Emergenza Covid-19 in Rojava. «Ci stiamo attrezzando»

I territori del nord-est della Siria si trovano a fronteggiare la diffusione della Covid-19 dopo nove anni di conflitto che hanno distrutto ogni forma di welfare. La testimonianza di Luca, cooperante per la ong “Un ponte per”.

«Le conseguenze sociali della crisi sono ancora oscure, ma è importante mantenere viva l’attenzione e la solidarietà internazionali su quanto sta avvenendo in Rojava». Luca è attivo da oltre tre anni nel nord-est della Siria come Operation Manager per l’organizzazione umanitaria “Un Ponte Per”. In questo momento si stanno occupando sotto molteplici aspetti dell’emergenza Covid-19, sia mettendo a disposizione e gestendo una ventina di strutture sanitarie sul territorio sia portando avanti campagne di informazione e prevenzione con la popolazione della regione autonoma del Rojava.

Qual è al momento la situazione sanitaria nella regione?

Non appena si è capito che l’epidemia di Covid-19 si stava diffondendo dall’Iraq e dalla Turchia, l’amministrazione autonoma del Rojava ha deciso di imporre un coprifuoco nell’area. Da metà marzo, dunque, la popolazione del nord-est della Siria è in un regime di isolamento sociale che prevede un orario di quattro ore al giorno per l’approvvigionamento di beni alimentari o di altro tipo, mentre farmacie e presidi sanitari rimangono aperti più a lungo. Piano piano le misure sono state progressivamente allentate.

 

Sino ad ora, i casi confermati nella zona sono pochi: si parla di meno di dieci contagi totali e tutti concentrati nella città di Hassake, che è uno dei maggiori centri urbani.

 

Va però precisato che la capacità generale di identificare i casi di Covid-19 e, in generale, la possibilità di eseguire test è molto bassa, per cui i dati potrebbero non essere al cento per cento affidabili.

 

Il primo ospedale dedicato alla Covid-19 nell’area (fonte: Un ponte per)

 

Come sta reagendo la popolazione?

L’amministrazione autonoma del Rojava fin dall’inizio dell’epidemia ha avviato delle campagne informative, che fra le altre cose hanno previsto interventi delle autorità sulle televisioni locali e comunicati per le città e i paesi tramite altoparlanti. Noi stessi di “Un Ponte Per” siamo impegnati con circa 200 operatori in un lavoro di comunicazione porta a porta per istruire la popolazione sulle possibili azioni preventive da mettere in campo, dall’autodiagnosi alle misure igieniche.

 

Le reazioni, dunque, variano molto da zona a zona, da villaggio a villaggio. Dipende molto dal livello di istruzione, dalla composizione etnica, etc.

 

Ma, in generale, bisogna anche considerare che la popolazione siriana vive in una situazione di emergenza costante praticamente dal 2011. È un’area di conflitto e, come tale, un contesto in cui vige sempre la massima incertezza verso il futuro. In questo senso mi pare importante rilevare che, in seguito all’appello per un cessate il fuoco globale delle Nazioni Unite, le Forze Democratiche Siriane hanno dichiarato una tregua in maniera unilaterale.

Nonostante ciò, il conflitto prosegue?

Per quello che possiamo osservare dalla nostra prospettiva, si verificano degli attacchi sporadici lungo il confine soprattutto attraverso l’artiglieria. Diciamo che non è un contesto di pace ma neanche di guerra attiva. Certo è che nell’area si sono succedute una serie di crisi e successive stabilizzazioni interrotte da ulteriori crisi. È stato così dopo la parziale sconfitta di Daesh alla quale è poi seguita l’offensiva turca dello scorso ottobre e infine una divisione delle aree di influenza con una presenza più rilevante delle forze russe.

 

Questo processo, come ben sappiamo, ha creato una zona nei territori del nord-ovest controllata da Ankara, su cui pare esserci un piano di rimpatrio di profughi siriani dalla Turchia.

 

Si tratta di un vero e proprio “buco nero”, nel quale è impossibile accedere per le organizzazioni internazionali e dal quale arrivano spesso notizie di abusi e crimini. Difficile davvero prevedere cosa potrebbe accadere nel futuro prossimo.

L’interno dell’ospedale (fonte: Un ponte per)

 

Il sistema sanitario riuscirebbe a reggere eventuali picchi pandemici?

Da questo punto di vista, uno dei maggiori problemi è rappresentato dai posti in terapia intensiva che sono praticamente nulli sul territorio della Siria del nord-est. Perciò molte delle nostre energie sono concentrate nell’ampliare una tale possibilità. Inoltre, ad Hasakah abbiamo offerto supporto tecnico alla creazione del primo ospedale dedicato interamente alla Covid-19 e stiamo provando a sviluppare un sistema di sorveglianza territoriale che ci consenta di individuare eventuali clusters e tenere sotto controllo i picchi del contagio.

 

Ma, in generale, il contesto del Rojava è segnato da una grande scarsità di risorse. Purtroppo, nove anni di conflitto hanno fatto sì che il welfare sia completamente collassato.

 

Il sistema del municipalismo democratico sta provando a rimettere in piedi delle strutture di assistenza di base e di ricompattare la coesione sociale. Il rischio, come lo è stato per la guerra, è che siano i civili a pagare il prezzo più alto della crisi sanitaria. Proprio per questo – ci tengo a ribadirlo – la solidarietà internazionale continua a essere importantissima.

Tutte le foto prese dalla pagina Facebook di Un ponte per

FONTE: https://www.dinamopress.it/news/ancora-massima-incertezza-ci-stiamo-attrezzando-emergenza-covid-19-rojava/


Comments are disabled.