Il lavoro sotto il Covid-19: confinamento e sfruttamento in Francia

Da più di una settimana la Francia è oggetto di misure di emergenza tardive e contraddittorie. Mentre il presidente Macron invoca la necessità di cambiare modello di sviluppo, l’insieme dei provvedimenti approvati dal governo ne confermano però l’impianto.

Pubblichiamo alcuni elementi di riflessione sul ruolo del lavoro nella gestione della crisi sanitaria ed economica legata al Covid-19, nonché su un possibile reddito di quarantena che sta iniziando a emergere ovunque in Europa, mentre questa crisi si estende ogni giorno in Europa. Da più di una settimana, la Francia è oggetto di misure di contenimento eccezionali, mentre la nuova epidemia di Coronavirus (la terza in meno di venti anni dopo la SARS nel 2003 e la MERS nel 2012) ha costretto circa 2 miliardi di persone nel mondo a condizioni simili, che modificano radicalmente le nostre abitudini e le nostre condizioni materiali di vita. Una crisi sanitaria di importanza storica che è anche una crisi ecologica e delle forme di riproduzione del capitale e della specie umana, perché illustra, con un’evidenza finora sconosciuta, quali sono i limiti dello sviluppo capitalistico e mette direttamente in discussione le pratiche specifiche dell’industria agro-alimentare, dell’agricoltura intensiva e più in generale dei diversi regimi di estrazione applicati alla natura. Ma una crisi che ha anche enormi implicazioni economiche e sociali e, in particolare, un impatto straordinario sul mondo del lavoro (anche l’Organizzazione internazionale del lavoro ha previsto la possibile perdita di circa 25 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo). Sembra quindi importante sottolineare che l’atomizzazione delle popolazioni attraverso misure di contenimento va di pari passo con un allineamento delle situazioni nazionali sia dal punto di vista della vita quotidiana che degli scenari di controllo.

Nel suo discorso di domenica 16 marzo, Macron ha annunciato, con una retorica militaristica che fa appello all’unità nazionale, misure straordinarie per condurre la sua «guerra» contro Covid-19, un nemico tenace perché «invisibile» e «inafferrabile», ma contro il quale il governo, che aveva ben visto arrivare l’emergenza, non ha preso che misure estremamente tardive.

Questo ritardo potrebbe avere conseguenze terribili per la tenuta delle strutture sanitarie in termini di vite umane. Infatti, la chiusura delle scuole e di tutti i negozi (tranne prodotti alimentari e farmaceutici) non è stato seguita dalla chiusura di numerosi siti produttivi in ​​cui la sicurezza dei lavoratori, nonostante le misure annunciate dal governo, non è e non può essere garantita e in cui il «diritto di astensione» non viene rispettato. Siamo quindi di fronte a una forma totalmente contraddittoria di gestione della crisi sanitaria e in continuità con il progetto di governo macronista: il presidente invoca nel suo discorso la necessità farla finita con il modello di sviluppo che abbiamo conosciuto finora, ma le sue misure e la sua «economia di guerra» confermano per il momento i pilastri di questo modello, in particolare la conservazione di una logica produttivistica e di breve termine attraverso esenzioni dai contributi di sicurezza sociale per le imprese. L’attuale crisi evidenzia anche tutta la stratificazione esistente nel mondo del lavoro. Questo è diviso, da un lato, tra i segmenti che svolgono lavori compatibili con il telelavoro (4 impieghi su 10 per circa 8 milioni di lavoratori su circa 29 milioni di popolazione attiva in Francia), o quello dei/delle dipendenti che, restando a casa, possono accedere a forme di disoccupazione parziale e, d’altra parte, un’enorme percentuale di lavoro manuale o esecutivo: tutte le categorie di lavoratori che continuano a lavorare in situazioni di grande stress e pericolo per la propria salute. Infine, quello di tutti coloro che, pur restando a casa, non hanno accesso a nessuna delle forme di protezione che il governo propone per affrontare questa situazione eccezionale: i piccoli artigiani indipendenti, i disoccupati esclusi dai nuovi criteri di assegnazione delle prestazioni previsti dalla riforma dell’indennità di disoccupazione; o quelli che si trovano in situazioni molto precarie, integrando il loro reddito con forme di lavoro accessorio in nero.

Insomma, sembra che, nonostante gli ossessivi inviti della radio a dedicarsi alle distrazioni delle serie televisive, alla riscoperta del piacere di leggere, cucinare … la quarantena romantica sia un privilegio riservato a pochissime persone. Condizionato dalla residenza secondaria, dall’eredità familiare e dal posto nella divisione sociale del lavoro. Per il resto, questo momento è fonte di insicurezza finanziaria e grande preoccupazione. Quelli che continuano a lavorare lo fanno assumendo enormi rischi per la loro salute: lavoratori negli ospedali, trasporti pubblici, magazzini logistici, camionisti, netturbini, lavoratori e lavoratrici autonome che lavorano per piattaforme di consegna o di commercio elettronico e nei supermercati. I settori che in realtà non hanno il diritto di interrompere il lavoro a beneficio della loro salute si sovrappongono in modo sinistro ad alcuni dei settori in lotta dal 5 dicembre nel movimento contro la riforma delle pensioni. Sembra che Macron e i suoi “marciatori” [En marche è il nome del partito di Macron, ndt] vogliano sentir parlare molto di più di “mobilitazione generale” che di nocività e di stato sociale. Da buon piazzista del capitale nazionale, egli sa bene che parlando di guerra, parla anche di carne da cannone. Muriel Pénicaud, in persona, parla di “disfattismo” quando i cantieri si chiudono, e dice bene che non sarà lo stato a indennizzare, ma i lavoratori a pagare. Mentre Didier Guillaume, ministro dell’agricoltura, invita 200.000 francesi senza attività a integrare «il grande esercito dell’agricoltura francese».

Innanzitutto al personale medico e paramedico va la nostra solidarietà: le mobilitazioni di questi lavoratori e lavoratrici contro la gestione imprenditoriale degli ospedali e per la difesa e il miglioramento di un servizio sanitario pubblico democratico ed emancipato della logica del New Public Management sono stati uno dei momenti chiave di questo autunno. Questi medici e infermieri hanno denunciato lo stato della sanità pubblica in Francia e oggi accusano il governo della gestione caotica delle disfunzioni negli ospedali riguardo al numero di persone infette, in terapia intensiva o decedute, al ritardo nelle decisioni di contenimento e infine alla mancanza di strumenti di protezione per svolgere il proprio lavoro in sicurezza. Questo è il caso del collettivo C19 (composto da 600 medici) che ha denunciato il governo per «menzogna di stato». Dobbiamo sostenerli con l’applauso popolare alle 20,00 e allo stesso tempo accusare il sistema che sta gestendo questa crisi sanitaria in modo irresponsabile, chiedendo più mezzi e un piano di assunzione straordinario, riprendendo le rivendicazioni che hanno caratterizzato il loro movimento, esigendo più letti negli ospedali e una riqualificazione dei salari.

Per tutti gli altri settori produttivi, tuttavia, deve essere fatto un discorso chiaro e netto. La produzione deve fermarsi e deve fermarsi immediatamente nei principali centri dell’epidemia. Rallentare la velocità di trasmissione del Covid-19 è una questione di democrazia: perché ognuno/a di noi deve poter essere curato/a. Ciò che a noi sembra importante allora e quello che possiamo imparare guardando all’esperienza italiana è che dobbiamo esigere la chiusura di tutti i luoghi di produzione che non sono essenziali per la sopravvivenza di ognuno/a di noi. (che non appartengono ai settori medico o alimentare, della logistica di base e dell’energia). Macron è piuttosto vago quando «invita le aziende dei settori essenziali della nostra economia a mantenere la propria attività, nel rispetto delle norme di sicurezza sanitaria». La legge sull’emergenza sanitaria parla di «settori particolarmente necessari per la sicurezza della nazione o per la continuità della vita economica e sociale», concetto che sarà definito da un prossimo decreto. Il governo gioca sull’ambiguità tra “vita umana” e “vita economica”, tra salute delle persone e crescita del PIL.

Come in tutte le crisi, questa crisi è stata in effetti un’opportunità immediata per molti di avviare operazioni commerciali su larga scala che hanno approfittato delle nuove abitudini di consumo imposte dal contenimento.

Basta guardare Amazon, che, mentre annuncia uno straordinario piano di assunzioni negli Stati Uniti d’America di circa 100.000 persone, cerca di incoraggiare i suoi lavoratori con aumenti irrisori di paga oraria.

 

 

Se la situazione è critica per i lavoratori e le lavoratrici in tutti questi settori, in ognuno di questi sono iniziate lotte e una forte resistenza al lavoro in condizioni potenzialmente letali. Dall’annuncio del confinamento del 16 marzo scorso, gli operatori sanitari hanno continuato a denunciare la mancanza di maschere protettive negli ospedali: di conseguenza, a Vichy gli operatori di emergenza continuano lo sciopero iniziato lo scorso giugno e gli assistenti dell’ospedale psichiatrico di Caen presentano un avviso di sciopero. In effetti, i decessi tra i sanitari iniziano ad aumentare nella seconda settimana di confinamento, ciò che la dice lunga sullo stato degli ospedali e le condizioni di lavoro durante questo periodo.

Se nei siti di produzione e nei luoghi di lavoro difendiamo il “diritto di sciopero”, una difesa che ha spesso provocato tensioni tra basi sindacali e datori di lavoro, la battaglia non dovrebbe fermarsi a questo diritto. Il governo ha appena adottato una misura che consente di prolungare l’orario di lavoro settimanale massimo (da 48 a 60 ore) per settori come l’energia, la logistica o ancora l’industria agro-alimentare: anche se è necessaria una discussione approfondita su ciò che c’è dietro il termine produzione “essenziale”, questa misura non farà che accentuare i conflitti già presenti in particolare in diversi siti di Amazon e dovrebbe portare a un rifiuto più generalizzato del lavoro e a una ripresa di alcune forme di sciopero, ovunque ci siano lavoratori e lavoratrici che non sono protetti* o che sono risultati* positivi* al Covid-19.

Pertanto, la richiesta immediata di interrompere la produzione al fine di salvaguardare la salute e la vita collettiva potrebbe, a nostro avviso, iscriversi nella continuità del movimento di sciopero che ha colpito e bloccato il paese dal 5 dicembre. La questione delle pensioni prima, e poi dello status della ricerca universitaria, che il movimento di sciopero ha posto al centro della lotta, ha già definito un campo di conflitto che oggi diventa ancora più essenziale per quanto riguarda il cambiamento radicale delle modalità di produzione e riproduzione della società.

Inoltre, la situazione italiana ci insegna che la scelta fatta inizialmente dal governo di non chiudere i siti produttivi, ma di mantenerli in funzione per non perdere i profitti, è costata alla regione Lombardia, motore industriale dell’Italia, un numero molto alto di morti. Va detto chiaramente che queste scelte, fortemente contestate da molti sindacati che hanno incrociato le braccia in diverse occasioni e infine hanno proclamato uno sciopero generale ieri, 25 marzo, sono state il risultato della pressione esercitata dalle organizzazioni padronali sul governo (in primo luogo Confindustria, l’analogo italiano di Medef). Qui in Francia, dobbiamo chiedere l’immediata chiusura di tutti i siti produttivi non essenziali, ma l’attuale crisi, come abbiamo detto, non riguarda solo i settori ancora in attività.

Da una prospettiva più generale, va sottolineato che non spetta ai lavoratori e alle lavoratrici pagare una crisi che ha più a che fare con uno sfruttamento incontrollato della natura e con lo smantellamento della sanità pubblica che con pipistrelli e pangolini. Questo è il motivo per cui, ovunque in Europa, sta iniziando a emergere lo slogan di un “reddito di quarantena”: una misura universale per far fronte all’emergenza imposta da COVID-19 e quindi essere in grado di remunerare tutte le persone in difficoltà per lo stato di confinamento, una situazione in cui l’isolamento sociale e lo sfruttamento (del lavoro e del consumo) delle soggettività atomizzate spesso lavorano insieme. È una misura che potrebbe essere finanziata iniettando fondi dalla Banca centrale europea o con altre misure di investimento, nonché con una riforma fiscale a medio e lungo termine, come la introduzione dell’ISF o l’abolizione del CICE, rivendicazioni della prima ora dei Gilets Jaunes.
È chiaro, da questo punto di vista, che il gioco si gioca sempre più a livello delle istituzioni dell’Unione Europea, nel conflitto tra i paesi più colpiti dalla crisi sanitaria (come l’Italia, la Spagna, la Francia, il Belgio, ecc.), che chiedono l’introduzione di euro-obbligazioni (o coronabond) e dei falchi neoliberisti del nord che non intendono cambiare le rigide regole di gestione del bilancio e l’austerità delle politiche economiche e monetarie. Le somme gigantesche che vengono scambiate ogni giorno a livello globale ci mostrano che, come per magia, il denaro di cui era stata annunciata la scomparsa a ogni riforma del bilancio appare di nuovo, non c’è bisogno di essere uno stregone per trovare la grana.

È sufficiente andare a cercarla dove è stata guadagnata negli ultimi anni, tassando grandi evasori fiscali o giganti del web, speculazioni immobiliari o dove il lavoro è sottopagato.

Questo primo contributo sui conflitti di lavoro al tempo di Covid-19 mira a tessere una continuità tra le straordinarie lotte che hanno caratterizzato la Francia negli ultimi anni – dalla rivolta dei Gilets Jaunes allo sciopero generale più lungo della storia europea recente – e l’attuale situazione di confinamento di tutta la società.

Tuttavia, non possiamo sottovalutare la potente discontinuità che questa crisi senza precedenti porta, in termini di consapevolezza globale dell’esaurimento di un modo di produzione, di un modello di sviluppo e, più in generale, del “vecchio mondo”. Inoltre, è abbastanza evidente che se diverse strategie di governance e diversi interessi nazionali si scontrano nella gestione dell’epidemia e nel controllo delle popolazioni, la diffusione del virus crea qui e ora una potente unificazione della società, delle sue reti di solidarietà a livello europeo e presto in tutto il mondo.

Lo sappiamo: gli impatti della crisi pandemica, così come le risposte a essa, influenzano i diversi contesti nazionali e sociali in modo differenziato, diffondendo i loro effetti sulle linee della gerarchia e dello sfruttamento della società. Ma differiscono anche in base alle reazioni incontrate e alla capacità di invenzione politica e auto-organizzazione suscitata. Da questo punto di vista, la situazione attuale è sia un dramma sociale sia un’opportunità di rottura, perché potrebbe rappresentare un laboratorio non di unità nazionale, di chiusura dei confini e di imposizione di un’economia di guerra neoliberista, ma conflitti sociali e pratiche sovversive dentro e contro la crisi riproduttiva che il capitalismo mondiale sta attraversando. È su questa consapevolezza e su queste contraddizioni che siamo chiamati all’azione.

Articolo apparso in francese sul sito della Plateforme d’Enquêtes Militantes

 

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