Se andrà tutto bene sarà sulla nostra pelle – Riflessioni di un professionista sanitario durante la pandemia di Covid-19

Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro: […] di curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna, promuovendo l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza nella tutela della salute; […] di attenermi ai principi morali di umanità e solidarietà […]

Giuramento di Ippocrate

Agli operatori sanitari morti finora in questa battaglia. Che il vostro sacrificio non sia stato vano.

Non è semplice per chi lavora in uno degli ospedali più colpiti dalla pandemia scrivere qualcosa in questa fase. Il rischio di essere poco lucidi e scrivere solo “di pancia” è dietro l’angolo.

Stiamo vivendo, ciascuno nel suo quotidiano, un periodo storico che mai ci saremmo aspettati.

Al silenzio che pervade le strade delle nostre città fa da contraltare un fastidioso rumore di fondo fatto di populismo, fake-news, teorie del complotto, legalitarismo, darwinismo sociale, ricerca del capro espiatorio ma soprattutto analisi eccessivamente superficiali dei fenomeni. Ciò non significa che solo gli esperti abbiano diritto di parola o che debba essere azzerato ogni dibattito e quindi vada messo in stand-by il concetto di democrazia e di pluralismo sacrificando tutto sull’altare della salute pubblica. Tutt’altro! Bisogna invece comprendere che tutti noi siamo impauriti e molti di noi cercano delle risposte e delle speranze come e dove possono. Andremmo tutte e tutti rassicurati, e non “blastati” dai vari Burioni di turno!

Senza alcuna pretesa di addentrarmi troppo in territori che non mi competono, ossia in una dettagliata analisi politico-economica delle scelte che hanno indebolito il sistema sanitario nazionale italiano, vorrei coinvolgere il lettore in alcune mie personali riflessioni da “addetto ai lavori”.

Negli ultimi giorni, nell’ospedale dove lavoro si respira un clima diverso; lo si legge negli occhi, negli sguardi di solidarietà e persino in qualche raro sorriso che si intravede sotto le mascherine di tutto il personale. Sembra esserci una nuova consapevolezza: l’impressione è quella di essere nuovi partigiani chiamati a combattere un nemico tanto invisibile quanto temibile. Un nemico che sta mietendo troppe vittime proprio tra il personale sanitario. Se per alcuni la definizione di “partigiani” dovesse risultare eccessiva, per lo meno c’è da rallegrarsi del fatto che dopo decenni di invisibilità o, peggio, dopo essere stati troppo spesso identificati come “fannulloni” o “furbetti” dai vari Brunetta o Madia, sembrerebbe che improvvisamente la società abbia avuto un’epifania e stia dando al nostro ruolo il riconoscimento sociale che merita.

L’emergenza che stiamo vivendo, con tutte le conseguenze che ne derivano, è prima di tutto sanitaria e mai come adesso è fondamentale prendere coscienza dell’importanza del diritto alla salute e della difesa del sistema sanitario pubblico, gratuito ed universalistico. Ma non basta: il sistema sanitario dev’essere anche adeguato!

Prima di tutto è indispensabile fare un po’ di chiarezza e comprendere per quale motivo, dal punto di vista strettamente sanitario, la situazione attuale sia un’emergenza. Il virus SARS COV-2, che causa la malattia denominata Covid-19, di per sé non ha una letalità spaventosa se comparato, ad esempio, alle morti dovute ad altre cause come l’inquinamento atmosferico nella pianura padana, l’influenza stagionale o persino le infezioni ospedaliere. Ma questo vale solo se ci fermiamo ai numeri grezzi senza contestualizzarli.

L’emergenza è legata al fatto che per il Covid-19 non c’è alcuna cura farmacologica ed ancora nessun vaccino, ma esistono solo delle terapie di supporto.

La rapida diffusione del contagio satura in breve tempo e contemporaneamente i posti letto disponibili nei reparti di malattie infettive e soprattutto nelle terapie intensive. Circa il 15% dei contagiati, infatti, soprattutto se di base hanno già altre malattie, sviluppa una grave insufficienza respiratoria acuta che spesso regredisce spontaneamente ma, nel frattempo, i pazienti sopravvivono solo se vengono sottoposti a delle metodiche di ventilazione meccanica (e/o in taluni casi extracorporea) che aiutano o vicariano i polmoni a svolgere la loro funzione di ossigenazione del sangue; in caso contrario si andrebbe incontro a morte certa. L’altro grande problema è che occorre considerare che, dalle esperienze fin qui acquisite, i tempi di ricovero dei pazienti con il Covid-19 nei reparti di terapia intensiva sono molto più lunghi della media: 30 giorni circa, contro i 14 di tutti gli altri pazienti con patologie differenti ricoverati in terapia intensiva. Nel frattempo i letti continuano ad essere occupati anche da altri malati.

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È anche vero, inoltre, che questo virus non è poi così democratico come ce lo raccontano. Chi ha una probabilità maggiore di decesso, infatti, sono i soggetti che già soffrono di malattie croniche, che vivono da soli e che spesso hanno difficoltà di accesso alle cure o tendono a procrastinarle per problemi economici.

Passiamo al racconto di ciò che sta accadendo negli ospedali italiani in questi giorni: una parte del personale sanitario, già perennemente sotto organico e con un elevato tasso di burn-out si ritrova improvvisamente, senza la giusta preparazione, in prima linea a dover gestire dei pazienti con quadri clinici estremamente critici ed affrontare un sovraccarico dei ricoveri e delle procedure diagnostiche. Come se non fosse sufficiente, i dispositivi di protezione individuale a disposizione non sono sufficienti e, all’inizio dell’epidemia proprio per questo ne viene scoraggiato l’utilizzo se non si sta direttamente a contatto con pazienti sintomatici. Anzi, a fine febbraio l’utilizzo delle mascherine negli ospedali viene disincentivato e quasi criminalizzato, in quanto “potrebbe generare inutili allarmismi”. Nel giro di qualche giorno, così, il personale sanitario ed amministrativo di molti reparti viene contagiato da pazienti e parenti asintomatici o paucisintomatici (che presentano sintomi lievi) e contribuisce a diffondere il virus anche fuori dall’ospedale. Nel frattempo i dispositivi di protezione individuale (mascherine in primis) continuano a scarseggiare, al personale viene sempre più spesso chiesto l’ulteriore sacrificio di andare in deroga al limite massimo di durata dei turni di lavoro per sopperire alle carenze lasciate dai colleghi in quarantena e contemporaneamente vengono sospese ferie e congedi. Viene chiesto addirittura, nelle prime settimane, a chi risulta positivo al tampone di tornare al lavoro se asintomatico.

A questo punto il buon senso e le evidenze scientifiche imporrebbero di ampliare lo screening diagnostico a tutti i sanitari, ma ancora una volta le risorse sono insufficienti, sia per la scorta limitata di tamponi, sia per il numero insufficiente di operatori nei laboratori analisi.

Già il 13 febbraio era stata pubblicata una lettera sul Lancet intitolata: “Protecting health-care workers from subclinical coronavirus infection”. Gli autori sottolineavano quanto il tributo pagato dal personale sanitario in precedenti epidemie fosse stato immenso. Essi poi dimostravano, quasi fosse una profezia di quello che è accaduto in Italia, con documentati esempi circostanziati che il coronavirus in Cina è stato trasmesso al personale sanitario anche da casi paucisintomatici o del tutto asintomatici e concludevano: “Questi risultati giustificano misure di protezione aggressive (come occhiali protettivi, maschere FFP2 e camice idrorepellente) per garantire la sicurezza di tutti gli operatori sanitari durante la presenza di un focolaio di epidemia da COVID-19 – o future epidemie – soprattutto nelle fasi iniziali in cui le informazioni sono ancora limitate su trasmissione e potenza infettiva del virus”.

Alle ore 18:00 del 17 marzo sono 2629 gli operatori della sanità di cui è noto il contagio, su un totale nazionale di 28293: il 9,3%. Una percentuale elevatissima.

Tre medici ed un giovane soccorritore del 118 sono già morti, una anestesista trentacinquenne che conosco personalmente è in gravissime condizioni qui a Padova e chissà quanti altri casi non conosco o sto dimenticando.

Iniziano ad arrivare le prime notizie di morti tra medici, infermieri e personale sanitario e, mentre la stampa e l’opinione pubblica inizia a celebrare i lavoratori della sanità come “eroi”, noi iniziamo ad avere paura: ogni turno di lavoro somiglia sempre più ad una battaglia e molti di noi stanno iniziando a curare, su quei letti d’ospedale, i propri colleghi o i propri familiari. Già! Perché, nonostante venga propagandato che abbiamo spirito di abnegazione e veniamo dipinti come degli angeli o dei missionari, questa è in fin dei conti una professione: abbiamo tutte e tutti dei mutui o degli affitti da pagare (a fatica), delle passioni e degli affetti da coltivare nel poco tempo che ci rimane tra un turno e l’altro e spesso delle persone care da accudire, in molti casi degli anziani estremamente fragili. Ebbene sì: come tutti, lavoriamo per il salario e i soldi sono anche maledettamente pochi se commisurati all’importanza del nostro operato ed ai rischi che dobbiamo sobbarcarci! E abbiamo anche delle paure e fragilità umane.

La protezione civile, il Ministero della Salute e le donazioni dei privati stanno finanziando nuovi posti letto e una forsennata e spasmodica corsa all’accaparramento di respiratori per la ventilazione meccanica. L’attività chirurgica viene mantenuta solo per le urgenze ed emergenze, quella ambulatoriale viene sospesa. Tutto ciò è utilissimo, ma illogico se poi ci si troverà senza personale per assistere i pazienti oppure con molti di quei nuovi letti e respiratori occupati da personale sanitario contagiato. Le assunzioni dei neolaureati sono una soluzione parziale ed assolutamente insufficiente nell’emergenza: adesso non c’è tempo da dedicare alla formazione.

Il settore delle cure primarie non ha potuto dare un contributo rilevante alla gestione dell’emergenza riducendone l’impatto sugli ospedali. È emerso l’isolamento dei medici di base, carenti di mezzi, quasi senza informazioni certe dalle ULSS di riferimento che non sono state in grado di coordinare in maniera efficace.

Un’analisi di come siamo arrivati a questo punto è doverosa, se non altro in segno di rispetto a quell’infinita fila di bare in una tenda della protezione civile appena fuori dall’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ed ai familiari che non potranno nemmeno dare a quei corpi l’ultimo saluto. Alla fine del periodo d’isolamento avremo tutte e tutti una gran voglia di ripartire e tantissimi problemi sociali ed economici con cui dover fare i conti, ma dovremo avere anche la consapevolezza di quali siano le battaglie di giustizia sociale sulle quali essere pronti a non fare un solo passo indietro.

Per questo motivo sento che è importante scrivere, in un secondo momento, un breve report nel quale proverò ad inquadrare l’emergenza all’interno di un paradigma di messa a profitto del diritto alla salute, con relativi tagli ai finanziamenti pubblici, aziendalizzazione degli ospedali ed elargizioni ai privati e, grazie anche all’esempio di altri paesi, tenterò di individuare dei possibili scenari di uscita.

 

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