David Quammen (foto: Lynn Donaldson)
“Siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia”: non sono parole di un filosofo evoluzionista ma di un autore americano poco più che settantenne, un uomo nato in Ohio nel ’48, a pochi anni dalla fine della guerra, e che della sua infanzia ricorda il tempo passato in una foresta di pini, poi distrutta dai bulldozer per fare spazio a qualcos’altro (“un’esperienza formativa”, la definisce lui). David Quammen è una persona parecchio impegnata, di questi tempi: scrittore e divulgatore scientifico, ha una carriera invidiabile anche da giornalista e columnist, ma è soprattutto l’autore di Spillover, il saggio narrativo del 2012 (in Italia è arrivato nel 2014 con Adelphi) sulla diffusione dei nuovi patogeni, tornato di urgente attualità con la crisi del coronavirus e meritevolmente andato a ruba.
Nel suo libro più celebre – un allucinato ma scrupoloso viaggio mistico di scoperta alla radice della condizione umana, solo mascherato da nonfiction a tema scientifico – Quammen mette insieme una storia letteraria delle grandi epidemie, e insieme ci spiega perché saranno sempre di più: parla (siamo nel 2012, tenete a mente) della prossima pandemia globale e si chiede se verrà fuori da “un mercato cittadino della Cina meridionale”, spiegando puntualmente che questi virus sono l’inevitabile risposta della natura all’assalto dell’uomo agli ecosistemi e all’ambiente. “Quando hai finito di preoccuparti di questa epidemia, preoccupati della prossima”, ha detto con poco ottimismo di recente in una sua column sul New York Times. Noi di Wired gli abbiamo fatto qualche domanda sulla complicata gestione italiana del coronavirus, su come possiamo fermare i contagi e in che modo il riscoprirci all’improvviso un unico, grande ospite per il virus influisce sul nostro concetto di identità.
In un op-ed sul New York Times più di un mese fa, lei sosteneva che era troppo presto per conoscere la vera pericolosità del virus che allora era stato ribattezzato nCoV-2019. Guardando agli ultimi giorni, come definirebbe lo sviluppo attuale dell’epidemia?
“È vero, sul New York Times alla fine di gennaio ho detto che non sapevamo ancora quanto sarebbe stato pericoloso questo nuovo virus (è interessante notare che non sapevamo nemmeno come chiamarlo. Il nome provvisorio, come dicevo, era nCov-2019. Ora la sua denominazione ufficiale è Sars-CoV-2, anche se le persone stanno facendo confusione chiamandolo Covid-19, che invece è il nome della malattia). C’è ancora moltissima incertezza. L’unica sorpresa positiva dalla fine di gennaio è che la Cina, dopo un inizio terribile, ha preso il controllo del tasso di diffusione. Per quanto mi riguarda un’altra sorpresa è anche che il morbo non è esploso nell’Africa subsahariana, in paesi che hanno bravi medici ma sono carenti sotto il profilo delle risorse sanitarie, come la Repubblica democratica del Congo. Ho timore di ciò che potrebbe succedere quando il virus arriverà. Un’altra sorpresa ancora, per forza di cose, è che fra tutti gli stati europei è l’Italia a essere stata colpita così duramente.
Sappiamo qualcosa di più, oggi, su quanto è pericolosa questa malattia per il mondo intero? No. Rimane anzi la stessa incertezza nei riguardi di: a che punto è il virus; quanto rapidamente le nazioni sapranno mettere in piedi risposte efficaci; se le chiusure, come quella della Cina a Wuhan o quella dell’Italia nelle regioni del nord, funzioneranno e, per finire, cosa potrebbe combinare il virus, ed evolvendo come”.
Il suo Spillover è giustamente citato come il testo da leggere per capire cosa sta accadendo in queste settimane. Molti hanno visto una specie di profezia nella parte del libro in cui si occupa di The Next Big One – l’epidemia prossima ventura che avrebbe colpito il mondo – immaginando un virus che avrebbe potuto “venire fuori da una foresta pluviale o da un mercato cittadino della Cina meridionale”. Stava davvero prevedendo il futuro, o era semplicemente ciò che la scienza si aspettava fin dall’inizio?
“Il mio libro essenzialmente ha predetto, in misura piuttosto precisa, ciò che stiamo vedendo: ma non sono stato preveggente, mi sono limitato a riportare in una forma composita ciò che alcuni esperti molto affidabili mi avevano preannunciato. In buona sostanza ciò che si diceva era: The Next Big One, la prossima grande pandemia, sarebbe 1) stata causata da un virus zoonotico che 2) viene da un animale selvatico, 3) verosimilmente un pipistrello, 4) probabilmente dopo essersi amplificato in un altro tipo di animale prima di passare agli esseri umani 5) poiché gli umani sono venuti forzatamente a contatto con questi animali, 6) molto probabilmente in un wet market 7) magari situato in Cina, e che 8) il nuovo virus si sarebbe rivelato particolarmente pericoloso se le persone contagiate gli avessero offerto un riparo, diffondendolo, prima di accusare alcun sintomo. Suona familiare?”.
L’aspetto più attraente di Spillover risiede forse nel mettere il lettore nei panni del virus, spiegando che le alterazioni ecologiche che gli esseri umani mettono in moto con frequenza sempre maggiore creano le condizioni perfette perché questi microorganismi proliferino. Significa che nei prossimi anni dovremo preoccuparci di sempre più epidemie come questa?
“Sì, dovremo davvero temere nuovi scoppi di epidemie virali, e sempre più crisi come questa. La cosa peggiore che può succedere con la malattia Covid-19 è che si diffonda fino a diventare una grave pandemia globale, infettando centinaia di milioni di persone e uccidendone milioni. La seconda peggior cosa che può succedere è che riusciamo a controllarla nei prossimi mesi, limitando con successo i danni e i sacrifici… e che quindi poi i politici e altri dicano okay, visto?, era un falso allarme, non è mai stato niente di che! e usino questa lettura sbagliata e compiaciuta come scusa per non arrivare preparati alla prossima epidemia.
Le ragioni per cui assisteremo ad altre crisi come questa nel futuro sono che 1) i nostri diversi ecosistemi naturali sono pieni di molte specie di animali, piante e altre creature, ognuna delle quali contiene in sé virus unici; 2) molti di questi virus, specialmente quelli presenti nei mammiferi selvatici, possono contagiare gli esseri umani; 3) stiamo invadendo e alterando questi ecosistemi con più decisione che mai, esponendoci dunque ai nuovi virus e 4) quando un virus effettua uno spillover, un salto di specie da un portatore animale non-umano agli esseri umani, e si adatta alla trasmissione uomo-uomo, beh, quel virus ha vinto la lotteria: ora ha una popolazione di 7.7 miliardi di individui che vivono in alte densità demografiche, viaggiando in lungo e in largo, attraverso cui può diffondersi. Quando un virus degli scimpanzé, per esempio, fa il salto per diventare un virus dell’uomo, ha aumentato enormemente il suo potenziale di successo evolutivo. Un esempio? Il virus che chiamiamo Hiv-1”.
Perché questi virus riescono a evolvere e adattarsi così rapidamente? C’è modo di fermarli?
“Certi gruppi di virus si adattano e cambiano molto più velocemente degli altri. I più rapidi fanno parte di un gruppo di famiglie di virus noto come virus Rna a singolo filamento. Significa che i loro genomi sono composti di un singolo filamento della molecola Rna, invece che il Dna, che è a doppio filamento. Un genoma Rna a singolo filamento commette molti più errori quando si copia mentre i virus si stanno replicando: e quegli errori, che si chiamano mutazioni, sono le materie prime dell’evoluzione per selezione naturale. Il vecchio meccanismo di Darwin. Quindi questi virus Ss-Rna, in costante mutamento e adattamento, sono più capaci di trasferirsi a nuovi ospiti, come gli esseri umani, e proliferare. E tra i più noti virus Rna a filamento singolo ci sono i coronavirus”.
Qui da noi abbiamo assistito a un dibattito acceso e prolungato circa le misure precauzionali prese dal governo per prevenire il contagio: come forse sa, il 31 gennaio l’Italia ha deciso di chiudere il traffico aereo con la Cina. In molti – anche in politica – sostengono che ciò che avremmo dovuto fare era piuttosto mettere in quarantena tutti coloro che tornavano dalla Cina. Lei crede che ciò avrebbe davvero potuto evitare tutto?
“E ora il nord del vostro paese è chiuso: una misura drastica e rischiosa che il mondo intero sta guardando con apprensione e supporto. Funzionerà? Arresterà la diffusione del virus? Io non sono un esperto di salute pubblica, non rientra nel perimetro degli scopi della mia ricerca, perciò parlerò in modo cauto e e modesto, scusandomi di non poter essere più certo. La mia ipotesi è che la chiusura di per sé, che sia utile o meno, non sarà sufficiente. È accompagnata da uno sforzo urgente che mira a tracciare i contagi e i loro contatti, isolare i casi in situazioni ospedaliere dedicate, incoraggiare la quarantena domiciliare di tutti i contatti dei casi sospetti, acquisire e produrre tutte le risorse (i kit per i test, le mascherine, altro equipaggiamento protettivo, anche conosciuto come Ppe) per proteggere gli operatori sanitari che vengono a contatto coi contagiati, e applicare queste misure di supporto anche in altre parti d’Italia? Se sì, allora forse il paese si salverà dal disastro e darà al mondo un esempio di grande valore. Io di certo lo spero”.
Ho pensato spesso, ultimamente, a una cosa che afferma in modo molto efficace e affascinante nei suoi viaggi in Spillover: queste epidemie scavano a fondo nelle nostre nozioni individuali del sé e dell’identità, in un certo senso dicendoci che siamo solo un altro ospite di questo pianeta. “L’antica verità darwiniana […] che l’umanità è davvero una specie animale”, per citare ancora il suo libro: “Le persone e i gorilla, i cavalli e i cefalofi e i maiali, le scimmie e gli scimpanzé e i pipistrelli e i virus. Siamo tutti sulla stessa barca”. Ma se lo siamo, come facciamo a scendere?
“Non possiamo uscire da questa situazione, da questo dilemma: siamo parte della natura, di una natura che esiste su questo pianeta e solo su questo. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali e ci offriamo come un ospite alternativo. Siamo troppi, 7,7 miliardi di persone, e consumiamo risorse in modo troppo affamato, a volte troppo avido, il che ci rende una specie di buco nero al centro della galassia: tutto è attirato verso di noi. Compresi i virus.
Una soluzione? Dobbiamo ridurre velocemente il grado delle nostre alterazioni dell’ambiente, e ridimensionare gradualmente la dimensione della nostra popolazione e la nostra domanda di risorse”.
Un’ultima domanda. In buona sostanza, la Covid-19 è una cosa che non conosciamo ancora (o almeno, non abbastanza). In una società sempre meno allenata ad avere a che fare con ciò che è inaspettato e sconosciuto, questo significa – tra le altre cose – che molte persone si sono riversate nei supermercati e sui mezzi di trasporto, e hanno indossato mascherine protettive, temendo per la loro salute. Come pensa che i giornali e le istituzioni dovrebbero parlargli? Come si distingue una buona comunicazione scientifica e mediatica durante un’epidemia?
“Le istituzioni e i governi dovrebbero fidarsi dei loro scienziati – specialmente dei loro migliori epidemiologi – e dei loro esperti di sanità pubblica di lungo corso, in modo da parlare onestamente alle persone. Non devono mettere il bavaglio, zittire o riformulare ciò che dicono quegli esperti per timori che riguardano l’andamento del mercato azionario o le loro possibilità di essere rieletti. Questo è stato il grande problema nel mio paese, gli Stati Uniti, nelle ultime sei settimane. Abbiamo meravigliosi scienziati e dei funzionari della sanità pubblica molto saggi e misurati – il dott. Anthony Fauci, per fare un nome prestigioso – e loro sono le voci che il pubblico dovrebbe poter ascoltare. E sono certo che sia così anche in Italia.
E poi, ovviamente, c’è un ruolo importante per i giornalisti prudenti e gli scrittori – gente come te e me, Davide – che ascoltano la voce degli scienziati, leggono ciò che pubblicano sulle riviste scientifiche e traducono quelle materie complesse in un linguaggio chiaro e ordinario per il grande pubblico. Abbiamo l’enorme responsabilità di evitare sensazionalismi, esagerazioni o romanzamenti col semplice intento di vendere più libri o giornali, e l’obbligo di presentare le nostre storie come costruite a partire da fatti solidi e verificabili.
Per finire, auguro a voi e ai vostri lettori saggezza, coraggio e buona fortuna. Amo l’Italia e voglio tornarci il prima possibile: quando lo farò, non vedo l’ora di vedere come avrete superato – o starete superando – questa tempesta”.