La gestione dell’emergenza Covid sta generando costi sociali ed economici elevatissimi: la storia insegna che il “ritorno alla normalità” corrisponderà a un allargamento della forbice sociale, cresceranno le disuguaglianze e molti si troveranno a fare i conti con l’assenza di un reddito, la difficoltà a pagare un affitto, l’impossibilità di accedere a servizi di supporto per le più disparate esigenze.
Contemporaneamente questa quarantena e l’ossessione del “distanziamento sociale” hanno determinato un clima psicologico in cui la paura dell’altro (chiunque esso sia) trova terreno fertile nel modo di pensare delle persone: si vive nella paranoia, chiusi in casa con lo sguardo spesso fisso ai social o ai tg, o a caccia di facili “untori” dai balconi. Le nostre città desertificate diventano campo di sperimentazione di dispositivi di controllo mai visti, per la gioia dei nostri governanti locali che, prima, invitavano a suon di slogan a consumare, a non disertare gli aperitivi, a non “arrestarci”, e che, subito dopo, hanno sposato la logica iper-securitaria del contenimento totale, criminalizzando gli stessi comportamenti che prima incitavano, scaricando tutto il peso del contagio sulle scelte individuali, reticenti, invece, su questioni sistemiche a loro diretta responsabilità, come la chiusura delle fabbriche, le condizioni di vita in carcere, o la tutela degli operatori sanitari, degli anziani ricoverati nelle RSA e di tutti i lavoratori su cui pesano i rischi della pandemia.
Una società già profondamente malata di solitudine, di isolamento, di assenza di contatto, rischia di intraprendere la strada del non ritorno verso l’annientamento delle relazioni sociali e di disabituarsi alla fiducia nell’esercizio critico della libertà individuale come maniera di tutelare sé e gli altri.
Benché ci siano voci da più campi a suggerire che una tale situazione si può senz’altro considerare “positiva”, perché le nuove tecnologie digitali ci consentiranno di comunicare felicemente a distanza, di produrre e studiare, ancora più felicemente, alienando tutto il nostro tempo agli schermi del tele-lavoro e della tele-didattica, noi non crediamo che una comunità fondata sul “distanziamento sociale” sia umanamente e politicamente vivibile. Che “cura” potrà mai essere, una che allo stesso tempo ci costringe a rinunciare alle nostre vite, ai rapporti sociali, all’amicizia, all’amore, all’attività politica, al rispetto dei nostri morti? Non si è forse oltrepassato il limite nel nome della mera sopravvivenza?
In questo scenario occorre quindi tornare presto a essere parte attiva della vita della nostra città, affermando principi di solidarietà e giustizia sociale, creando percorsi di resistenza e difesa dei più deboli.
Occorre sconfiggere ansie e paure, ricostruire spazi e tempi di vita condivisi in cui la tutela della salute della comunità, il rispetto reciproco e la libertà individuale possano procedere insieme. Impariamo a coltivare quella libertà che si realizza nel fare qualcosa con gli altri, in modo responsabile, senza il bisogno di un’autorità che ci controlli o che ci dica cosa fare.
Ricordiamoci che la casa non è sempre un “rifugio”, per lo meno non per tutti, e che l’ospedale non deve essere un’azienda.
Scardiniamo la retorica superficiale e classista della “guerra” in cui “siamo tutti uguali” davanti al virus da sconfiggere, e quella per cui “andrà tutto bene”.
Ribadiamo che nessuno vuole un ritorno a una normalità tossica e nociva, che è tra le prime cause dell’emergenza che stiamo affrontando, nel suo legame con la catastrofe ambientale.
Guardiamo insieme oltre l’emergenza, andando alla radice delle cose, sperimentando pratiche condivise di mutualismo, sostenibilità, autorganizzazione.
ANDRÀ TUTTO BENE?
FONTE: Foa Boccaccio
Aprile 2020