Usare lo #stateacasa per diffamare e licenziare i lavoratori: cosa possiamo imparare, anche in Italia, dal caso Amazon/Smalls

Vice è entrata in possesso dei verbali di una riunione di dirigenti Amazon che si è tenuta alla presenza di Sua Opulenza in persona, Jeff Bezos, per discutere di come diffamare per benino Chris Smalls, un lavoratore sindacalizzato del centro logistico JFK8 a Staten Island, New York.

In quella riunione si è espresso così l’alto dirigente David Zapolsky (che, tra l’altro, ha organizzato un’iniziativa di finanziamento per il candidato alle primarie democratiche Joe Biden):

«Non è intelligente, non sa esprimersi bene, e nella misura in cui la stampa vorrà focalizzarsi su noi contro lui, saremo in una posizione di public relations molto più forte piuttosto che se semplicemente spiegassimo per l’ennesima volta che stiamo cercando di proteggere i lavoratori.
Dovremmo investire la prima parte della nostra risposta nello spiegare con forza l’argomentazione che la condotta dell’organizzatore sindacale è stata immorale, inaccettabile e probabilmente illegale, scendendo nei dettagli, e solo a quel punto proseguire con i nostri soliti punti sulla sicurezza sul lavoro.
Rendiamo lui la parte più interessante della storia, e se possibile facciamolo diventare il volto dell’intero movimento di sindacalizzazione.»

La rivelazione di queste note riservate ha scatenato un putiferio, anche perché se andate ad ascoltare come parla Chris potete notare che in realtà è molto spigliato: il senso di quanto dice Zapolsky, e cioè che per la multinazionale sarebbe buona cosa farlo diventare «il volto» della sua controparte sindacale, è semplicemente che è nero e parla con un accento afroamericano.

Per capire come funziona il centro logistico JFK8, con la solita combinazione di alienazione operaia, robotizzazione, stachanovismo, totalitarismo aziendale e benefici elargiti dall’impresa a chi si disciplina, buona lettura. Evidenzio due chicche: l’orario di lavoro di 40 ore ma distribuite su soli 4 giorni e il lavoratore che mostra fieramente la medaglia aziendale con scritto «4,500» perché quattromilacinquecento è il suo record di colli movimentati in un giorno.

Del resto, stiamo parlando della macchina da profitti dell’uomo più ricco del mondo che ha messo tra i suoi valori aziendali… la frugalità. Se non ci credete, lo spiegano qui:

«Frugalità. Ottenere di più con meno. Risorse limitate alimentano intraprendenza, autosufficienza e creatività. Non si ricevono punti di merito nel far crescere gli organici, l’entità del budget o le spese fisse.»

In effetti i dirigenti di Staten Island non hanno fatto crescere l’organico: hanno licenziato Chris Smalls in tronco per essersi presentato con dei cartelli, assieme ad alcuni altri lavoratori combattivi, nel parcheggio del JFK8. Invitava i suoi colleghi a scioperare – a fare un «walkout», noi diremmo uno sciopero spontaneo senza preavviso – perché le condizioni di sicurezza nel magazzino non sono rispettate in seguito ai primi casi di COVID-19 tra i lavoratori.

E qui arriviamo al punto.

Chiaramente tutti, almeno qui su Giap, capiamo che siamo di fronte a uno scontro di classe: subdoli e avidi capitalisti da un lato, proletari sfruttati e mandati allo sbaraglio dall’altro. OK. Ma come si articola questo scontro all’interno della pandemia?

A prima vista sembrerebbe così: i padroni sono per sminuire i rischi e la necessità di misure di distanziamento e confinamento, mentre i lavoratori vogliono misure più rigide.

Ebbene, no.

Perché Zapolsky dice che bisogna vendere il caso alla stampa dicendo che il comportamento di Smalls è stato «immorale, inaccettabile e probabilmente illegale»? Con che motivazione ufficiale è stato licenziato? La risposta è che Chris Smalls è stato licenziato per… violazione della quarantena.

Nel JFK8 c’era stato un ammalato di COVID-19 (alcuni lavoratori dicono che i casi sarebbero di più, fino a 10, ma l’azienda non fa i tamponi: dove l’ho già sentita questa?); proprio per questo gli scioperanti chiedevano che si prendessero misure più vigorose, che si lasciassero a casa i lavoratori ecc. Subito dopo la diagnosi del contagiato, l’azienda ha reagito in modo molto blando; ma quando Chris ha iniziato a organizzare lo sciopero, gli è stato comunicato dall’azienda – non dalle autorità sanitarie! quarantena selettiva privatizzata – che doveva entrare in quarantena. La misura non è stata generale ma chiaramente mirata sia a provare a tenere buono il lavoratore “sobillatore” sia a impedirgli i contatti coi colleghi. Smalls osserva che il contagiato ha interagito con decine di altri colleghi che non sono stati messi in quarantena.

Siccome Smalls si è presentato comunque davanti all’azienda, in un parcheggio che, tra l’altro, come si può vedere dalle foto e da Street View, non è separato da cancelli o altro rispetto alla normale viabilità e quindi presumibilmente non è sottoposto a una giurisdizione speciale Amazon, l’azienda ora prova a sostenere che abbia messo a rischio la salute dei suoi colleghi.

La multinazionale ha usato la quarantena individuale e la colpevolizzazione dell’uscita da casa come arma contro i necessari stop o rallentamenti della produzione. Ancora una volta, dove l’ho già sentita questa?

Mi sembra un caso esemplare per mostrare gli intrecci tra la lotta di classe e la messa sotto critica della qualità delle misure di contenimento del nuovo coronavirus. Non della necessità in senso assoluto di prendere delle misure, un’ovvietà che solo i complottisti o gli ultraliberisti sfegatati possono ancora considerare tema di dibattito.

Verso dove si volge lo sguardo e si punta il dito, ovvero su chi si caricano i costi della crisi, è la questione politica centrale di questa fase. In diversi Paesi, in particolare in Italia, nello Stato spagnolo e proprio negli USA, cioè le nazioni che hanno finora registrato più vittime per questa epidemia, fabbriche, magazzini, cantieri e qualche ufficio sono entrati in subbuglio: i lavoratori non vogliono essere trattati come componenti sacrificabili consumati nella produzione! Ma del resto è proprio quello il loro ruolo nel capitalismo.

Come in altri casi – penso alla crisi climatica, con tutta la retorica sulla riduzione dell’impronta ecologica dei poveri cristi mentre una grande azienda emette in un giorno l’anidride carbonica che un proletario può emettere in tutta la vita – l’ossessione sui comportamenti individuali è un dispositivo che fa comodo a chi detiene il potere, non solo perché distrae dalle colpe della classe dominante e dei suoi terminali politici, ma anche perché inquadra tutta la situazione con un “teleobiettivo” distorcente, che mette a fuoco chi va al parco con un bambino e non chi va in fabbrica con centinaia di colleghi, che porta in primo piano gli assembramenti di scioperanti e lascia sullo sfondo gli ospedali fatiscenti.

Mauro Vanetti scrive su marxist.comGiap e Carmilla. È autore del libro La sinistra di destra. Dove si mostra che sovranisti, liberisti e populisti ci portano dall’altra parte (Alegre, 2019). Con altri attivisti ha pubblicato Vivere senza slot (Ediciclo, 2013) sull’opposizione al gioco d’azzardo di massa. Di mestiere è ingegnere del software; con questa scusa ultimamente si occupa anche di videogiochi.

Postilla

di Wu Ming 1

L’apologo raccontato da Mauro ha forti risonanze con quanto sta accadendo in Italia. E rafforza quella che è la nostra convinzione dall’inizio dell’emergenza coronavirus: se non si critica la gestione dell’emergenza da parte del governo; se non si critica la qualità dei provvedimenti di lockdown, cioè la loro sensatezza e coerenza rispetto al fine dichiarato di contenere l’epidemia; se non si smonta la retorica #stateacasa che sovraresponsabilizza il singolo individuo e porta ad additare capri espiatori; se non si dice nulla sul mix di paternalismo, autoritarismo e controllo sociale che sta pervadendo l’immaginario… Se non si fa tutto questo, non solo non si affronterà quest’epidemia nel modo giusto, ma non si avrà margine per lottare “dopo”, perché nel frattempo ci avranno tolto ogni spazio.

Ha poca efficacia attaccare il cinismo di Confindustria se non si inserisce quel discorso in una critica all’intera gestione dell’emergenza, smontando i trucchetti e diversivi messi in campo per distogliere l’attenzione dalle vere responsabilità di questo disastro (in parole povere, se si accetta come cornice quella imposta dal governo).

Ha poca efficacia fare rivendicazioni come il «reddito di quarantena», se nel mentre non si sviluppa una critica di cosa sia diventata e come funzioni questa «quarantena»: un dispositivo che demonizza tout court l’uscita di casa, rimanda alle calende greche la ricostruzione di spazi per l’agire collettivo, trasforma le persone in monadi e fa di noi produttori/consumatori di parodie di conflitto, come nell’episodio Fifteen Million Credits di Black Mirror (S1E2, 2011).

Nulla contro le assemblee virtuali, vanno pur fatte – magari evitando strumenti e piattaforme che ciucciano dati, per non rafforzare il capitalismo della sorveglianza. Vanno fatte, ma non bastano. L’assemblea a distanza è come la didattica a distanza: «deve essere vista come la toppa sui pantaloni, non come i pantaloni nuovi» (Sandro Ciarlarielloqui). Bisogna lavorare fin d’ora – subito – per tornare a fare lotte nello spazio pubblico, quello fisico. E farlo sarà ben difficile, se si continua ad accettare tutto quel che impone il governo.

In generale, va messo in crisi il frame dell’«unità nazionale contro il virus». Questa narrazione mostra già incrinature, e reggerà sempre meno. Bisogna cogliere l’occasione: rinunciare ad autoreferenzialità e astrattezze, e partecipare al moto di rabbia sociale che sta crescendo. La cosa peggiore da fare sarebbe ignorare questo moto o guardarlo con snobismo (o peggio). Si rimarrà in trappola se si continuerà a sembrare «l’estrema sinistra del governo Conte»… o della Protezione civile.

Dobbiamo sgomitare per aprirci spazi, nella prospettiva di tornare a ritrovarci insieme: magari a un metro di distanza e con la mascherina, ma se non ci ritroviamo insieme che confltto possiamo sperare di agire, e dove? Sui social? Spiace dirlo ma finora, con certe discussioni, si è fatto crescere soprattutto un «reddito di quarantena»: quello di Zuckerberg.

La settimana scorsa un compagno, Arturo «Sandokan» Lavorato, ci ha mandato un’email che conteneva alcune importanti riflessioni. Introducevano una sua proposta di articolo per Giap. Abbiamo convenuto insieme che questo blog non fosse la destinazione più adatta per un pezzo con quel “taglio”, ma la riflessione introduttiva offriva molti spunti. Riporto stralci dello scambio che abbiamo avuto:

ASL: «Salvo poche letture critiche, spesso brillanti, il mondo della militanza organizzata, quale che sia l’area di afferenza, sembra aver deciso che in questo momento non è possibile o forse nemmeno opportuno contestare i provvedimenti restrittivi in atto […] Si moltiplicano le rivendicazioni: reddito di quarantena, requisizione delle cliniche private e ripristino di un servizio sanitario pubblico degno di questo nome, fermo lavorativo a oltranza, sciopero degli affitti e blocco degli sfratti… Nessuno che però espliciti la questione di come queste rivendicazioni possano rendersi esigibili nel mentre si conviene che “restare a casa va bene”»

In una mia risposta, echeggiando antiche controversie del marxismo di inizio ‘900, ho chiamato «economicisti» i fautori di questa linea. Arturo, ammettendo di tagliare con l’accetta, contrapponeva a quest’approccio il nostro, definendolo «biodissidente». Io però lo chiamerei «olistico».

Un approccio puramente «biodissidente» esiste, ma non è il nostro. È un approccio speculare a quello «economicista»: consiste nel criticare i provvedimenti di lockdown, distanziamento fisico – a proposito: piantiamola di accettare il frame del «distanziamento sociale», usando in modo acritico o positivo un’espressione da distopia reazionaria – e controllo biopolitico, ma dicendo poco o niente sulle lotte di lavoratrici e lavoratori per avere più chiusure e più misure di distanziamento e protezione.

L’«economicista» parla di fabbriche e reddito, ma non della strategia del capro espiatorio e della repressione che avviene per strada; il «biodissidente» parla della strategia del capro espiatorio e della repressione che avviene per strada, ma non di fabbriche e reddito. L’«economicista» chiede maggiori restrizioni, il «biodissidente» vorrebbe un allentamento generale delle misure, ma, come faceva notare Mauro in un altro scambio,

«non è allentare/stringere il frame giusto. I due piani vanno insieme, anche solo per un motivo discorsivo: se si parla dei runner non si parla delle fabbriche, pochi cazzi. Controprova: chi parla dei runner e delle fabbriche?»

Poche persone. Tra le quali noi, fin dal nostro Diario virale del febbraio-marzo scorso.

Due parole su questo. Il Diario è stato molto attaccato e criticato, anche in ambienti “di movimento”. Qualcuno ancora ci accusa di «non aver preso le distanze» da «leggerezze» e affermazioni discutibili scritte soprattutto nella prima puntata.

La progressiva presa di distanze era insita nella formula scelta. Quella del diario, appunto. Un diario “fotografa” la situazione giorno per giorno, è scritto per essere superato, per invecchiare. Noi abbiamo fotografato, man mano che si svolgeva, la fase iniziale dell’emergenza coronavirus, con focus su Bologna, mettendo sempre le date. Il Diario virale lo abbiamo scritto tutto all’imperfetto e al trapassato prossimo – una tecnica già sperimentata in precedenza, ad esempio in Un viaggio che non promettiamo breve – proprio per rimarcare già una distanza: così vedevamo l’emergenza in quei giorni.

Le affermazioni discutibili le abbiamo discusse, come da significato dell’aggettivo; le distanze le abbiamo prese cercando di affinare l’analisi man mano che la situazione si faceva più complessa e drastica. La prima puntata (22-25 febbraio) era molto “impressionistica” e andava a tentoni, come andava a tentoni tutto quel che si stava scrivendo in quei giorni; la seconda (26-28 febbraio) approfondiva alcuni aspetti, precisando e correggendo le formulazioni della precedente; la terza (pubblicata il 10 marzo) è di gran lunga la migliore. Rileggendola oggi, ci sono ben poche distanze da prendere: dice cose che da allora abbiamo continuato a ribadire – naturalmente approfondendo e sviluppando i ragionamenti – e che hanno cominciato a dire molte altre persone.

Soprattutto, là dentro c’era già l’approccio «olistico». Quello che, al netto di inevitabili sbavature, a tutt’oggi rivendichiamo, e che auspichiamo venga adottato sempre di più.

di Mauro Vanetti *

(con una postilla di Wu Ming 1)

 

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