolta musica, si va a sentir la banda suonare davanti al monumento ai caduti per la Resistenza, si ritrova quella piccola comunità di persone che ancora un po’ ci crede in quei valori che sono anche i tuoi.
E a maggior ragione in questi giorni di autoritarismo strisciante (o forse sarebbe meglio dire manifesto), pensavo, è importante riaffermare quei valori. Proprio quest’anno sarebbe stato importante festeggiare il 25 aprile in grande stile. Aspettavo qualche notizia, qualche cenno, sussurro, spiffero di altri come me che sentivano l’esigenza di festeggiarlo fisicamente questo 25 aprile, in piazza, con le dovute cautele, ma con la propria presenza. Invece niente. I sussurri parlavano di cantate collettive, alla finestra o online, di incontri virtuali in rete, di proiezioni di documentari o film a tema.
Venerdì pomeriggio ero nel campo davanti casa e guardavo gli iris che stanno esplodendo in questi giorni e mi è venuta l’idea, non molto originale, certo. A cena ho informato la mia famiglia che sarei andato a portare dei fiori al monumento ai caduti per la Resistenza la sera stessa perché, ho pensato, domattina sarà pieno di polizia e non mi farebbero nemmeno avvicinare. Mia figlia si è preoccupata che mi arrestassero, mia moglie ha preso la notizia con ironica rassegnazione, sapendo però che stavo facendo una cosa a cui tenevo.
Alle 21:30 ho inforcato la bici e mi sono diretto verso la città. Abito in campagna, a circa 7 chilometri dal centro di Pistoia dove si trova Piazza della Resistenza e il suo giardino, all’interno del quale c’è il monumento. Facendo la doccia avevo studiato il percorso in modo da evitare le strade principali e più frequentate. Ho incrociato qualche auto e qualche passeggiatore solitario e dopo circa 25 minuti sono arrivato in piazza. Ho legato la bici, sono entrato nel giardino attraverso un varco tra le siepi, ho preparato il vaso con acqua e fiori che mi ero portato da casa, ho posato la Costituzione accanto al vaso, ho scattato una fotografia e sono uscito dal giardino. Dopo 25 minuti ero a casa senza aver preso multe o denunce. Mia nonna abita vicino a piazza della Resistenza, quindi, in caso di blocco, avrei potuto escogitare una scusa, ma avevo deciso di dichiarare esplicitamente la ragione della mia uscita.
Oggi ho riflettuto a lungo sull’episodio di ieri sera. E’ un’azione assolutamente insignificante per il resto del mondo, ma non per me. Il bisogno era prima di tutto fisico perché non potevo pensare di passare un 25 aprile con le mani in mano; poi per riconoscenza: i partigiani mettevano quotidianamente a rischio le loro vite e io non posso rischiare una multa e una denuncia?; infine un certo senso di vergogna: come mi sentirò se non lo faccio?
Ma quello che mi ha colpito di più è stata la sensazione successiva alla “azione”. Ancora la vergogna, ma stavolta perché avevo fatto una cosa con il cuore, convinto che fosse giusta oltre che necessaria, ma l’avevo fatta di nascosto, come un ladro. Avrei dovuto farla a mezzogiorno, davanti a tutti, anche alla polizia. Ma non ho avuto il coraggio.
E così si riaffacciano tutti quei dubbi che mi porto dentro da anni sulla mia inadeguatezza di fronte ai problemi che ci pone il mondo. Cosa significa essere di sinistra? E’ sufficiente leggere i libri giusti (ammesso che ci siano), moderare i consumi, andare in bicicletta e fare un sacco di altre cose giuste, ma che non spostano di un millimetro lo stato delle cose, per sentirsi in pace con la propria coscienza? Abito in un bel posto, faccio un lavoro che mi piace e ho la pancia piena tutti i giorni: probabilmente sono molto più borghese di quello che vorrei o, come dicevano negli anni settanta con tono dispregiativo, un piccolo borghese.
La mia generazione è stata totalmente castrata dal punto di vista politico. Ha prodotto Letta, Renzi e Salvini. Oggi, 25 aprile 2020 ha perso l’ennesima, forse ultima, occasione che aveva, quella di scendere in strada a festeggiare la festa della Liberazione, a manifestare col proprio corpo il dissenso alla gestione approssimativa, mistificatoria, incompetente e autoritaria dell’emergenza Covid. Invece è restata a casa, nel migliore dei casi alla finestra o davanti ad un PC a cantare Bella ciao, comprese tante persone a cui voglio bene. Io non ho né una forza morale né una capacità politica tali da poter giudicare queste persone. Hanno fatto quello che si sono sentite di fare, così come ho fatto io, ma, né io né loro cambieremo le cose.
Spero ancora nei ragazzi, con cui ho a che fare quotidianamente, e nella loro voglia di riprendersi il mondo che abbiamo scippato loro. Spero ancora negli ultimi, quelli che non hanno più niente da perdere eccetto la loro dignità. Io, intanto, continuerò a portare fiori al monumento ai caduti della Resistenza o sul luogo dell’uccisione di Silvano Fedi, comandante anarchico delle Squadre Franche Libertarie di Pistoia ucciso dai tedeschi il 29 luglio 1944 che, proprio oggi, avrebbe compiuto 100 anni. Lo farò perché mi fa sentire bene.
Vi saluto con le parole di un mio ex studente (di cui sono molto orgoglioso):
Questo è il momento in cui chi ha il coraggio e la forza di volontà va sulle montagne. Adesso, senza perdere altro tempo, capiamo quali sono le nostre montagne, troviamo le nostre armi, creiamo un progetto dietro cui unirci e resistiamo. Abbiamo mille ragioni per cui saremo sconfitti, ma di giustificazioni per non fare la nostra lotta, nemmeno una.
La storia di M
Quando esco per andare da D. è diverso. Succede sempre ad orari in cui la strada scivola sotto le ruote come un nastro scuro di VHS e le immagini si srotolano in un’eterna curva verticale. Di notte il tempo rallenta e la paura non esiste perché sai che si tratta solo di un sogno. Mi sento l’unico essere vivente, l’unico oggetto in movimento. Dopo la giusta quantità di alcol sembra sempre una buona idea; il giorno dopo riapro gli occhi un po’ stordita chiedendomi se sono fortunata o folle, però mi sento viva ed è per questo che non mi va di rinunciare a nutrire questo piccolo mostriciattolo anarchico che ormai mi è diventato simpatico.
A casa beviamo ancora qualcosa insieme, un distillato di pera in una bottiglia di cantina regalata da un amico, nel quale D. ritiene di spremere del limone. Pessimo risultato. Parliamo per ore e, come al solito, non saprei dire di cosa, intanto finiscono le sigarette; per fortuna c’è ancora il tabacco. Ok, andiamo a letto, ma niente sesso, solo abbracciati. Ci credo quando lo dico – giuro – poi però l’odore della sua pelle disinnesca ogni logica e si appanna la finestra dietro cui le ragioni stanno ancora argomentando le loro tesi con ardore.
Lo bacio sulle tempie per un tempo infinito, lui sembra capire, ci abbracciamo. Un attimo dopo labbra, anime e fluidi si stanno mescolando a un ritmo dolce, profondo, antico. Quando facciamo l’amore così mi sale un po’ di malinconia perché vorrei che non finisse mai e inizio a pensare al nome che ti darei. Chissà se un giorno potrò raccontarti che sei stata concepita il 25 aprile 2020, da un atto di amore e resistenza. Chissà se riuscirò a spiegarti che meraviglioso casino eravamo tuo padre ed io, nonostante tutto. Chissà se deciderai di attraversami e con quale forma, con quale suono, se diventerai di carne o se resterai d’inchiostro.
In ogni caso saresti poesia o forse lo sei già.