Come in un cinico gioco dell’oca, le strategie messe in atto dal governo per fronteggiare la pandemia continuano a perseguire l’eterno ritorno dell’uguale.
Mentre è sempre più evidente come la scelta estiva di dichiarare il “liberi tutti e senza cautele”, cedendo alla pressione dei grandi interessi turistici, sia stata una delle cause della virulenza della seconda ondata che ha investito il Paese, rieccoci proiettati nella medesima situazione con l’avvicinarsi delle feste natalizie.
Dal primo lockdown sono stati spesi oltre 120 miliardi, ma la situazione del sistema sanitario, della sicurezza nei posti di lavoro e del trasporto pubblico è rimasta invariata, trasformando ancora una volta un serio problema epidemiologico in una tragedia di massa.
Contemporaneamente, sono state inondate di soldi, e senza condizione alcuna, le imprese, relegando alla disperazione le fasce meno protette della popolazione, nelle quali, secondo gli ultimi dati della Caritas, vanno annoverati 450.000 nuovi poveri.
Diritto al reddito e diritto alla salute sono quotidianamente messi in contraddizione per continuare a servire la religione del mercato e del profitto, dentro una narrazione che considera la pandemia come una parentesi in un percorso di per sé lineare, e un costante anelito al vaccino risolutivo che permetterà di tornare ad una normalità di ‘ricchi premi e cotillon’.
Paradigmatica di questa ideologia è la discussione politica di quest’ultima settimana, con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, in veste di santone della setta pentecostale della Borsa, che, da una parte, chiede al popolo -ormai definitivamente infantilizzato- di trascorrere un Natale sobrio, denso di spiritualità, fra congiunti stretti e senza abbracci, e, dall’altra, promette di farlo precedere da tre settimane di shopping sfrenato, per la gioia dell’economia (e di un virus che si prepara alla scorpacciata). Fino alla discussione -surreale quanto tragica- se debba prevalere il rientro a scuola degli adolescenti o il pieno nelle funivie e sui campi da sci.
“Produci, consuma, crepa”, antica canzone provocatoria dei CCCP, è diventata la dimensione esistenziale che viene proposta come vita dentro la pandemia, per tenere in piedi un modello economico-sociale strutturalmente insostenibile.
Per fortuna, c’è chi dice no. In questi mesi, molte lotte sono scese in campo per dire che la pandemia non è un evento estraneo, né un nemico invisibile giunto da chissà dove, ma il segno profondo delle contraddizioni di un sistema che non è in grado di garantire protezione ad alcuno, che si alimenta della diseguaglianza sociale, della devastazione ambientale, della mercificazione della vita e della natura.
Molte di queste lotte ed esperienze si sono ritrovate dentro un percorso di convergenza che rappresenta una promettente novità: il passaggio da un terreno -assolutamente necessario, ancorché insufficiente- di difesa dei diritti e di riduzione del danno, alla sfida aperta sul modello di società, dandole un nome e proponendo un orizzonte a tutte le persone che continuano a considerare insopportabile lo stato di cose presenti.
“Uscire dall’economia del profitto, costruire la società della cura” è ciò che ha mosso oltre 330 realtà collettive e oltre 900 persone attive individualmente a scendere in 45 piazze -fisiche e virtuali- sabato 21 novembre, costruendo un filo comune e praticando una speranza collettiva.
Una giornata pienamente riuscita, un primo importante passo di un percorso che ha bisogno di allargarsi ancora per poter iniziare a incidere in profondità.
Perché quello che vogliamo è semplicemente trasformare il mondo.
FONTE: https://www.attac-italia.org/virus-produci-consuma-crepa/