Vademecum sanitario. Tutto quel che c’è da sapere su tamponi e test sierologici

test sierologico

Di entrambi si parla da mesi. Ma il governo non ha una strategia precisa né sugli uni né sugli altri, le regioni (in alcuni casi persino i comuni) si muovono da soli e i rischi, anche di violazioni, sono tanti

L’Italia ha dato il via alla “fase due” dell’emergenza, programmando riaperture graduali sulla base di dati ufficiali che però non sono uno specchio del reale tasso di contagi all’interno del Paese. L’indicatore che il governo ha preso a riferimento è il cosiddetto R0 (indice di contagiosità), che finché rimane sotto al valore di 1 punto, viene considerato “sicuro”. Lo stesso Giuseppe Conte però ha detto che ci si aspetta un rialzo dei contagi, per cui si è detto «pronto a richiudere tutto» se si dovessero superare determinate «soglie sentinella».

Il governo ha basato le proprie decisioni sulla capacità di tenuta delle terapie intensive, oggi molto meno affollate rispetto ai picchi dell’epidemia, e quindi in grado di accogliere nuovi malati. Al momento, tuttavia, il governo non è in grado di prevedere l’eventuale aumento di contagi anche perché la proposta di alcuni statistici di fare campionamenti rappresentativi per avere una mappatura dei malati non è ancora stata presa in considerazione.

La riuscita della Fase 2 dipende da molti fattori.

TAMPONI

Sui tamponi, le linee guida datano al 9 marzo, e non sono ancora state aggiornate: si stabilisce che i tamponi vadano fatti ai sintomatici che sono stati a contatto con contagiati. Di fatto, nemmeno per il personale sanitario (sappiamo ormai che gli ospedali sono diventati centri di propagazione del contagio) è stata prevista una strategia omogenea: già settimane fa Milena Gabanelli su DataRoom sottolineava le differenze a Bergamo, a Parma e a Padova sui criteri di tamponamento dei medici (anche di base) esposti senza protezione ai malati di Covid-19.

Sui numeri, Il Post ricorda come il 30 aprile il governo avesse detto di aver già mandato alle regioni 2,7 milioni di tamponi, e che soltanto 2 milioni di questi erano stati usati. Stando all’ultimo bollettino della Protezione civile, ad oggi nel Paese ne sono stati fatti 2.606.652. Il governo ha detto che nei prossimi due mesi ne saranno distribuiti altri 5 milioni.

Su base regionale ci sono strategie diverse: Il Giornale riporta i dati del report settimanale dell’Università Cattolica di Roma, che restituiscono un quadro “a macchia di leopardo”. Il più basso numero di tamponi eseguiti settimanalmente è in Puglia (2,64 tamponi per 1000 abitanti), quello più alto in Provincia di Trento (14,14), seguito dal Veneto con 12,78 tamponi per 1.000 abitanti. Dall’inizio dell’epidemia, nel complesso in Italia ha eseguito il test solo il 2,59% della popolazione (il valore massimo è il 4,64% del Veneto, quello minimo lo lo 0,84% della Campania).

La media nazionale è di 88 tamponi per 100.000 abitanti, secondo un rapporto della Fondazione Gimbe, riportato dalla Stampa. Al primo posto c’è il Veneto, seguito da Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e Toscana.

Ogni regione ha fatto più o meno test a seconda delle proprie disponibilità e della propria strategia. Su questo fronte, alcune regioni iniziano a prevedere che anche i medici di famiglia possano prescriverli. Il Sole 24 Ore riporta che Lombardia e Veneto sono le prime a consentire questa possibilità.

Gli esperti continuano a raccomandare che è essenziale aumentare il numero di tamponi, ma ciò che è emerso nelle ultime settimane è che il problema non sono tanto i tamponi (ovvero i bastoncini naso-faringei) in sé, quanto i reagenti chimici che servono per processarli, difficili da reperire in Italia. Una carenza denunciata in diverse zone del Paese, per esempio dal governatore della Lombardia Attilio Fontana e da quello della Toscana Enrico Rossi. La carenza è più evidente nelle regioni che non li producono da sole.

Come riporta ll Post citando Invitalia, però, il problema è che ogni laboratorio di analisi ha macchinari diversi, che utilizzano reagenti diversi, per cui «di fatto gli approvvigionamenti sono di competenza regionale, perché è complicato comprare reagenti a livello nazionale per ogni macchinario diverso».

Ciò nonostante, quando il governatore della Lombardia Attilio Fontana ha criticato il commissario Domenico Arcuri per aver consegnato alle regioni i tamponi ma non i reagenti, Arcuri ha risposto, come riportato dal Corriere della Sera, ammettendo la carenza e annunciando la pubblicazione di una “richiesta di offerta” per produrre in Italia sia kit per tamponi che reagenti. La chiamata sarà aperta alle aziende di tutto il mondo, volta ad «acquisire la massima quantità di kit disponibili sul mercato nazionale e internazionale».

La chiamata prevede il reperimento di tre tipologie di test: molecolari rapidi (utilizzabili anche sul luogo di lavoro), molecolari automatizzati (che necessitano di laboratori ad alto contenuto tecnologico) e molecolari compositi (che presentano fasi di analisi, estrapolazione e amplificazione separate). La scadenza per la comunicazione delle offerte è tra una settimana; i prodotti dovranno essere consegnati entro 15 giorni. Intanto, però, la Lombardia si è rivolta a laboratori stranieri, in particolare ad Austria, Francia, Slovenia e Svizzera, per reperirli.

Ma i test tramite tampone sono gratuiti o a pagamento? Almeno in teoria, sono a carico del settore pubblico. Eppure, era ancora il 17 aprile quando La Stampa riportava la denuncia del consigliere del Pd Samuele Astuti su tamponi fatti a pagamento in strutture private (tre o quattro, a detta del consigliere). L’unico nome che è emerso tra le strutture è quello del San Raffaele, che risulta ne abbia svolti a pagamento a oltre cento euro l’uno. La clinica però ha prontamente risposto che si era trattato di un disguido, che sarebbe stato rimborsato.

Rimane infine da ricordare come, in realtà, i tamponi non siano un metodo diagnostico affidabile al 100%, come specificato anche dall’Istituto Superiore di Sanità. Secondo quanto riporta Il Giornale, l’affidabilità è pari al 70%, un livello considerato molto basso dalla scienza. Ogni contagiato insomma richiederebbe diversi tamponi nell’arco del tempo per verificare la positività e la virulenza dell’infezione. Considerando poi come si possa rimanere positivi, e quindi contagiosi, per diverse settimane, come spiega La Stampa citando il virologo Giovanni Di Perri, il numero di test che occorrerebbe fare è di gran lunga più alto di quello attuale.

Le tre T (Testare, tracciare e trattare) invocate dagli esperti, insomma, appaiono ad oggi una strategia lontana dalla realtà.

TEST SIEROLOGICI

I test sierologici basati su un prelievo di sangue danno risultati in maniera molto più rapida (anche pochi minuti) rispetto ai tamponi.

Funzionano in questo modo: tracciano gli IgM, gli anticorpi che si attivano entro una settimana dal contagio, e gli IgG – anticorpi che si attivano dopo il picco di IgM e che proteggono dal rischio di reinfezione. I risultati possibili al test sono tre (con una serie di sfumature nel mezzo): l’assenza di IgM e IgG significa che non si è venuti a contatto con il virus. La presenza di soli IgM indica invece che c’è uno stato di malattia in corso. La presenza di soli IgG, infine, indica che la malattia c’è stata, e che ora c’è una risposta anticorpale che protegge il paziente. Il punto, però, è che non si sa ancora per quanto tempo questi anticorpi siano attivi, e dunque quanto a lungo si possa essere immuni.

Il test sierologico è utilizzabile come strumento di screening, ma è inutile ai fini della diagnosi. Questo perché chi è “positivo” al test sierologico (cioè agli anticorpi) potrebbe essere ancora contagioso. Ecco perché è fondamentale in questo caso sottoporsi, dopo il test, anche al tampone. È per questo motivo che l’ipotesi di poter emettere un “patentino di immunità” per le persone, solo sulla base del test sierologico, è stata accantonata. In più, come per i tamponi, anche sul fronte dell’affidabilità questi test, secondo gli esperti, non possono dare certezze totali.

Sui test sierologici, a livello nazionale manca una strategia ancora più che per i tamponi. Per il momento, il governo ha dato il via ad una sperimentazione su un campione di 150mila persone, stilato in collaborazione con l’Istat e l’Inail. Il campionamento, che dovrebbe partire a breve, servirà a sapere quante persone si sono ammalate di coronavirus, qual è la letalità della malattia e la sua diffusione geografica e per età. I test sono forniti dall’azienda farmaceutica americana Abbott. Il campione interesserà 200 comuni e sarà diviso in sei fasce d’età.

Intanto, le Regioni hanno iniziato a muoversi in maniera differenziata. In generale, i test nel Paese vengono fatti prevalentemente al personale sanitario. Il Sole 24 Ore riporta che in Emilia-Romagna e Toscana i medici di famiglia potranno prescrivere il test sierologico ai propri pazienti. In Emilia, il test andrà fatto nei laboratori per il prelievo del sangue. Se positivo, il paziente deve andare in quarantena, in attesa che l’Asl gli faccia il tampone. Qualcosa di simile avviene anche in Toscana, dove il tampone viene fatto in caso di esito positivo o dubbio del test: la regione ha dato garanzia di esito in 24 ore.

Il Fatto Quotidiano ha radunato le tendenze in diverse regioni: alcune (Emilia-Romagna, Veneto e Liguria) hanno per esempio previsto, o stanno conducendo, indagini simili a quella nazionale. C’è chi, come Toscana e Veneto, ha finanziato indagini anche con i test rapidi, focalizzandosi principalmente su operatori sanitari e forze dell’ordine. Il 5 maggio anche il Lazio ha dato il via ai test per 300mila fra operatori sanitari, farmacisti, personale delle Rsa e forze dell’ordine.

Ogni regione utilizza test diversi. In Toscana si utilizzano quelli forniti dalla Diesse Diagnostica Senese, cui si punta ad aggiungere l’apporto dei laboratori privati per raggiungere quota 400mila test. La Regione Lombardia ne ha comprati 500mila dall’azienda Diasorin, che li ha sviluppati insieme all’ospedale San Matteo di Pavia, ma la decisione ha scatenato polemiche perché la ditta è stata scelta senza fare una gara di appalto. Fra gli altri dati a disposizione sulle regioni, l’Emilia prevede di fare 300mila test, la Campania 350mila.

A seconda delle tipologie, alle Regioni i test costano tra i 4 e i 12 euro l’uno, con quelli rapidi che arrivano fino a 9 euro. Su questo fronte alcune regioni hanno aperto alla possibilità di farli fare a pagamento ai singoli cittadini (con costi molto più alti): in Emilia-Romagna, chi opta per farlo per conto proprio spende circa 25 euro.

La Lombardia costituisce un esempio rilevante, non solo perché è la regione più colpita del Paese dai contagi. Youtrend ha riportato ieri i risultati dei primi test sierologici svolti in regione a partire dal 23 aprile. Finora ne sono stati svolti 33.313, di cui 25mila su operatori sanitari. Il risultato è che tra i sanitari il 14% ha o ha avuto il coronavirus, mentre tra i rimanenti 8mila cittadini in isolamento fiduciario i risultati sono stati positivi per il 50,6%.

In Lombardia, però, la questione non è ancora disciplinata. Al momento, la Regione accetta solo un tipo di test (quello della Diasorin, consentendone inoltre l’elaborazione solo alle strutture pubbliche). Risulta però che diversi laboratori offrono l’esame a pagamento.

Il Corriere della Sera riporta che molti sindaci (tra cui Giuseppe Sala a Milano) si sono mossi autonomamente. Il primo cittadino del capoluogo lombardo ha deciso di fare il test agli autisti dei mezzi pubblici ATM, mandando i risultati ad analizzare a Grenoble, in Francia.

Il 30 aprile, un servizio di Piazza Pulita  spiegava che i sindaci lombardi avevano subito pressioni dai vertici regionali per non fare più test in autonomia. «Chi li fa si assume la responsabilità anche del rispetto dell’isolamento dei positivi. L’esito di un test non validato e fuori dai programmi di sanità pubblica non comporta l’approfondimento con tampone», ha scritto in una lettera ai sindaci l’ATS di Milano.

Stando a quanto riporta Repubblica, la questione è complicata dal fatto che esistono 120 tipologie diverse di test, alcune con marchio CE, altre in attesa di certificazione. Il prezzo è in media di 40, 50 o 60 euro, ma non ci sono garanzie sull’attendibilità.

Sui costi, un’inchiesta di Open riporta di averne fatto uno a 170 euro a Milano: «Ne abbiamo già fatti tantissimi», hanno detto alla testata dalla piattaforma di guardia medica che ha svolto il test. In più adesso, riporta Business Insider, in Lombardia dovrebbero esserne introdotti a pagamento nei laboratori privati.

Il problema di trasparenza c’è: secondo quanto riportato dall’Irpi in una lunga inchiesta, quello dei test sierologici è un «far west» in cui aziende private, più e meno accreditate hanno cercato di vendere dei prodotti nascondendone l’origine e spacciandoli per europei. L’affidabilità non viene accertata. Nell’articolo risulta che diversi sindaci in varie parti d’Italia hanno acquistato test di dubbia provenienza.

 

FONTE: https://www.linkiesta.it/2020/05/tamponi-test-sierologici/


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