Lo sfruttamento certificato dal virologo. Scene di lotta di classe nelle imprese italiane

Come ormai afferma pure qualche governatore del profondo nord, la fase due è già iniziata e le fabbriche hanno cominciato a riprendere le loro attività. Da «martedì il Veneto non sarà più quello di oggi» ha dichiarato il governatore Zaia, che in realtà il lockdown non l’ha mai voluto, essendo scientificamente convinto che l’epidemia sia causata dalle abitudini alimentari dei cinesi. In realtà la macchina produttiva italiana ha semplicemente rallentato se, come pare, solo 8 milioni su una platea di circa 23 milioni di occupati erano «sospesi». D’altra parte, l’ipocrisia normativa varata qualche settimana fa dal governo con la regola del silenzio/assenso lasciava ampi spazi di manovra: l’imprenditore autocertifica di rientrare in una filiera produttiva essenziale e inizia a trafficare nella sua impresetta e se non succede niente può continuare a produrre. Circa 100 mila richieste da nord a sud sono arrivate sui tavoli delle Prefetture. Cinicamente gli imprenditori delle quattro regioni più colpite dal Covid-19 (Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna), continuano a farla da padroni in questa ansia produttiva, mentre le Camere di commercio segnalano numerosi cambiamenti di codici Ateco per poter rientrare tra le produzioni essenziali. Qualche azienda ritiene di essere in una filiera produttiva essenziale perché vende i suoi prodotti, passeggini, su Amazon. Insomma, è un momento di forte creatività.

Di fronte alla marea montante, governo e governatori assicurano che i controlli saranno rigorosi. Solo in Veneto pare che su circa 15-20 mila autocertificazioni i controlli siano stati 3700, mettendo il bollino verde (o, più raramente, rosso) alle imprese, che quindi possono riprendere la sospirata attività. Una potenza di fuoco mai vista prima, quando i Servizi per la prevenzione così come gli Ispettorati del lavoro lamentavano una perenne carenza di personale e scarsi mezzi per effettuare le ispezioni. Ma adesso sotto il controllo dei Prefetti e con il timbro dei Servizi per la prevenzione è possibile ricominciare a produrre. Un po’ come è stato fatto per gli stabilimenti Fiat: lo sfruttamento certificato dal virologo. E dalle organizzazioni sindacali.

Al lavoro con maschere e dispositivi, quando va bene. Pare di essere ritornati indietro di mezzo secolo quando nel 1973, a causa delle numerose fughe di gas dai vari impianti con l’intossicazione di migliaia di lavoratori, l’Ispettorato del lavoro di Venezia aveva prescritto a tutti i lavoratori di Porto Marghera di indossare sempre la maschera antigas. A questa disposizione, i militanti della Assemblea Autonoma avevano risposto issando, davanti ai cancelli del Petrolchimico, una croce a cui era legato un fantoccio nudo e con una maschera antigas sul volto. Il «Cristo in croce» era il simbolo di quello che gli operai non volevano diventare e contemporaneamente una critica feroce al compromesso contrattuale che monetizzava la salute: qualche spicciolo in più per la nocività che gravava quotidianamente sul corpo operaio.

Come è noto la fantasia non manca a chi quotidianamente è obbligato ad andare al lavoro. Per intanto la ripresa produttiva però sta portando con sé processi di violenta irreggimentazione di lavoratrici e lavoratori, con l’avvallo del sindacato, per poter spremere ulteriormente la forza lavoro e riuscire così a recuperare un po’ di produzione. In queste settimane i sindacalisti hanno fatto gli straordinari per firmare casse integrazioni ed eccezioni. Già si fa incetta di penne per firmare le deroghe ai contratti collettivi in vista della ripresa produttiva. I padroni rimangono molto concreti e hanno già cominciato a stilare la lista della spesa: flessibilità ulteriore su orari, ferie, inquadramenti, spostamenti, assunzioni e… licenziamenti, quando servono. Lo smart working diventerà forse solo la possibilità di prolungare a casa il normale orario svolto nel posto di lavoro. Magari con il timbro del medico di turno. E del sindacato. Ben più pesanti saranno le concessioni su altri aspetti legati magari alla possibilità di inquinare, di ricevere fiumi di denaro e magari anche di non pagare le tasse.

Durante questa crisi in Italia, come altrove, lavoratrici e lavoratori hanno dovuto confrontarsi con un padronato che, mantenendo una coerenza di lungo periodo, raramente ha anteposto la salute al profitto. Ma scioperi, proteste e blocchi del lavoro con o senza la copertura sindacale si sono diffusi in tutto il paese per chiedere maggiori protezioni e sicurezza nel lavoro. Le prossime settimane saranno decisive non solo per capire lo sviluppo del Covid-19, ma anche per verificare se queste capacità di riprendere, almeno in parte, una propria voce riesca a estendersi e a connettersi. Difficile se non impossibile fare affidamento in questa situazione su quei sindacati che continuano ad avere a cuore i livelli di produttività e il destino del Paese, facendosi certificare scientificamente i livelli di nocività. Tutti coloro che oggi si interrogano sul che fare, su come sarà il mondo dopo la quarantena, non possono ignorare la realtà di milioni di uomini e di donne messi al lavoro in condizioni sanitarie e di sfruttamento senza precedenti. E che giorno dopo giorno lotteranno contro quelle condizioni.

 

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