I decreti del governo favoriscono la grande distribuzione e il modello agroindustriale. Ma oggi più che mai l’agricoltura contadina è necessaria a mantenere i nostri eco-sistemi più sani e meno penetrabili dai virus
Nei sistemi ecologici, come il pianeta in cui viviamo insieme ad altre specie, uno dei principi chiave di funzionamento è l’interdipendenza. In questa crisi del Covid-19 gli elementi di criticità del sistema sono correlati, come lo erano già prima. Problematiche energetiche, disuguaglianze sociali, scarsità di risorse, insicurezze ambientali, emergono progressivamente facendoci sentire sempre più stretti in questo sistema. Già da tempo – come rivendicato dai movimenti contadini e da quelli studenteschi di Fridays For Future – si è dimostrata la connessione fra modello industriale, alla base del sistema agroalimentare dominante, cambiamenti climatici ed effetti negativi sulla salute umana. L’agroindustria si basa sul modello di produzione della monocoltura per l’esportazione, una semplificazione genetica forzata rispetto alla naturale complessità dei sistemi ecologici, che sono «vivi» e per esserlo necessitano di diversità genetica. I sistemi più semplici diventano deboli, come un corpo umano che, dopo una forte cura antibiotica che ha portato all’annientamento dei batteri e degli anticorpi, si presenta debole e penetrabile dalle patologie.
I livelli produttivi delle monoculture si reggono su un utilizzo tale di pesticidi da causare avvelenamento diretto e indiretto degli ecosistemi e dei suoi abitanti, tra i quali noi umani. Diretto attraverso i residui nei prodotti alimentari stessi, indiretto attraverso la contaminazione delle altre risorse: acqua, suolo, aria. Questo modello di produzione e le sue innovazioni biotecnologiche causano lo spostamento di agenti patogeni dai loro habitat naturali al bestiame locale e nelle comunità umane.
Ciò avviene grazie a dei meccanismi di governance basati su un controllo della produzione esternalizzata e una distribuzione da una parte all’altra del globo di prodotti finiti, attraverso catene definite «buyer-driven» perché principalmente controllate dai grandi intermediari che operano nella distribuzione. Le catene di supermercati si basano su meccanismi di approvvigionamento centralizzati e hub logistici su base regionale, che hanno effetti significativi sui sistemi agroalimentari locali, tra cui la progressiva marginalizzazione dell’attività di vendita al dettaglio tradizionale e dei piccoli produttori. Le catene di supermercati contribuiscono a omologare, secondo i principi della monocultura, la produzione agricola nazionale. Chiedono infatti ai fornitori di conformarsi a una serie di nuovi standard di qualità e sicurezza alimentare che solo una minima parte dei produttori è in grado di rispettare perché spesso non dispongono delle risorse per effettuare gli investimenti necessari. I supermercati inoltre, attraverso questi meccanismi, hanno assunto il ruolo di costruttori di significati su cosa sia sano, sicuro e giusto mangiare.
La Supermarket Revolution in Italia
In Italia la cosiddetta Supermarket Revolution si è sviluppata negli ultimi 25 anni. Oggi il 74,5% del commercio al dettaglio di cibo fresco e confezionato passa per questo canale, mentre il 13,4% resta ai negozi tradizionali. Nel 1996, i dati si attestavano rispettivamente a 50 e 41%. Va in ogni caso specificato che, sebbene in Italia ci sembri una situazione di monopolio di fatto, la concentrazione nel settore della grande distribuzione organizzata (Gdo) è tuttora più bassa rispetto ad altri Paesi europei: i primi tre gruppi (Coop Italia, Conad, Selex) hanno il 36,1% del mercato, mentre in altri Paesi la quota detenuta dai primi tre gruppi è più alta (61% in Gran Bretagna e Germania, 54% in Spagna, 53% in Francia). In Italia però la situazione è progressivamente peggiorata andando verso un’agricoltura con sempre meno produttori: negli ultimi trent’anni le aziende agricole italiane sono passate da 3 milioni nel 1982 a 1,4 milioni nel 2014. Tra il 2000 e il 2010 il numero di aziende è diminuito del 32,4%, con la riduzione più rilevante verificatasi nelle aree interne o montane.
Nonostante questo tra il milione e quattrocentomila produttori esistenti le piccole aziende sono ancora la maggioranza, al punto da poter affermare che «l’agricoltura di piccola scala resta la struttura portante del sistema agrario nazionale». Mentre diminuiscono i lavoratori familiari e le aziende, il cambiamento più conosciuto e mediatizzato è l’aumento costante dei lavoratori stranieri impiegati come salariati nell’agricoltura italiana, arrivati ormai a più di un terzo del totale dei lavoratori dipendenti: nel 2016 erano censiti dall’Inps quasi 364.000 (nel 2006 erano 126.000), e il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) ne stimava 405.673 (contro i 23.000 nel 1989). Le nazionalità maggiormente rappresentate sono i rumeni, con più di 120.000 lavoratori, e poi indiani, marocchini e albanesi, attorno alle 30.000 unità.
Questi tre processi – crescita delle catene di distribuzione, marginalizzazione dei piccoli produttori e aumento del lavoro salariato migrante in campagna – si sono verificati contemporaneamente negli ultimi decenni e sono interdipendenti e basati su un medesimo sistema di valori, che prevede numerose barriere di inclusione differenziale di cui i contadini e i lavoratori della terra sono tra gli anelli invisibili.
Dalle code ai supermercati alle azioni del mondo contadino autogestito
Numerose organizzazioni contadine, appartenenti a La Via Campesina, in tutto il mondo stanno prendendo posizione rispetto ai dispositivi governamentali adottati per arginare il contagio e l’emergenza. In particolare, l’Associazione Rurale Italiana sostiene che il Decreto «Cura Italia», non facendo menzione dell’agricoltura contadina, dimentica più di un milione e seicentomila persone. Gli interventi governativi insomma diventano un ulteriore sostegno al modello agroindustriale che a sua volta rafforza un sistema che ha per base costitutiva lo sfruttamento di risorse e persone: «L’Art. 78 del decreto (Misure in favore del settore agricolo e della pesca) riguarda di fatto un numero esiguo di imprese agricole di grande o grandissima dimensione che NON rappresentano né la struttura produttiva agricola né l’effettiva capacità di fornire alimenti in modo capillare e decentrato quanto più necessario in questa drammatica emergenza».
Oltre a rivendicazioni generali a tutela delle contadine e dei contadini italiani, l’Associazione rurale italiana chiede: l’obbligo all’acquisto di alimenti e prodotti agricoli da aziende locali per ospedali, caserme e altre collettività; l’agevolazione per le consegne porta a porta consentendo la distribuzione collettiva di alimenti conferiti da diversi produttori, in deroga temporanea alle attuali disposizioni; l’agevolazione per la vendita semplificata, su base territoriale e in via eccezionale, ai canali della grande distribuzione, in deroga alle certificazioni volontarie; in riferimento al Dpcm del’11 marzo per il contenimento della diffusione del Covid-19 che ha chiuso «indipendentemente dalla tipologia di attività svolta, i mercati, salvo le attività dirette alla vendita di soli generi alimentari» la riapertura immediata dei suddetti mercati e che vengano revocate tutte le ordinanze comunali che eccedono il decreto governativo.
A queste rivendicazioni hanno fatto seguito numerose iniziative in Italia, in primis a Bologna a partire della storica associazione di produttori Campi Aperti che chiede la riapertura dei mercati alimentari. Campi aperti lo fa rivendicando un’esperienza ventennale nell’autogestione e organizzazione dei mercati, che oggi sarebbe ancora più utile a supportare la salute alimentare e psico fisica di tutte e tutti quelli che sono costretti ad ammassarsi alle porte dei supermercati: «I mercati contadini riforniscono migliaia e migliaia di famiglie in città con prodotti alimentari freschi e locali; con la loro chiusura il rischio di aumentare la concentrazione di persone al chiuso dei supermercati si fa, purtroppo, concreto. I mercati contadini rappresentano un rapporto diretto fra campagna e città, una filiera corta antichissima, senza intermediazioni, trasporti e passaggi che aumentano a loro volta gli spostamenti umani e i conseguenti rischi di contagio»
Una realtà di mutualismo come il Bread&Roses a Bari da settimane propone una Solidarietà Antivirus per non trasformare l’emergenza sanitaria in emergenza sociale: «Abbiamo bisogno di far vivere in forme inedite spazi di comunità affinché il senso di smarrimento e angoscia che rischia di risucchiarci sia isolato dalla solidarietà e dal mutuo sostegno. Soprattutto verso le persone più fragili ed economicamente in difficoltà. Pensiamo a chi corre il rischio di perdere il posto di lavoro o lo ha già perduto, senza il supporto di alcun ammortizzatore sociale; a chi non ha una casa o è costretto a stazionare in strutture fatiscenti senza le minime garanzie igienico-sanitarie, come i senza fissa dimora o i richiedenti asilo ai quali è negata anche l’iscrizione anagrafica e quindi anche l’assistenza sanitaria di base». Gli attivisti e le attiviste – tra le numerose attività solidali come l’assistenza legale e l’attivazione di un ammortizzatore solidale per chi non ha la possibilità di continuare il lavoro in autogestione – offrono il servizio di «spesa solidale», ovvero la spesa a casa di prodotti freschi e conservati dell’Emporio FuoriMercato. Questo permette a chi è chiuso in casa di continuare a prendersi cura della propria salute attraverso una sana alimentazione e di supportare il lavoro, già precario e intermittente, su cui si fonda la vita dei contadini e dei produttori e delle produttrici a cui sono legati.
Molti altri in Italia stanno inventando nuovi strumenti per creare o mantenere legami tra produttori, consumatori e associazioni, dai punti di distribuzione collettivi condominiali alla sottoscrizione di patti di mutuo soccorso con vademecum sulle precauzioni, attraverso cui chiedere il riconoscimento del ruolo sociale alle amministrazioni e/o alle prefetture.
Nel frattempo nelle ultime settimane l’aumento delle vendite maggiore si registra nei Supermercati (+23% rispetto al 2019) dove sono avvenuti quasi la metà degli acquisti (43%) e dove vi è stata una forte tendenza ad approvvigionarsi di prodotti conservabili al punto che la vendita di questi, durante la settimana tra lunedì 9 e domenica 15 marzo, ha continuato a crescere più del 30% rispetto allo scorso anno, con fatturati che hanno superato quelli della settimana delle festività natalizie.
In effetti abbiamo visto i social network riempirsi di immagini di interminabili file ai supermercati, corredate da minuziosi dibattiti sull’interpretazione dei decreti, su quanta sia la distanza consentita tra la propria abitazione e il supermercato e quale sia il supermercato che rispetta più rigorosamente le norme precauzionali. Questi dati e queste immagini indicano un aumento di potere della Gdo (Grande distribuzione organizzata), ossia il rafforzamento di un sistema basato sul just in time, di per sè un controsenso in agricoltura. Mentre il settore agricolo si basa su migliaia di braccianti che attualmente vivono in insediamenti informali (senza acqua e luce alla faccia delle precauzioni igienico-sanitarie per arginare il contagio).
Mentre il supermercato diventa l’unico luogo della sfera sociale, fare la spesa è diventata anche la prima azione di solidarietà attiva diffusa su tutto il territorio nazionale per rompere l’isolamento delle persone, dei lavoratori della terra, e di coloro che provano a costruire sistemi più solidali di approvvigionamento. Non tutti possiamo permetterci allo stesso modo questa emergenza: c’è chi per ragioni anagrafiche e/o sanitarie non può permettersi di andare al supermercato, c’è chi ha perso il lavoro e non ha i soldi per permettersi la spesa, c’è chi non ha una casa sicura in cui chiudersi e chi non ce l’ha proprio.
Dalla solidarietà attiva all’autogestione delle comunità ecologiche
Rivendicare la centralità dell’agricoltura contadina è la base necessaria, oggi più che mai, per mantenere i nostri sistemi ecologici più sani e meno penetrabili da virus e patologie e soddisfare le necessità primarie, di un’alimentazione sana e socialmente giusta. Le riflessioni e le azioni di queste settimane partono da, e per fortuna travalicano, associazioni contadine e/o movimenti storici come quello di Genuino Clandestino o la rete nazionale Fuori Mercato – autogestione in movimento, per tornare nei campi, nelle fabbriche e nelle cooperative di consumo. È un’energia pragmatica di vitale importanza da offrire e mettere a disposizione di tutte e tutti quelle e quelli che credono di dover vivere in solitudine le difficoltà quotidiane. Creare legami tra l’urgenza della solidarietà e questi mondi significa rafforzare insieme l’autotutela di tutti i sistemi ecologici e di tutte le piccole realtà contadine. Queste ultime da sempre sono le guardiane di una società basata su meccanismi di reciprocità e quindi di un mutualismo in conflitto con la mercificazione delle relazioni tra umani e tra questi e la natura.
La gestione dei bisogni primari che ci viene proposta va dunque messa in discussione rivendicando il ruolo sociale dei contadini e delle contadine e di chi ha costruito comunità ecologiche dentro e in conflitto a una società di profitti che ci ha ammalato, e sperimentando subito strumenti di sostegno immediato per continuare a produrre, distribuire e scegliere di cosa cibarsi e chi sostenere. Citando un articolo di Yaak Pabst, possiamo affermare che:
«Chiedere e organizzare la fine dell’agroindustria come modalità di riproduzione sociale è solo una questione di salute pubblica. Dovremmo chiedere e organizzare le condizioni affinché i sistemi alimentari siano socializzati in modo tale da evitare, in primo luogo, la comparsa di agenti patogeni così pericolosi. Ciò richiede innanzitutto il reinserimento della produzione alimentare alle esigenze delle comunità rurali. Ciò richiede la necessità e difesa di pratiche agro ecologiche che proteggano l’ambiente e gli agricoltori mentre coltivano il nostro cibo. In generale, dobbiamo curare i difetti metabolici che separano le nostre ecologie dalle nostre economie. In breve, abbiamo un pianeta da vincere».
*Carlotta Ebbreo, attivista e studiosa dell’agroecologia, si occupa di accesso alle risorse e agricoltura contadina. Martina Lo Cascio sociologa si occupa di Supermarket revolution, cibo, lavoro e agricolture in Italia. Attivista di Fuori Mercato.