Riflessioni di Benigno Moi su balconi, canzoni e nemici.
Niente paura, non mi sto aggiungendo ai troppi esperti improvvisati che si sentono di dover dire la loro sul corona virus: su quale profilassi e attenzioni avere per limitare il diffondersi dell’epidemia ma addirittura sulle origini dello stesso, o dei virus in generale… se vengano dalla stratosfera (e siano quindi loro i veri extraterrestri) o se si stiano liberando da un’ibernazione ultramillenaria a causa dello scioglimento dei ghiacciai.
Le mie sono semplicissime riflessioni sul nostro atteggiamento a fronte dell’epidemia e delle inevitabili costrizioni che stiamo vivendo.
Nello specificio sul cantare l’Inno di Mameli tutti assieme dai balconi, come successo nei giorni scorsi.
Chiarisco subito che non mi interessa disquisire dei significati dell’inno italiano (formalmente lo è solo da tre anni) o di altri inni nazionali; sull’uso che ne hanno sempre fatto le destre in Italia; e neppure quale significato ha per noi sardi o altre minoranze.
E chiarisco ancora che capisco – la sento mia – sia la voglia di momenti di elaborazione/reazione alle paure e alle angosce di questi giorni, sia la voglia di creare momenti di condivisione e/o riconoscimento comunitario e collettivo.
Ma che c’entra l’Inno di Mameli?
Gli inni nazionali, e quello italiano lo esplicita ripetutamente nel testo, sono “identitari contro”; individuano un nemico “altro” dalla “nostra” comunità. E, oggi più che mai, questo “altro” non può certo essere il “non italiano”.
Non solo perché il virus – al contrario di noi presuntuosi umani – non riconosce confini, o muri o fossati, o mari o fiumi o montagne che noi rendiamo ostacolo e barriera. Ma proprio perché solo riconoscendoci comunità planetaria (e non solo “umana” fra l’altro) sappiamo di poterci salvare. Oggi e domani.
«Siamo onde dello stesso mare, foglie dello stesso albero, fiori dello stesso giardino» sta scritto (fra gli altri luoghi) su una pietra tombale del Castelletto del Parco Sigurtà, a Valeggio sul Mincio vicino a Verona. La frase, attribuita o ispirata a Seneca, conosciuta come “Messaggio della fratellanza”, sta girando molto questi giorni e sintetizza a modo suo, come altre più o meno famose, la consapevolezza che siamo un tutt’uno. Se ne esce tutti assieme oppure no. O cambiamo davvero approccio con l’altro – essere umano o essere vivente di questo pianeta (e forse non solo) – oppure tutto rimarrà molto fragile e a rischio.
Quindi, mi ripeto, che ci azzecca l’Inno di Mameli? Che oltre tutto dice anche che «siam pronti alla morte» solo perché chiama l’Italia!
Non è creandoci nemici immaginari che si fa comunità; non è sentendoci “cittadini” accomunati solamente dal fatto che siamo nati in un certo posto che creiamo spirito collettivo e solidale.
«In questo Paese, non è per mio volere che son nato / è stato per gioco che il caso in questa terra mi ha portato» cantava 50 anni fa il grande Antonio Virgilio Savona (del Quartetto Cetra) in «è lunga la strada».
Ancora: «La patria sarà quando tutti saremo stranieri» scrive Francesco Nappo, il poeta amico di Agamben, in un distico ripreso come slogan anti confini in Italia e Francia.
Allora sarebbe più consono, a parer mio, cantare «Gli stornelli d’esilio» di Pietro Gori (“nostra patria è il mondo intero”) o la canzone di Virgilio Savona di cui prima, e chissà quante altre e in quante lingue. Di certo “Azzurro” di Paolo Conte” è molto meglio dell’Inno di Mameli.
Chiudo con Giorgio Caproni (da «Il muro della terra», 1975)
Confine diceva il cartello
cercai la dogana, non c’era
non vidi dietro il cancello
ombra di terra straniera.
https://cantosirene.blogspot.com/2010/07/caproni-e-il-confine.html?m=1
PRIME CANZONI SUGGERITE…
«è lunga la strada» https://www.youtube.com/watch?v=fESdx8zvo1k
«Gli stornelli d’esilio» https://www.ildeposito.org/canti/stornelli-desilio