Polveriera sanità: ospedali e case di riposo abbandonati a se stessi

Da nord a sud, gli operatori sanitari stanno denunciando condizioni inaccettabili sia per i pazienti che per chi lavora in strutture ospedaliere e in case di riposo. Una situazione in cui le istituzioni preposte continuano a non dare indicazioni precise su come agire.

«La sensazione è quella di essere stati abbandonati». Lo dice un infermiere di una casa di riposo della bergamasca che, come la stragrande maggioranza di quanti stanno rilasciando dichiarazioni in questo periodo, chiede di restare anonimo. «Tutti si scandalizzano per il medico di Wuhan, screditato e minacciato dalla polizia dopo essere stato il primo a lanciare l’allarme della Covid-19. La realtà, però, è che da noi non sarebbe andata troppo diversamente. Se io avessi denunciato pubblicamente i primi casi sospetti qua nella struttura, avrei rischiato il licenziamento e la radiazione dall’ordine. Noi infermieri e operatori non venivamo informati di nulla». In una lunga intervista pubblicata sul “Quotidiano del Sud” il 4 aprile il presidente dell’associazione di categoria Uneba Luca Degani ha accusato duramente la Regione Lombardia, e in particolare il presidente Attilio Fontana e l’assessore alla sanità Giulio Gallera, di avere grosse responsabilità nello sviluppo di focolai nelle strutture assistenziali del territorio. Si cita la delibera regionale XI/2906 dell’8 marzo, con cui veniva chiesto alle case di riposo di predisporre l’accoglienza e l’assistenza di malati Covid-19 a bassa intensità. Una richiesta evidentemente giustificata dalla saturazione delle corsie ospedaliere, ma che – per usare le parole di Degani – «è stato come accendere un cerino in un pagliaio». Stando a ciò che sta emergendo nelle ultime settimane, infatti, nelle strutture per anziani si sta consumando un’ecatombe quasi pari a quella che coinvolge gli ospedali: un’inchiesta dell’Istituto Superiore di Sanità (cui ha però risposto solo il 14% delle case di cura italiane) ha calcolato che dal primo febbraio al 31 marzo nelle realtà lombarde ci sono stati 563 decessi positivi al Covid-19 o con sintomi simil-influenzali su 1130. In Trentino, invece, è stato rilevato addirittura un raddoppio delle morti rispetto all’andamento dello scorso anno. Ma i casi più eclatanti sono saliti all’onore delle cronache certamente a Milano, dove al Pio Albergo Trivulzio e in altre strutture la magistratura sta aprendo numerose indagini a seguito della mortalità elevata. «Le case di cura sono delle polveriere», affermano senza troppi giri di parole dalla segreteria della Cgil “Ticino Olona” nel legnanese, dove i sindacati hanno ripetutamente denunciato l’inazione di Ats, Asst e Regione. «Tutti ripetono di aver applicato alla lettera i protocolli, eppure come mai qua sul tavolo abbiamo un plico di diffide? La realtà è che non sono state prese per tempo le giuste scelte organizzative e le strutture non sono state messe in sicurezza. Anzi, non è proprio stata presa decisione alcuna: di fatto, le case di riposo si stanno autogestendo».

ECCELLENZA LOMBARDA?

«È una fortuna che il nostro dirigente responsabile non abbia seguito le indicazioni dell’Ats». Davide lavora in una Rsa ad Alzano Lombardo, dove è scoppiato il focolaio di Covid-19 nella bergamasca, e assieme ai colleghi si prende cura di quasi un centinaio di pazienti. «Abbiamo avuto l’intuizione di chiudere la struttura già dalla fine di febbraio, mentre da parte delle istituzioni territoriali ci venivano invece fatte pressioni affinché restassimo aperti. Anche per quanto riguarda la delibera in cui ci chiedevano di assistere malati Covid-19 a bassa intensità abbiamo detto di no.

Alla fine i numeri ci stanno dando ragione: da noi ci sono stati circa la metà dei decessi che si sono verificati in altre case di riposo della zona. Tutto merito di un’intuizione iniziale, di non aver sottovalutato il problema».

Medici, infermieri e operatori della struttura si sono messi in isolamento su base volontaria già dal 23 febbraio, ben prima che venisse decretato il lockdown nazionale. Così nel piccolo paese di Morimondo, ai confini occidentali della provincia di Milano, i lavoratori della casa di riposo Riccardo Pampuri si sono organizzati in modo da “autorecludersi” all’interno della Rsa. «Si tratta di una cooperativa in cui c’è una forte condivisione di principi», spiegano sempre dalla segreteria della Cgil “Ticino Olona”. «Avevano la possibilità di sfruttare come abitazione temporanea la palestra presente nella struttura, per essere vicini 24 ore su 24 agli assistiti ma anche per tutelare i propri famigliari da un possibile contagio. Di fatto, né fra i pazienti né fra gli operatori, risultano esserci oggi persone infette».

Il comune di Morimondo (Milano)

La disorganizzazione e la “parcellizzazione decisionale” delle strutture assistenziali sul territorio non nascono dal nulla. In linea con l’intero sistema sanitario, si è andati negli ultimi anni verso un modello di sempre maggiore commistione fra pubblico e privato nonché di accentramento dei contesti di cura e conseguente diminuzione dei presidi sul territorio. L’Annuario Statistico del Servizio Nazionale 2017 rileva «un andamento decrescente del numero delle strutture di ricovero, per effetto degli interventi di razionalizzazione delle reti ospedaliere che determinano la riconversione e l’accorpamento di molte strutture: il numero delle strutture pubbliche [nel triennio 2014-2017, ndr] diminuisce del 2,0% , quello delle strutture private accreditate diminuisce del 1,7%». Nel 1998 in Italia erano attivi 1381 istituti di cura, di cui 61,3% pubblici e 38,7% privati (con un totale di posti letto corrispondente a circa 311mila unità), mentre nove anni più tardi gli istituti sono ridotti a 1000, di cui il 51,80% pubblici e il 48,20% privati (con i posti letti diminuiti fino a 191mila). Si tratta di un elemento non di poco conto, nel momento in cui si prova a ipotizzare le cause del collasso della sanità lombarda di fronte allo svilupparsi dell’epidemia. «I presidi sanitari nei centri territoriali più piccoli sono diminuiti costantemente in nome della spending review», conferma un operatore sanitario di Treviglio. «La conseguenza è che le liste d’attesa delle strutture più grosse si sono intasate e che, com’è logico, un sempre maggior numero di pazienti è stato ricoverato negli stessi ambienti. Può essere che questo abbia aiutato il contagio a diffondersi fra territorio e territorio».

Andando poi a restringere lo sguardo verso il contesto più specifico delle case di cura, si notano ulteriori problemi strutturali uniti a scandali di natura giudiziaria. Nel 2019 fece scalpore un’indagine pubblicata dalla Fipac in cui veniva denunciata una lunga sequela di mala gestione, abusi e maltrattamenti nel settore dell’assistenza agli anziani e dalla quale si evince che nel giro di meno di tre anni erano state chiuse o sequestrate sul territorio italiano più di 200 strutture. Nella stessa indagine si legge inoltre che

«Dal 2010 al 2016 i posti letto convenzionati sono diminuiti di circa il venti per cento e si sono stabilizzati in circa 250.000 unità, questo mentre solo gli anziani non autosufficienti sono cresciuti dieci volte di più. Numeri che fanno dell’Italia il fanalino di coda in Europa sul fronte delle strutture specializzate per l’accoglienza di anziani non autosufficienti.

La Commissione europea identifica in 50-60 posti letto ogni mille abitanti superiori ai sessanta anni, il parametro standard di offerta di Rsa, ma in Italia l’offerta è di 18,5 posti letto ogni mille abitanti. […] All’inefficienza del pubblico risponde una crescita incontrollata di strutture private, molte non convenzionate con forme di franchising e il proliferare di impresari “fai da te”, che, aggirando norme e leggi, s’improvvisano imprenditori del settore, senza averne le capacità e le risorse».

Mancanza di coordinamento, sottovalutazione del rischio, difficoltà di reperimento dei dispositivi di protezione individuale ed esposizione al virus di utenti e lavoratori: il collasso delle case di riposo della Lombardia di fronte all’epidemia di Covid-19 si è generato nell’intreccio di questi quattro fattori. In assenza di linee guida chiare, anzi a fronte di richieste poco o per nulla sostenibili, le singole strutture si sono ritrovate a gestire l’emergenza secondo i propri criteri e le proprie capacità. Chi si è attivato per tempo sembra essere riuscito a contenere le conseguenze. Ma gli altri stanno pagando un prezzo altissimo in termini di contagi e decessi, che avvengono spesso in condizioni di isolamento totale per il paziente.

EROI E CIRCOLARI

Le condizioni di scarsa sicurezza e di scarsa organizzazione non riguardano certo solo le strutture del nord. Le testimonianze si moltiplicano in tutta la penisola, a partire anche e soprattutto da chi lavora nei reparti e nelle corsie degli ospedali: «Per me la cosa più grave è che qui non è mai stato attivato un percorso differenziato, separando, dunque, i casi sospetti dagli altri pazienti presenti nei pronto soccorso», racconta Maurizio Lombardi, infermiere presso il reparto Covid dell’Ospedale del Mare di Napoli decidendo di esporsi durante un’iniziativa di denuncia promossa dall’Unione dei Sindacati di Base. «L’attesa dei risultati dei tamponi (a Napoli parliamo anche di una settimana) la mancata attivazione delle tende, tende fantoccio, che non sono mai state attivate perché non avevano riscaldamenti all’interno, sono tutti fattori che insieme alla mancanza di protezioni adeguate per il personale sanitario rischiano di produrre un disastro. Il nostro primario della medicina d’urgenza ci rideva in faccia quando all’inizio dell’epidemia ci vedeva indossare le mascherine. E poi è stato uno dei primi ad ammalarsi, probabilmente portando il contagio anche tra gli operatori e all’esterno». Sottovalutazioni e mancanze descritte anche da Loredana Viscido, infermiera caposala del blocco operatorio presso l’azienda ospedaliera “Ruggi” di Salerno, che in particolare riferisce della carenza quasi assoluta di barelle di contenimento: «Fino a pochi giorni fa con la stessa barella si passava per tutto l’ospedale, dall’infettivo alla rianimazione. Ci troviamo in uno stato di totale abbandono. Un’operatrice socio-sanitaria del mio reparto aveva un papà e un figlio con la febbre che abitano nella stessa casa e le è stato detto che comunque doveva venire a lavorare. È mancato qualsiasi piano di prevenzione». Lo conferma nel suo racconto anche Rosy Lisitano, infermiera a Messina: «Non eravamo pronti, siamo arrivati impreparati, gli altri reparti stanno chiudendo man mano e ora i pazienti affetti da Covid diventano sempre di più. I dispositivi di protezione individuale (dpi) mancano anche qui, come sta emergendo in ogni parte d’Italia, e ci stiamo attrezzando da soli, come possiamo.

Abbiamo tenuto le stesse mascherine anche per più giorni. Facciamo turni massacranti, anche di undici ore. Senza poter bere né mangiare. È il nostro mestiere, certo, l’abbiamo scelto, ma vogliamo essere tutelati. Non siamo carne da macello».

È lo stesso concetto che più o meno esprime Francesco Attianes, infermiere presso la sala rianimazione dell’ospedale Umberto I di Nocera Inferiore, in provincia di Salerno. Racconta: «Qui abbiamo soltanto otto posti nelle terapie intensive. La maggior parte di coloro che sono passati da noi ora sono stati trasferiti all’ospedale Cotugno di Napoli, ma anche lì, come del resto in tutta la Campania si stanno esaurendo i posti disponibili. Altri quattro posti letto sono stati attrezzati dall’Asl di Salerno in un altro presidio ospedaliero. Ma il nodo fondamentale, la questione principale è quella delle protezioni che mancano. Tutto questo mentre la politica si riempie la bocca chiamandoci “eroi”».

Sono solo alcune delle voci di quelli che vengono chiamati appunto “eroi”. Si tratta di testimonianze rilasciate durante il forum che è stato animato qualche giorno fa dal sindacalista di Usb Giovanni Pagano e che si è svolto in via telematica sui canali social dello stesso sindacato. «Sono testimonianze lucide e crudeli», ha detto Vito Storiniello della Federazione, annunciando che «sono già una decina gli esposti presentati dal sindacato alle procure della repubblica di diverse città italiane. Non si tratta soltanto di impreparazione, ma esistono responsabilità precise nella pessima gestione di questa emergenza». Stiamo sicuramente assistendo agli effetti dei tagli volontari e indiscriminati alla sanità pubblica degli ultimi 30 anni, oltre che risultanze di sperperi e di corruzioni. Perché «il dubbio molto forte è che sono stati proprio gli stessi ospedali, dunque, i maggiori veicoli del contagio», come ipotizza Paolo Di Stefano, infermiere a Milano. «Del resto i problemi si presentano uguali su tutto il territorio nazionale. I dpi mancano ovunque perché le regioni non avranno previsto un piano pandemico e al suo interno un piano di approvvigionamento delle protezioni. Al pari dell’assenza dei tamponi è una mancanza che ha lasciato gli operatori indifesi. Da mesi, ormai, ribadiamo che i tamponi dovevano essere fatti a tutti gli operatori, indistintamente». In questo senso, ha proseguito Di Stefano: «Le disposizioni della regione Lombardia e quelle dei decreti governativi che hanno previsto la possibilità di effettuare i tamponi solo a coloro che mostravano dei sintomi è stata una assurdità, che ha favorito senza dubbio il contagio». Ci parlano di questa assurdità circolari come quella emanata dal direttore sanitario del presidio medico Perrino di Brindisi Antonino La Spada (di cui Dinamopress è entrato in possesso) che, ancora il 31 marzo in piena emergenza sanitaria, ci teneva a precisare alle Unità Operative degli ambienti assistenziali che «appare implicito che i tamponi sul personale dipendente non debbano essere più effettuati», mentre si raccomandava «una regolamentazione dell’accesso agli spazi comuni di tutto il personale in maniera da garantire comunque il distanziamento sociale necessario per evitare il contagio da Covid-19». Non viene indicato come regolamentare l’accesso e garantire il distanziamento. Tanto, alla fine, ci pensano gli “eroi”.

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