CATENE DI CARTA
Note sulla Sorveglianza Speciale
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A mo’ di premessa
Questo opuscolo è stato scritto nei primi mesi del 2020, quando cominciava a diffondersi il Covid-19 e l’Italia iniziava velocemente a sprofondare nello Stato d’Emergenza. Va da sé che, da allora, le cose siano cambiate molto in fretta e che certe affermazioni contenute in queste pagine appaiano già un po’ datate. Ecco perché questa premessa, necessaria e in un certo senso doverosa. Prima di tutto, gli aggiornamenti. Il processo per la sorveglianza speciale a tre antagonisti torinesi, candidati a questa misura per aver combattuto in Rojava nelle file della Resistenza curda, si è concluso con la sua applicazione a una di loro, Eddi, proprio nei primi giorni di lockdown. Ancora in corso è invece il processo per applicare la sorveglianza a cinque tra compagne e compagni di Cagliari. Paska, il compagno anarchico al quale era dedicata l’iniziativa a La Spezia dalla quale si sono originate quattro sorveglianze speciali, è stato nuovamente inquisito, arrestato e poi liberato nell’ambito dell’Operazione Bialystok, la recente ed ennesima retata anti-anarchica effettuata dai ROS, che vede attualmente sei compagni e compagne detenuti. Poco prima, proprio agli inizi della cosiddetta “fase 2”, un’altra operazione molto simile, sempre orchestrata dai Reparti Operativi Speciali dei carabinieri, aveva colpito diversi anarchici a Bologna con arresti e misure. Se questi compagni e compagne sono stati scarcerati dal Tribunale del Riesame (forse anche per gli effetti di una vivace mobilitazione in città), alcuni di loro sono attualmente ristretti da degli obblighi di dimora, come diversi altri anarchici e antagonisti nella penisola. Ancora, nell’ultimo periodo, ci è giunta notizia di un processo per sorveglianza speciale che si aprirà a Milano il prossimo 15 settembre contro due militanti del Comitato di Lotta per la Casa del Giambellino; mentre a Roma, il 17 dello stesso mese, la Corte di Cassazione si esprimerà sulle sorveglianze inflitte a quattro dei fermati in seguito all’iniziativa di La Spezia. Infine il 21 settembre, a Vicenza, si terrà un processo per applicare la sorveglianza a un compagno di quella città. Perché, potrebbe chiedere qualcuno, aprire questo testo con un simile bollettino di guerra, tanto veritiero quanto deprimente? Per completezza e rigore d’informazione, certo. Ma anche perché, alla luce di questi fatti, quello che abbiamo scritto mesi orsono ci lascia un po’ perplessi. Solo poco tempo fa dicevamo che lo Stato democratico, più che punire la manifestazione di certi propositi, li utilizza strumentalmente come indizi e prove di colpevolezza. Rilette adesso, quelle righe rischiano di trasmettere un’immagine imprecisa del presente, e di fare involontariamente un favore alla controparte. Se il senso complessivo di questa analisi resta per noi valido, è anche evidente come negli ultimi mesi la repressione di Stato abbia fatto un ulteriore passo in avanti. Quando si arrestano compagne e compagni come “terroristi” all’interno di inchieste per 270bis che ruotano attorno al reato e al concetto di “istigazione a delinquere”, ovvero a quanto i compagni scrivono sui loro volantini; e quando un anarchico (Paska) viene arrestato come “istigatore” per essere stato picchiato in carcere, non pronunciare l’espressione delitto politico appare (da parte dello Stato) una foglia di fico sempre più esile. Preferiamo apparire “vittimisti” che essere insinceri, o intellettualmente poco onesti: lo Stato arresta i compagni sempre di più per le loro idee e i loro propositi. Va da sé che il suo timore è che queste idee possano tradursi in azione. Ma d’altronde, non è sempre andata così, nella storia? Dagli eretici medievali alla carboneria, dai giacobini ai marxisti, dai mazziniani agli anarchici, non è mai esistita una repressione “platonica” di idee “platoniche”, cioè di idee che non avessero effetti sulla realtà (e non fossero in un modo o nell’altro “assunte” da chi le proclamava). A fare la differenza è soprattutto la profondità con cui lo Stato infierisce contro parole e gesti. Quando essere arrestati o trovarsi ristretti per aver attaccato dei manifesti, o per aver svolto un presidio, o per essere stati presenti a una manifestazione, comincia a diventare la normalità, il salto di qualità è flagrante. Non prenderne atto, e non nominare la cosa, significa ignorare il centro della questione, e tacere ciò che è centrale in nome di una “radicalità” del tutto malintesa.
Questo breve opuscolo cerca, tra le altre cose, di inquadrare lo strumento repressivo della sorveglianza speciale in un contesto che sta cambiando sempre più alla svelta, e che vede montare giorno dopo giorno, all’interno di uno Stato di Emergenza più generale, uno Stato di Emergenza specifico contro tutti quelli che lottano. Mentre Trump, in mezzo a un’America in subbuglio, tuona contro gli “anarchici” e gli “antifa” come responsabili delle rivolte (mandando un segnale preciso agli alleati NATO), in Italia gli apparati statali sembrano aver preso questa direzione già da tempo. E mentre una campagna mediatica attribuisce le rivolte di marzo nelle carceri ad “anarchici e mafiosi”, il capo nazionale della cosiddetta Antimafia agita lo spettro del 41bis contro i compagni. Se verso gli anarchici c’è un’attenzione tutta particolare (soprattutto dopo che, a partire dal 2015, la Direzione Nazionale Antimafia è divenuta anche Antiterrorismo, con la conseguente centralizzazione dell’attività delle varie procure contro i sovversivi), i colpi non vengono risparmiati neppure ad altre “aree”: basti pensare, senza sprecarsi negli esempi, alle misure cautelari ormai quasi assicurate dopo ogni manifestazione che veda delle cariche (peraltro sempre più “facili”) o alla proposta di revoca delle borse di studio a quegli universitari che a Torino hanno manifestato contro il Fuan lo scorso febbraio. Roba da red scare anni Quaranta, in una sorta di riedizione all’amatriciana del buon vecchio maccartismo a stelle e strisce. A quando il giuramento di “anti-anarchismo” o “anti-antagonismo” per i professori, o l’oscuramento di blog e siti internet troppo critici (peraltro già sperimentata, in piccolo, riguardo le cosiddette fake news sul Covid)?
Molte sono le cose di cui dovremmo ragionare, comprese quelle limitazioni “minori” (le sorveglianze o le misure cautelari non detentive) che hanno spesso l’effetto di strappare compagni e compagne ai loro contesti di vita e di lotta e ai loro affetti, di congelarne o limitarne le possibilità d’azione. Se il compagno che ne viene colpito dovrebbe evitare di sentirsi le manette ai polsi prima ancora di averle (perché si può continuare a lottare anche in mezzo a difficoltà ben maggiori), non dovremmo nasconderci che tenere viva la propria combattività (arrivando magari a infrangere le prescrizioni, o anche solo a forzarle, o ad aggirarle) è una questione tanto individuale quanto collettiva. Difficile farlo concretamente (cioè non limitarsi alla pura retorica del “non un passo indietro”), e soprattutto strappare qualche risultato positivo, quando manca un “movimento” capace di animare una autodifesa realmente efficace. Mentre qui ci limitiamo ad accennare a certe questioni, sarà giocoforza tornarci sopra in futuro. Se la situazione è cupa, non ne usciremo certo con dichiarazioni “eroiche” e roboanti. Un’analisi lucida e schietta, al contrario, è la condizione minima anche solo per tentare di affrontarla. Per capire, noi per primi, che cosa sta succedendo, ma anche per incontrare tutti quei potenziali complici (e ce ne sono) che annusando l’aria sentono il fetore della censura e del totalitarismo che avanzano.
Dedicato ad un aspetto specifico, ovvero la Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza, questo opuscolo vuole essere un piccolo contributo in questo senso.
Estate 2020