Consegnare il cibo durante una pandemia

23 Maggio 2020

Durante il blocco totale, le consegne a domicilio sono state considerate attività essenziale, costruendo un nuovo regime basato sullo sfruttamento dei lavoratori più deboli. E dimenticando che dietro a ogni consegna c’è un essere umano.

Sono quasi le sette di sera. Gabriel prende il cubo arancione, scende tre rampe di scale, inforca la sua bicicletta rossa ed esce di casa. Fuori, inizia a pedalare nel centro storico di Bologna: la città è così deserta e silenziosa da sembragli quasi cinematografica. Il suo turno come fattorino dell’applicazione My Menu inizia a breve: lavorerà fino alle nove o nove e mezzo di sera.

Con l’annuncio del decreto «Io resto a casa» da parte del premier Giuseppe Conte, dall’11 marzo le norme contro il diffondersi del Coronavirus vengono estese a tutta l’Italia. I viaggi e gli assembramenti sono vietati, gli spostamenti vengono limitati severamente. I dati ufficiali parlano di decine di migliaia di persone decedute a causa del virus e di centinaia di migliaia di casi positivi. L’Italia è in ginocchio. Con il lockdown nelle città le strade si sono pian piano svuotate di vita umana: mentre è al lavoro, Gabriel incontra solamente macchine della polizia, ambulanze e altri riders che come lui attraversano la città. Mentre pedala si sente vulnerabile e arrabbiato. Da settimane, il collettivo di riders a cui appartiene sta chiedendo l’interruzione del servizio di consegne a domicilio e un sostegno al reddito che permetta ai riders di restare a casa. Per ora però le loro richieste sono state ignorate.

Il Covid-19 è stato dichiarato pandemia globale, ma il governo italiano non ha smesso di considerare le consegne a domicilio come un’attività essenziale. Non importa quanto sia diventato rischioso il loro lavoro: i riders devono continuare a pedalare.

Riders nella pandemia

«Non penso che qualcuno in questo momento stia lavorando perché gli piace farlo o perché ha una particolare passione per il proprio lavoro – dice Gabriel, sarcastico – Chi lavora lo fa per la necessità paradossale di dover scegliere tra la tutela della propria salute e la difesa delle proprie fonti di reddito».

Gabriel ha venticinque anni, è di Milano ma si è trasferito a Bologna da un paio d’anni per continuare gli studi magistrali in psicologia. Ha iniziato a lavorare come rider nel 2018, alla fine del primo anno di università, per potersi mantenere. Prima dell’emergenza Covid-19, riusciva a guadagnare più o meno 550 euro lordi al mese lavorando tra le dieci e le quindici ore a settimana. Ha deciso di non restare a casa durante l’emergenza sanitaria perché sennò non avrebbe potuto pagare l’affitto, le bollette, la spesa. L’applicazione per cui lavora, My Menu, è stata una delle poche imprese che sin dall’inizio dell’emergenza ha deciso di distribuire mascherine e di stanziare un fondo di 12 euro per ognuno dei suoi riders affinché possano comprare dei dispositivi sanitari – come mascherine, gel, guanti – per far fronte alla pandemia di Covid-19. Ma lungi dal sentirsi privilegiato, Gabriel sa che sotto il giogo delle grandi aziende le condizioni di lavoro sono ancora più precarie. Con questi 12 euro Gabriel è riuscito a comprare solo una boccetta da 200 ml di gel antibatterico che gli è costata 10 euro, assicura però che dovrebbe bastargli ancora per varie settimane.

Anche Saeed Khan vive a Bologna e fa il rider. Ha 28 anni ed è originario di Peshawar, Pakistan. Prima di lavorare per l’inglese Deliveroo, una delle aziende più grosse del settore del food delivery, Saeed lavorava come saldatore e prima ancora, in Pakistan, studiava scienze politiche all’università.

«L’azienda ci ha dato un bonus di 25 euro che possiamo spendere in mascherine, gel o guanti: noi riders facciamo l’acquisto e poi dobbiamo mandare la foto della ricevuta alla app così poi ci rimborsano – spiega – Però è da giorni che giro per le farmacie e non ho trovato le mascherine, sono riuscito solo a comprare il gel: mi è costato 14 euro».

In mancanza di mascherine – un bene scarso di questi tempi – per proteggersi dal virus Saeed ha adattato un berretto nero che aveva in casa: l’ha tagliato per farlo diventare il più possibile simile a una maschera. Prima che il Coronavirus arrivasse a imporre un nuovo ordine sulla vita, Saeed lavorava tra le quaranta e le cinquanta ore a settimana, guadagnando circa 2.000 euro lordi al mese. Ora, anche se passa la stessa quantità di ore connesso, il suo guadagno si è ridotto drasticamente: possono trascorrere anche tre ore senza che riceva nemmeno un ordine. A marzo ha incassato solo 380 euro. Di disconnettersi dall’app però non se ne parla. Se lo facesse, il suo ranking si abbasserebbe e gli arriverebbero ancora meno consegne. Di questi tempi, poi, trovare un altro lavoro è praticamente impossibile.

«Tutti abbiamo paura: non ci sono più i soldi per pagare l’affitto – dice allarmato – Un amico lavora in un ristorante, ma ora è a casa e io metto i soldi per lui. Aiuto anche un altro amico che fa il rider ma vive in periferia: ora non può lavorare perché hanno sospeso gli autobus e non può arrivare fino in centro storico che è dove si fanno la maggior parte delle consegne».

La famiglia di Saeed, i suoi genitori e sua moglie, vivono in Pakistan. Ogni mese gli invia 300 euro per l’affitto e le spese alimentari. A Bologna abita con altre 14 persone in una casa in cui ognuno paga 200 euro al mese per un posto letto. In Italia gli affitti hanno un impatto maggiore sui redditi dei migranti e i subaffitti speculativi sono una realtà abbastanza comune. Secondo una ricerca condotta dal Sindacato Nazionale Unitaria Inquilini ed  Assegnatari (Sunia), gli alloggi affittati ai migranti sono spesso precari e privi delle infrastrutture minime richieste dalla normativa sulla sicurezza degli impianti domestici e condominiali. Inoltre, la diffidenza e i pregiudizi dei proprietari riducono le offerte a disposizione dei migranti che spesso accettano di pagare affitti molto alti. Molti dei coinquilini di Saeed fanno i fattorini e tutti stanno attraversando un periodo critico: al timore del contagio del virus si alterna quello di rimanere senza un soldo. Saeed racconta che a Bologna la maggior parte dei riders che continuano a lavorare sono persone migranti, soprattutto del Pakistan, del Bangladesh e dell’Iran. Anche in molte altre parti d’Italia la situazione è simile.

Il sushi non è un diritto 

Dal 21 febbraio il governo italiano ha emanato una serie di decreti per gestire l’aggravarsi dell’epidemia; alcuni di questi decreti non fanno che confermare che la tutela dei lavoratori in Italia è piuttosto fragile. Il decreto entrato in vigore l’11 di marzo ha limitato le attività commerciali, come negozi, bar e ristoranti, consentendo però la consegna a domicilio. Il food delivery è stato così definito come un servizio pubblico essenziale per «il corretto funzionamento dei settori rimasti in attività» e i rider come un soggetto chiave dell’emergenza.

Il decreto conosciuto come «Cura Italia», entrato in vigore il 17 marzo, ha stanziato diversi sussidi a vari gruppi di lavoratori economicamente danneggiati dal virus. Alcuni lavoratori rientrano in questo decreto grazie al loro profilo contrattuale, altri invece no. La collaborazione occasionale – il tipo di contratto più diffuso tra i riders – è stata esclusa.

Secondo Marco Marrone, assegnista di ricerca in Humanities and Social Change all’Università Ca’ Foscari di Venezia, il governo italiano sta affrontando la crisi costruendo un nuovo regime lavorativo basato sullo sfruttamento dei lavoratori più deboli, come quelli della logistica o dell’agricoltura: settori in cui prevale la mano d’opera migrante. «Si tratta di una nuova polarizzazione dentro il mercato del lavoro», afferma Marrone, specializzato in pratiche di resistenza dentro il mondo del lavoro. «Da una parte ci sono i lavoratori che stanno protetti nei loro ambienti domestici e dall’altra parte quelli che sono costretti a stare in strada, esponendosi al virus e mettendo a rischio anche i propri familiari dai quali ritornano la sera». Marco Marrone è anche uno dei portavoce di Riders Union Bologna, il gruppo di riders e di attivisti di cui fanno parte anche Gabriel e Saeed. «Ma che paese è quello in cui si basa la sopravvivenza di un lavoratore sullo sfruttamento di un altro? Altro che solidarietà nazionale!».

Mentre l’attività del food delivery veniva definita come servizio essenziale, la maggior parte delle applicazioni di food delivery lasciava nelle mani dei riders la gestione delle misure sanitarie necessarie per affrontare l’emergenza epidemiologica. E non solo dal punto di vista economico.

«Noi riders non abbiamo ricevuto una formazione adeguata per operare in un contesto del genere, le precauzioni sono lasciate alla nostra discrezione – osserva Gabriel – Per quanto cerchiamo di lavorare in sicurezza però, questa sicurezza non può esserci al 100%».

Di sua iniziativa ha instaurato un rituale sanitario che gli sembra accettabile: usa sempre la mascherina e si disinfetta le mani con il gel prima di entrare nel palazzo dei clienti e dopo esserne uscito. Quando ritira gli ordini resta a distanza di sicurezza e non tocca nessun’altra cosa che non sia la sua bicicletta. A casa non deve fare i conti con la paura di contagiare altre persone: la sua coinquilina, originaria dell’Abruzzo, ha dovuto lasciare Bologna dopo aver perso il lavoro. Era assunta in nero ed è stata licenziata dall’oggi al domani quando il posto dove lavorava ha chiuso a causa della pandemia.

Secondo la legge che è stata approvata l’anno scorso, la legge 3.9.2019 n. 101 – «Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali» – le piattaforme sarebbero obbligate a informare e formare i riders e a fornirgli i dispositivi di protezione individuale: quelle attrezzature destinate a essere indossate dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro i rischi presenti nell’attività lavorativa. Nella presente emergenza Covid-19 questi dispositivi sono rappresentati da mascherine, gel disinfettante e guanti. Nonostante l’esistenza di una legge in materia, frutto peraltro delle lotte portate avanti dalle organizzazioni di base dei riders, la maggior parte delle imprese hanno iniziato a muoversi con un preoccupante ritardo e con metodi non sempre ottimali.

A Roma, Glovo ha delegato il compito ai propri drivers. Gli ha consegnato una partita di mascherine e li ha incaricati della successiva distribuzione tra i riders. A Torino le buste con i kit promesse dall’impresa Just Eat hanno iniziato ad arrivare il 30 marzo, il contenuto: una mascherina monouso. Il 18 marzo Deliveroo ha annunciato il bonus di 25 euro di rimborso per l’acquisto dei dispositivi di protezione. L’aiuto però era valido solo per chi avesse fatto almeno una consegna nelle due settimane precedenti: se avevi smesso di lavorare perché la storia del virus iniziava a preoccuparti e non ti sentivi protetto erano fatti tuoi.

«La scelta tra salute e reddito è un ricatto – dice Tommaso Falchi, rider e portavoce di Riders Union Bologna che nell’emergenza Covid-19 ha potuto scegliere di non lavorare – È un controsenso che un servizio pubblico essenziale lo faccia un lavoratore precario e sfruttato: come Union stiamo cercando di far capire alla gente che il sushi a domicilio non può essere un diritto e che la pizza a casa può aspettare».

Riders contro il capitalismo

A metà marzo, riders di varie parti d’Italia hanno lanciato una campagna di hashtag facendo diventare virali foto e video in cui si ritraggono con una serie di cartelli con su scritto: #PeopleBeforeProfits, #NonPerNoiMaPerTutti, #StopConsegne. L’iniziativa è stata organizzata da un’alleanza di diversi sindacati indipendenti e organizzazioni di base come Deliverance Milano, Riders Union Bologna, Riders Union Roma, Riders per Napoli – Pirate Union, e il network torinese Deliverance Project.

È da fine febbraio che le organizzazioni dei riders hanno iniziato a dare segni d’allarme: varie imprese, preoccupate per il recesso economico, si sono già affrettate a dimezzare le ore e le paghe in maniera arbitraria. Il virus ha messo a nudo la pandemia permanente del lavoro precario. Attraverso la rivendicazione #NonPerNoiMaPerTutti i riders dimostrano di schierarsi a favore di un’ampia gamma di lavoratori vulnerabili: operatori sanitari e scolastici, tecnici dello spettacolo, lavoratrici domestici, dipendenti della ristorazione e del turismo, braccianti agricoli e molti altri. Rivolgendosi al governo, sindacati indipendenti e organizzazioni di basechiedono l’interruzione del servizio di consegna a domicilio, l’accesso a un cuscino di sicurezza sociale, l’effettiva distribuzione dei dispositivi di protezione individuale da parte delle aziende e la sospensione degli obblighi fiscali per tutto il 2020. Hanno anche aderito alla campagna del reddito di quarantena: una richiesta politica promossa da una rete nazionale di lavoratori precari che chiede al governo una misura di sostegno continuo per garantire una vita dignitosa e autodeterminata.

«L’emergenza non ha fermato il dialogo tra i vari soggetti sparsi sul territorio italiano, anzi li ha aiutati a trovare dei punti in comune nonostante le loro differenze: il discorso sulla sicurezza sul lavoro, per esempio», osserva Paolo Borghi, assegnista di ricerca al Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche  dell’Università Statale di Milano. Soppesando le raccomandazioni che le imprese hanno dato ai riders rispetto alla nuova modalità di consegna «contactless», Borghi non può che sottolineare che il lavoro dei riders non ha nulla di autonomo. Quando prescrivono ai riders delle norme di comportamento da adottare durante la pandemia, le piattaforme non solo comunicano delle semplici questioni tecniche: stabiliscono delle regole rilevanti dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, smantellando di fatto l’ingannevole mantra «sii il capo di te stesso». «A mio giudizio le piattaforme si sono viste obbligate a un riposizionamento proprio a causa del battage comunicativo in materia di salute portato avanti dalle organizzazioni dei rider», afferma Borghi in riferimento all’annuncio fatto da Deliveroo per cui se un riders contrae il virus o viene messo in quarantena potrà beneficiare di un sostegno finanziario per un massimo di due settimane.

Tra le organizzazioni di riders c’è unità anche nel denunciare le operazioni di social washing che hanno intrapreso varie app. È il caso, per esempio, delle donazioni realizzate da Just Eat: per ogni ordine effettuato il 26 e il 27 di marzo, l’impresa ha dato 50 centesimi all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «È una strategia di pura speculazione: le aziende fanno lavorare i riders in una situazione di rischio e su questo rischio si arricchiscono. Inoltre, in Italia non pagano mezzo euro di tasse e così facendo contribuiscono alla crisi del welfare e della sanità italiana», spiega Gabriel.

In America Latina, l’unicorno colombiano Rappi sembra percorrere lo stesso cammino. Con la diffusione dell’emergenza epidemiologia, la start-up ha distribuito cinquecentomila pasti gratuiti al personale medico impegnato nella prima linea dell’epidemia. Rappi però non ha ancora fornito ai suoi riders – ovvero coloro che nei fatti rendono possibili queste consegne «solidali» – i duecentomila gel disinfettanti e mascherine annunciati in un comunicato stampa durante l’ultima settimana di marzo, né dice quando questi dispositivi saranno consegnati.

Per Angelo Avelli, portavoce di Deliverance Milano, per sfidare le piattaforme è necessario studiare con calma le mosse da fare. Non agire con impulso. «Per ora non siamo riusciti a ottenere il blocco del servizio, però abbiamo strappato degli obiettivi intermedi: creare più consapevolezza tra la gente, estendere la nostra rete di contatti tra i riders ma anche comunicare ai lavoratori di altri settori che i dispositivi di protezione individuali devono essere forniti dalle aziende», commenta. Questi risultati non sono nati dall’oggi al domani. Negli ultimi anni, le organizzazioni di base sono faticosamente riuscite a posizionarsi nel dibattito pubblico per dimostrare che i riders non sono né «manager di loro stessi», né persone che giocano ma lavoratori a tutti gli effetti che hanno diritto agli stessi diritti di cui godono gli altri lavoratori.

Varie di queste organizzazioni hanno una componente mista: ci sono riders, attivisti, ricercatori precari, studenti che riconoscono nella battaglia dei diritti lavorativi dei riders una portata simbolica che va oltre il settore del delivery food. Secondo Marco Marrone, si tratta di delle specie di coalizioni urbane. A Milano e a Bologna si ritrovano periodicamente in spazi autogestiti in cui si svolgono anche altre attività politiche. Organizzano assemblee, sportelli di consulta per i lavoratori e condividono pratiche di mutualismo come le ciclofficine, luoghi chiave che servono per costruire alleanze non solo virtuali e non solo legate alla politicizzazione dura.

Una bomba sociale

«Noi viviamo ancora peggio il dramma. Vediamo quello che succede nel nord Italia e qui si sta generando una specie di psicosi di massa», spiega Antonio Prisco, 37 anni, portavoce di Riders per Napoli – Pirate Union.

Nel sud Italia l’avanzata del virus è lenta ma la si vive con il fiato sospeso. Qui le strutture sanitarie sono estremamente più scadenti e precarie rispetto alle regioni del nord e un contagio massivo potrebbe far collassare il sistema sanitario in tempi record. Fino a prima della pandemia, Antonio lavorava per due applicazioni: Deliveroo e Glovo. Quello di rider non è però il suo unico lavoro: per tre mesi all’anno fa l’operatore turistico incoming. Con le consegne riesce ad arrotondare per arrivare all’estate seguente con un pizzico di stabilità economica in più. Racconta di aver fatto attività politica sin dai tempi del liceo e che questa passione l’ha portato a battersi per i diritti dei riders che ora cerca di sindacalizzare attraverso riunioni, campagne informative e proteste. Le applicazioni avranno di sicuro portato un miglioramento in termini di guadagno, sottolinea, ma i diritti dei lavoratori rimangono ancora una chimera.

«Partiamo dal presupposto che il 90% dei riders napoletani fino a un anno fa lavoravano in fabbrica sei o sette ore al giorno per 100 o 150 euro a settimana. Al nero. In fabbriche che sono scantinati e dove non esiste nessun tipo di diritto. Per molti di loro l’arrivo del lavoro di rider o della cosiddetta gig economy è stata un manna», spiega.

A differenza di città come Milano o Bologna, a Napoli quasi tutti quelli che lavorano come riders sono italiani e non migranti. E come succede per tanti migranti, anche per la maggioranza dei rider napoletani questo è il primo lavoro e non un gig occasionale che decidono di fare quando hanno voglia o tempo. Con l’emergenza sanitaria c’è chi può decidere di non lavorare più e chi no. Antonio racconta che ha scelto di non uscire più di casa perché si sente responsabile nei confronti della madre anziana. Altri non escono più a fare consegne perché hanno bimbe piccole, magari anche di pochi mesi, e preferiscono stringere la cinghia piuttosto che esporre sé stessi e la propria famiglia a un possibile rischio di contagio.

«Molti decidono di usare i soldi che hanno messo da parte per le tasse, non sapendo come riusciranno a pagarle a maggio. Dove li ritroveranno i soldi che avevano messo da parte e che ora stanno spendendo?».

La Campania è la prima regione meridionale in termini di diffusione del virus. La Campania è anche la prima regione meridionale in cui si sono messe in atto misure restrittive fin dagli inizi della crisi sanitaria. Opera del presidente della regione Vincenzo De Luca, soprannominato «lo sceriffo» per la serie di ordinanze draconiane che ha iniziato ad applicare sin dai tempi in cui era sindaco di Salerno. Con anticipo rispetto ad altre regioni, la Campania ha rafforzato le misure restrittive sospendendo le attività di ristoranti e bar, ma non le consegne a domicilio; anche dai supermercati e dai negozi che vendono beni di prima necessità possono ancora partire le consegne. Le ordinanze regionali hanno dato priorità alla salute pubblica, ma hanno anche ridotto la possibilità per la maggior parte dei riders di ottenere un reddito minimo: senza un piano finanziario compensativo, i conti non tornano.

«Dietro a una consegna ci sta un essere umano»

Per aiutare chi più ne ha bisogno, il 28 marzo il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato un fondo di solidarietà di 4,3 miliardi di euro destinato ai Comuni e altri 400 milioni di euro per sindaci e amministratori locali da utilizzare in buoni pasto per le persone colpite dalle ricadute economiche. Gli aiuti però tardano ad arrivare e in molte case, specie di piccoli commercianti o di chi vive con lavori mal pagati e spesso al nero, le dispense si sono svuotate velocemente.

Le prime tensioni sono scoppiate in varie città del sud Italia a fine marzo. A Bari, una commerciante protesta davanti a una banca: esige, scongiura che le diano un anticipo della pensione non ancora pervenuta. La accompagna il figlio che prende a calci la cancellata della banca, se potesse la abbatterebbe. Un uomo che assiste alla scena gli allunga qualche banconota e torna frettoloso sui suoi passi. La scena diventa virale: dai balconi la gente filma quelle grida che ingombrano con furia la strada – ora, uno spazio vuoto.

A Palermo un gruppo di persone fa la spesa in un discount locale e cerca di andarsene senza pagare. Ora, davanti a vari centri commerciali, si vedono agenti di polizia che presidiano l’ingresso, proteggendo pasta, passata di pomodoro e pane da chi ha fame. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha esortato il governo a istituire al più presto un fondo di emergenza per i cittadini più poveri e per chi ha perso il lavoro: «C’è una nuova povertà: la povertà del Coronavirus; e c’è un disagio che può trasformarsi in violenza», spiega Orlando in un video-messaggio.

«Se non ci sarà un contributo serio, tanti riders ci mettono un attimo a togliersi la giacca e la borsa e mettersi il passamontagna per andare a fare gli scippi perché a casa devono portare da mangiare, il fitto lo devono pagare – dice Antonio, perentorio – In questo momento lo Stato si deve mettere una mano sulla coscienza perché, se la gente rimane con l’acqua alla gola, dopo la crisi sanitaria potrebbe scoppiare una crisi sociale enorme».

I riders sono anche potenziali bersagli della rabbia che cresce. A Palermo, un rider di 24 anni della steakhouse Zangaloro è stato rapinato nel quartiere Zen il 28 marzo: aveva con sé ottanta euro in contanti. Anche a Napoli le rapine ai riders che lavorano con i contanti succedono spesso. Prima che la crisi Covid-19 oscurasse il resto delle rivendicazioni lavorative, Pirate Union stava esigendo un indennizzo per questo tipo di incidenti. Ora, a detta di Antonio, ci sono problemi più gravi: che tipo di aiuti darà il governo? Quando arriveranno? Per quanto tempo basteranno? «Per i clienti noi siamo come un drone che gli porta la spesa, le medicine. Non capiscono che dietro a una consegna ci sta un essere umano con una vita, una famiglia: una persona che ha dei problemi da risolvere», dice Antonio.

* Caterina Morbiato, antropologa e giornalista indipendente che vive a Città del Messico. Scrive di diritti del lavoro, migrazioni e diritti umani.

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobinmag.

FONTE: https://jacobinitalia.it/consegnare-il-cibo-durante-una-pandemia/


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