Pensare alle prigioni nel momento della pandemia di Coronavirus in Africa

Testo di Marie Morelle, relatrice HDR in Geografia (Università Paris 1 Panthéon Sorbonne, UMR PRODIG, nella delegazione IRD Cameroun presso la Fondazione Paul Ango Ela), Frédéric Le Marcis, professore in antropologia (Ecole normale supérieure, delegato IRD presso il Centro di ricerca e formazione in infettologia della Guinea) e Sylvain Faye, professore in antropologia (Università Cheikh Anta Diop, Sénégal).

da http://libeafrica4.blogs.liberation.fr/2020/04/07/penser-la-prison-lheure-de-la-pandemie-de-coronavirus-en-afrique/

Da alcune settimane, la pandemia di Coronavirus occupa le pagine o le trasmissioni dei media.

Ora, per una volta, essa dà origine a diversi articoli sulla situazione sanitaria e sociale nelle prigioni, dalle proteste dei detenuti privati dei colloqui in Italia agli appelli alla liberazione dei prigionieri in Francia e in Senegal, per esempio. Man mano che il virus circola da un continente all’altro, le dichiarazioni degli avvocati, delle ONG o dei ricercatori si moltiplicano, diffuse dalla stampa e dalle radio sia nazionali che internazionali. Vedere ad esempio la dichiarazione congiunta di un collettivo di ONG e di attori nazionali e internazionali per le prigioni in Africa, diffusa da Avvocati senza frontiere – Belgio: <<di fronte alla propagazione del Covid-19, prendere misure urgenti e immediati per proteggere i diritti dei detenuti in Africa>>, 24 marzo 2020; l’appello dei ricercatori, avvocati e magistrati in Francia: <<Coronavirus: riduciamo il numero di persone incarcerate per pene brevi o verso fine pena>>, Le Monde, 19 Marzo 2020; l’analisi di Gwenola Ricordeau: <<Perché svuotare le prigioni è necessario>>, The conversation, 25 Marzo 2020.

L’epidemia avrà quantomeno contribuito a riaprire il dossier sulla salute in prigione, in particolare sulle questioni riguardo la promiscuità e le condizioni igieniche nei luoghi di detenzione che sarebbero favorevoli alla trasmissione del virus. Ci si può interrogare sul tempismo col quale si riconosce e si mette all’ordine del giorno una questione sanitaria per le carceri discussa già da molto tempo. Tuttavia è importante andare oltre l’analisi della situazione per riflettere sul ruolo dell’istituzione penitenziaria nelle politiche della sanità pubblica così come sulla dimensione politica di una tale discussione. Noi proponiamo di farlo a partire dalle carceri africane, trattenendoci da qualsiasi generalizzazione riguardo il continente e da una lettura afrocentrica, che andrebbe a discapito di una lettura che vogliamo sia universale. In effetti è sulla pena detentiva e sulla sua portata socio-politica che si tratta ancora e sempre di riflettere.

Un breve riassunto sulla situazione delle carceri nel continente africano permetterà di dimostrare la vulnerabilità nella quale si ritrovano sia i detenuti che il personale penitenziario. Si cercherà allora di individuare le risposte delle autorità pubbliche e dei soggetti generalmente coinvolti nel settore carcerario. Infine, rifletteremo su ciò che la gestione delle prigioni ci dice riguardo alle politiche della vita.

Una eterogeneità di situazioni che non deve mascherare una forte vulnerabilità

Nelle prigioni in Africa vi sono diverse situazioni, sia nel numero delle carceri, che nella loro localizzazione e nella loro grandezza. I tassi di detenzione sono variabili, e perfino inferiori a quelli che si conoscono in degli stati europei o americani. Se l’Africa del Sud si distingue per un tasso di circa 300 detenuti per 100.000 abitanti, non è lo stesso per il Burkina Faso con meno di 50 detenuti per 100.000 abitanti. Quanto al Camerun è vicino al tasso della Francia, oscillando attorno ai 100 per 100.000 abitanti. In Senegal la popolazione carceraria è stimata in 11547 detenuti nel 2019, ossia una media di 68 detenuti per 100.000 abitanti.

Tuttavia, qualunque sia il tasso di detenzione, numerose carceri nel continente (e nel mondo) sono caratterizzate da un forte sovraffollamento, in particolare nelle grandi città. Ciò si traduce innanzitutto in una insufficienza di letti per i detenuti, una promiscuità enorme nelle celle e negli spazi comuni. Inoltre, le razioni alimentari così come le infrastrutture di accesso all’acqua (e quelle di drenaggio) sono sottostimate all’interno di budget spesso deboli. Molti prigionieri soffrono dunque di dermatosi (da cui la scabbia) e di malnutrizione (da cui il Béri Béri, carenza di vitamina B). A queste malattie se ne aggiungono altre: la popolazione carceraria si distingue in effetti per una maggiore incidenza dell’HIV e della tubercolosi rispetto al resto della popolazione. I detenuti appartengono dunque a quelle che nel momento della pandemia di Coronavirus (Covid-19) sono definite come “popolazioni vulnerabili”. I detenuti sono vulnerabili a causa del sovraffollamento carcerario di cui sono vittime, in un contesto dove il distanziamento sociale è considerato come l’arma fondamentale per spezzare la catena di trasmissione del virus. Da molto tempo le prigioni, luoghi chiusi e isolati sono divenuti “incubatori” per diversi virus dalla rapida propagazione, senza trascurare lo storico disprezzo per le carceri come vettori di malattie ma anche di contaminazione morale.

In effetti i detenuti soffrono di interruzioni ricorrenti del loro percorso di cura (all’ingresso in detenzione quando sono già sotto trattamento come all’uscita se hanno iniziato il trattamento durante la loro detenzione) e dell’assenza di controlli sistematici al loro ingresso in prigione. Le infermerie, quando vi sono, mancano di materiali e medicine. Considerate per la maggior parte del tempo come parte del livello più basso del sistema sanitario, esse non sono rifornite che di farmaci per l’assistenza sanitaria di base. Per il resto esse dipendono dalle donazioni delle ONG, dalle associazioni religiose, dagli sponsor o dalle agenzie internazionali. Infine le visite delle famiglie e il loro contributo finanziario sono essenziali per facilitare la presa in carico sanitaria del detenuto malato (acquisto di medicine, realizzazione di un esame o presa in carico sanitaria fuori dalla prigione). La sanità penitenziaria soffre di una disconnessione con gli operatori e i centri della sanità: essa è troppo spesso dimenticata nelle politiche di sanità pubblica. In Senegal la competenza dell’amministrazione penitenziaria riguarda solo la sorveglianza delle prigioni e la sicurezza dei detenuti. La sanità e l’igiene carceraria fanno capo al ministero della Sanità, e sono sfortunatamente dimenticate dal sistema sanitario.

In dei contesti dove le infrastrutture sanitarie sono insufficienti, portare la questione della salute carceraria all’ordine del giorno può sembrare quasi una richiesta illegittima. Le logiche di sicurezza prevalgono spesso sulle logiche sanitarie.

La circolazione attiva del Covid-19, e la minaccia epidemiologica che la prigione rappresenta in questo contesto, impone non solo di non chiudere più gli occhi sulla negazione del diritto alla salute dei detenuti, ma anche, ricordiamolo, sulle condizioni di lavoro del personale penitenziario, delle guardie così come dei medici.

Prime risposte

La situazione dunque sembra confermare che la prigione non è un edificio isolato, protetto dai suoi alti muri, ma uno spazio poroso, prodotto e inscritto in una varietà di flussi. Le amministrazioni penitenziarie hanno fatto il punto su questa situazione. In Senegal, l’inquietudine crescente degli agenti della divisione medico-sociale dell’Amministrazione penitenziaria li ha condotti a interpellare il ministro della Sanità perché siano immediatamente prese delle misure di controllo mediche e igieniche nelle prigioni. Molto spesso le visite sono state proibite. Tuttavia è essenziale insistere sulla dipendenza dei prigionieri dalle loro famiglie (denaro, alimenti, medicine ma anche sostegno morale) e all’inverso, di questi ultimi da alcuni detenuti che riescono a svolgere attività generatrici di reddito (informali o criminali). Rompere questo legame può avere degli effetti devastanti nella vita dei prigionieri e dei loro cari. Presso la Casa di detenzione e correzione di Ouagadougou (MACO), se le visite sono sospese, è stato messo in atto un sistema di pacchetti (che è necessario disinfettare). Esso non rimpiazza una visita anche se la circolazione illegale di telefoni non è un mistero per nessuno (a condizione che si disponga delle chiamate). In Senegal, l’amministrazione penitenziaria non ha ancora interdetto, ma soltanto ridotto le visite familiari, promettendo un dispositivo di comunicazione a costo ridotto allo scopo di permettere ai detenuti di mantenere il contatto con le proprie famiglie. D’altro canto tutte le autorizzazioni di accesso agli stabilimenti penitenziari accordati ai rappresentanti diplomatici, alle associazioni, alle organizzazioni non governative, agli studenti e ai ricercatori sono state sospese fino a nuovo ordine.

Tuttavia, si deve anche riflettere su un altro flusso, ossia quello verso il tribunale. Si tratterà di sospendere i processi, come ha fatto la Guinea, il Senegal, o ancora, parzialmente, il Gabon (salvo per i reati più gravi, le delibere e le domande di messa in libertà provvisoria)? A rischio di allungare le durate delle detenzioni preventive oltrepassando le scadenze legali? Come garantire le visite degli avvocati? La crisi sanitaria non può giustificare una sospensione dei diritti!

Si pone anche la questione di coloro che entrano in carcere. E infine, non si può trascurare l’andirivieni delle guardie che avviene maggiormente nel contesto di città che non hanno messo in atto misure di confinamento in ragione del loro costo sociale, economico e politico.

Ovviamente possiamo prendere in considerazione la messa in atto di sistemi di sicurezza senza rinunciare alla sensibilizzazione: prendere la temperatura dei visitatori e delle guardie, obbligarli a lavare le mani all’entrata, mettere dei secchi di candeggina, o con del sapone, in assenza del gel idroalcolico insufficiente nei centri di detenzione e negli uffici dell’amministrazione e infine equipaggiare il personale sanitario con mezzi di protezione (maschere, guanti, camici). Questo è ancora più necessario in molti paesi dove le associazioni e le ONG (le cui autorizzazioni sono ormai spesso sospese) hanno fornito una risposta a determinate esigenze sanitarie dei detenuti. Resta da sapere se queste azioni sono sostenibili nel tempo e replicabili in tutte le prigioni di uno stesso paese, in particolare per delle ragioni finanziarie.

Sottoporre a screening con l’aiuto di kit le guardie e i nuovi entrati è una sfida, visto che i kit mancano. Inoltre gli individui sottoposti a screening devono essere isolati dagli altri detenuti, ulteriore problema in un contesto di sovraffollamento. Per quanto riguarda le maschere c’è carenza anche di quelle.

Non ci si stupirà dunque degli appelli alla liberazione di alcune categorie di detenuti lanciati più spesso dalle ONG (in Sud Africa o in Camerun ad esempio) e dagli avvocati (in Algeria), allo scopo di permettere alle autorità sanitarie di poter controllare e proteggere l’ambiente carcerario: i più anziani ad esempio, i più vulnerabili o ancora secondo la pena da scontare o il tipo di reato. Se la legge non lo permette, si può ricorrere a un decreto presidenziale, per delle grazie, frequenti sul continente e a cui l’Etiopia ha fatto ricorso il 25 Marzo scorso per le prigioni di Kilinto, Shewarobit, Ziway, Dire Dawa e Qualiti. In Kenya dei detenuti della prigione di Shimo La Tewa effettueranno la loro fine pena ai domiciliari partecipando a dei lavori per la comunità. Il Niger ha ugualmente annunciato di aver liberato 1540 detenuti. In Senegal il presidente della Repubblica ha graziato 2036 detenuti, condannati per diversi reati e detenuti in diversi edifici penitenziari sparsi nel paese. Le liberazioni interessano principalmente i detenuti che beneficiano di una remissione totale o parziale della pena, i minori, i gravemente ammalati o quelli oltre i 65 anni. Si può anche tenere in conto della commutazione dell’ergastolo alla reclusione di 20 anni, facilitando altre liberazioni immediate. Va fatto notare che i detenuti condannati per omicidio, stupro, pedofilia, traffico di droga, furto di bestiame sono stati esclusi dall’amnistia.

Si può far riferimento al sito di Prison Insider che raccoglie le azione intraprese paese per paese e continente per continente giorno per giorno. In questo contesto, si nota che spesso l’oggetto delle richieste di liberazione sono i detenuti politici, come in Egitto o nel Niger. Se molto spesso attraverso questi detenuti si è potuto dare una risonanza maggiore alle condizioni di detenzione, non ci si può accontentare di una liberazione che ignori i prigionieri ordinari.

Ciò che la pandemia dice sulla prigione: una politica dei diritti

L’accesso alle cure resta un diritto e la sua negazione non dovrebbe aggiungersi legittimamente alla pena già subita. Sottoporre a screening dei detenuti, in entrata o no, o delle guardie, quando ciò è possibile, implica in seguito curarli: organizzando le celle disponibili, costruendo rifugi nei cortili e distribuendo le medicine necessarie, impedendo la contaminazione. Ciò richiede che la sanità in prigione sia chiaramente inscritta nel dispositivo del sistema sanitario e di cura e che non sia lasciata alle iniziative delle associazioni e delle organizzazioni per i diritti umani. Bisogna anche che i ministeri di tutela si sforzino a investire in questo ambito, garantendo il principio di diritto alla sanità per tutti.

La crisi sanitaria attuale dimostra che esiste una coscienza: quella dell’inclusione della prigione negli ambienti sociali e dei flussi che si generano tra essa e l’esterno. Niente di nuovo in ciò dal punto di vista delle scienze sociali, se non che il mito dell’impenetrabilità della prigione, con il pretesto della sicurezza e della punizione cade un po’ più apertamente. Privare i detenuti del sostegno esterno, vuol dire esporsi a delle rivolte. Privare i detenuti delle cure, il personale medico penitenziario lo sa, vuol dire fare delle carceri dei nuovi focolai di epidemie. Non si potrà quindi continuare a chiudere gli occhi sul ruolo legittimo della prigione, dei detenuti e del personale nelle politiche di sanità pubblica, ai fini della lotta contro le epidemie (il coronavirus oggi, Ebola domani e infine già l’HIV, la tubercolosi e l’epatite). Questa affermazione non deve tuttavia limitarsi a una questione pragmatica. Essa deve anche portare alla depenalizzazione dei reati meno gravi e a una messa in atto di misure alternative finché il sovraffollamento carcerario non avrà fine. Essa deve sopratutto essere una opportunità per parlare dei diritti dei detenuti e dei diritti che lasciamo che gli Stati violino, in Africa come altrove.

 

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