Piero Cipriano: “Ci hanno scaricato il senso di colpa da Covid”

7 novembre 2020

Per lo psichiatra basagliano e psico-farmacologo critico “governanti e media hanno trasferito le responsabilità, da chi governa a chi è governato”.

Ammalarsi di Covid, diventare potenziale veicolo di contagio e sentirsi in colpa, vivendo un sentimento “influenzato dall’informazione. Il contenuto dei diversi dpcm, il mantra continuo dei dati hanno avuto questo effetto: si è compiuta un’operazione mediatica di trasferimento delle responsabilità, da chi governa a chi è governato”. A parlare all’HuffPost è Piero Cipriano, psichiatra e psicoterapeuta di fama, autore de Il libro bolañiano dei morti (Milieu Edizioni, 2020), narrazione dell’anno del virus in cui la voce dell’autore riflette, dialoga, cita e racconta di follia, malattia, ecologia e morte dal suo punto di vista di medico e, allo stesso tempo, parte della collettività.

Nel volume, Cipriano mette in luce come l’uomo avesse dimenticato la sua condizione di organismo perituro: una coscienza che la pandemia ha riportato a galla lasciandoci spiazzati. “Eravamo convinti che la medicina fosse magnifica e progressiva, religione del nostro tempo, quando all’improvviso ci ha mostrato la sua debolezza. Ora siamo corpi. Corpi confinati in casa. Eravamo i padroni della terra, ora siamo tornati a essere abitanti impauriti nelle caverne”, afferma lo psichiatra.

Lei sottolinea che il virus ha fatto riscoprire all’uomo la sua condizione di essere perituro. Ci spieghi.

Il virus ha fatto irrompere la morte, in questo momento storico. Eravamo ingaggiati in una vita attiva, avevamo dimenticato che in fondo poi si muore. Altre epoche avevano dimestichezza col morire, perché forse era più facile morire, e non parlo solo dei vari libri di preparazione al moriente (il più noto Libro tibetano dei morti, ad esempio, che il mio libro in qualche modo evoca), nel Medioevo c’era tutta una letteratura che ricordava il memento mori, il vado mori, ecc. Da qualche decennio a questa parte, invece, ci eravamo convinti che la medicina fosse magnifica e progressiva, quando all’improvviso ci ha mostrato la sua debolezza.

Lo psichiatra Piero Cipriano

L’uomo come ha reagito?

L’uomo moderno, che già non aveva più le religioni, inefficaci ormai a rassicurarlo rispetto all’esistenza di una vita dopo la morte, adesso sta perdendo fiducia anche nei riguardi della religione del nostro tempo, la medicina.
La categoria medica, ma questo è noto, è poco preparata a comunicare la morte, un momento che di solito non viene gestito al meglio. Questa negazione del morire si manifesta anche attraverso una sorta di ipocondria che molti medici presentano. Ipocondria è timore del nosos (malattia), come preludio al thanatos (morte). Non è un caso che tanti virologi mediatici appaiano spaventati: allora non stupiamoci delle decisioni assunte da chi governa, su loro suggestione.

Non solo percezione di mortalità, ma anche senso di colpa: in questa seconda ondata dell’epidemia sembra che la maggior parte dei contagi avvenga all’interno delle famiglie o della rete di conoscenti. Un fenomeno che può portare chi crede di aver portato il virus “in casa” a sentirsi responsabile di fronte a parenti positivi o addirittura ammalati. Cosa ne pensa?

Ha detto bene, sembra. Si tratta di un vissuto influenzato dal ruolo dell’informazione. Il contenuto dei diversi dpcm, il mantra dei dati hanno avuto questo effetto: scaricare sulle persone la responsabilità del contagio. Se il contagio accade è perché ho fatto la cena in casa, per la movida, perché non ho indossato la mascherina anche quando ero da solo. No: il contagio si è verificato soprattutto in ambienti sanitari. I primi a contagiarsi sono stati, a marzo, medici e infermieri che (senza dispositivi di protezione, perché un piano pandemico aggiornato al 2006 ha fatto sì che per qualche settimana gli operatori sanitari, me compreso, abbiano navigato a vista, senza protezioni) si sono ammalati (e alcuni sono morti), uscendo di scena e andando a indebolire ancora di più la già fragile assistenza territoriale. Poi, il contagio è scoppiato nelle Rsa, nelle cliniche, nelle case di cura, negli ospedali.

Questo come si ripercuote sulla realtà domestica e sull’auto-colpevolizzazione dei pazienti?

Nei sei mesi tra la prima e la seconda ondata, ci sarebbe stato tutto il tempo per invertire la polarità dell’organizzazione del sistema sanitario nazionale. Ovvero depotenziare l’ospedale e disseminare nel territorio le cosiddette USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), mini equipe agili formate da medico e infermiere che andassero a casa a fare diagnosi (tamponi), triage (decidere chi ricoverare in ospedale e chi no) e iniziare terapie (eparina, cortisone eccetera). In modo tale da non determinare le selvagge code ai drive in e la saturazione di pronto soccorso e ospedali. Si sarebbe limitato così proprio il contagio domestico e familiare, che si verifica perché la medicina non sa uscire dall’ospedale, il suo tempio malato. Ma questo potenziamento della medicina extra-ospedaliera non è avvenuto, allora è stato più facile colpevolizzare le persone, arrivando a suggerire la delazione del vicino trasgressore. Si è compiuta un’operazione mediatica di trasferimento delle responsabilità, da chi governa a chi è governato.

Tra attese di esiti diagnostici e isolamenti forzati, il Covid sta costringendo sempre più persone in una condizione di attesa. È ipotizzabile una sorta di ‘ansia da limbo’?

I coreani già parlano di corona blue, una depressione, più che ansia, legata alla permanenza forzata tra le mura domestiche. Prima (cito il filosofo Byung-Chul Han) la società moderna era una società affaticata da un imperativo di prestazione, da un’isteria di lavoro e iperproduzione, e questa stanchezza veniva dagli psichiatri rinominata depressione (ecco il motivo di 400 milioni di depressi nel mondo, la gran parte erano stanchi di lavoro, potremmo dire, con un’iperbole) e la cura era un doping psichico con antidepressivi (legali) o droghe (illegali). Oggi lo stop forzato, questa sorta di trattamento sanitario obbligatorio, ha dato luogo al passaggio da una vita attiva a una vita contemplativa. Ma si tratta di una contemplazione non desiderata perché imposta, da qui una nuova forma di depressione. Una depressione da istituzionalizzazione potremmo dire. Ervin Goffman in Asylums diceva che le istituzioni totali sono quei luoghi (manicomi, carceri, conventi, caserme) dove si svolge ogni aspetto della vita: lavoro, svago, sonno, sesso, cibo. Le persone in lockdown non si sono trovate (e non si troveranno) a fare tutto in casa? Smart-working, didattica a distanza, guardare un film, ordinare un libro o il cibo con delivery, sesso virtuale, tra poco avremo perfino telemedicina. È un bene, dunque, che ci siano ansia o depressione, da non sedare subito con psicofarmaci: significa che il processo di trasformazione in electric sheep non si è ancora compiuto.

Al di là di tutto, lei dice che questo virus “non può solo aver fatto danni a questo pianetino”. Può la pandemia riportarci al rispetto della vita ed dalla capacità di immaginare mondi alternativi?

Più che altro lo spero, anche se tutto lascia presagire il peggio. Io però sono ottimista e dico che questo virus, e la noia da confinamento che per un anno ne è derivata è, per dirla con Benjamin, un “uccello incantato che cova le uova dell’esperienza”. Abbiamo fermato la “pura frenesia”, ci siamo fermati nel nido domestico a covare le uova dell’esperienza. Ovvero: la possibilità di pensare a ciò che stiamo diventando. Ci siamo separati dalla natura, come fosse altro da noi. La natura come oggetto da cui estrarre materia, profitto, all’infinito. Distruzione di animali (ora 17 milioni di visoni, dite che non è un olocausto?) e di piante, di biodiversità. Emergenza climatica che sembra non interessarci, presi dal turbine della vita activa. Ora possiamo riflettere sul nostro legame con la natura, capire che siamo parte di un bioma, e che il viroma (ovvero i virus del nostro corpo) interagiscono con il microbiota del nostro intestino e con il nostro genoma. Siamo incredibilmente connessi. È da questo sconfinamento, da questa nostra antropica invasione degli habitat di altre specie, che scaturisce il virus.
Ora siamo corpi. Corpi confinati in casa. Eravamo i padroni della terra, ora siamo tornati a essere abitanti impauriti nelle caverne.

Che società ne deriverà?

Se la pandemia è un test, tra il modello biopolitico europeo basato sul controllo dei corpi (confinamento in casa, sorveglianza militare delle strade) e il modello psicopolitico asiatico basato sul controllo delle menti (telecamere, riconoscimento facciale, app, rating individuale, sistema di credito sociale), il secondo ha vinto nettamente. E dunque si prospetta una “cinesizzazione” dell’Occidente. Una torsione delle nostre democrazie a favore di un modello tecno-totalitario. A quel punto il mondo alternativo, se ci sarà, arriverà solo dopo una guerra civile. Neoliberisti da una parte, suprematisti dall’altra, in mezzo gli altri, che staranno a guardare. E quando tutto sarà finito, ricostruiranno un mondo migliore. L’avevo detto che sono ottimista.

 

FONTE: https://www.huffingtonpost.it/entry/piero-cipriano-eravamo-i-padroni-della-terra-col-covid-siamo-tornati-abitanti-impauriti-nelle-caverne_it_5fa5c487c5b623bfac4f60cd


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