Uno dei tanti riflessi automatici che ha guidato l’azione della scuola in queste settimane di emergenza è l’efficientismo. #lascuolanonsiferma è stato da subito l’hashtag lanciato dalla ministra Azzolina, che ha assicurato che l’anno sarà valido e regolare in quasi tutti i suoi dispositivi ed effetti sembra inverosimile che si riuscirà a valutare come se nulla fosse è uno degli aspetti più problematici che la scuola ha di fronte in queste settimane, dopo che per decenni ha costruito la propria azione sul pilastro ideologico della quantificazione ossessiva delle competenze.
Una delle preoccupazioni che si percepiscono più chiaramente in questi tempi di didattica a distanza rivela esattamente il vicolo cieco ideologico in cui la scuola si è infilata: molt* docenti sono preoccupatissim* perché, a loro dire, i ragazzi non verrebbero agganciati nel caso non ci fosse la valutazione, così come guardano con timore all’inefficacia degli strumenti disciplinari.
Molt* sono disorientati dal fatto che non si riesca a capire “se gli studenti / le studentesse non ci sono perché non hanno una buona connessione o se mi prendono in giro”: non si può controllare i compiti, né tanto meno prendere provvedimenti disciplinari a riguardo. Al netto del fatto che il problema dell’accessibilità non si riduce allo sbeffeggio del professorequi), queste considerazioni, che potevano passare inosservate in un consiglio di classe di solo qualche mese fa, nascondono in nuce l’adattamento del corpo docenti a un’idea di scuola chiara e tonda: gli sforzi sono finalizzati alla quantificazione “meritocratica”, i ragazzi lo sanno e lavorano esclusivamente in ragione di tale ricatto. Nulla di nuovo: l’idea di un umano che non si mobilita finché non è sotto scacco. Per certi versi, funziona, è un modello semplice e adempitivo: fai ciò che devi fare e avrai ottimi risultati… Ma ci sembra presupporre un’idea del rapporto educativo e didattico del tutto inadeguata al presente. (ne abbiamo parlato
In questa situazione confusa e caratterizzata dall’incertezza, ci sembra tuttavia che si aprano degli spazi potenziali di riflessione sull’idea di scuola che sostiene il nostro lavoro, con tutti i suoi strumenti: didattica, relazione con gli studenti, con gli altri insegnanti ecc… La situazione è dunque paradossale: proprio il momento in cui sono preclusi gli atti di vicinanza fisica, della presenza corporea, è anche quello in cui probabilmente è possibile (ma forse lo stato delle cose lo caratterizza come necessario) ripensare a un nuovo modo di fare scuola. Paradossalmente, proprio quando uno schermo separa le nostre vite, è la relazione educativa, costruita in precedenza e che si negozia di volta in volta, ad agire al netto di ogni minaccia di coercizione. Chi ha costruito la relazione con gli/le student* sulla base di un uso dispotico degli strumenti valutativi e disciplinari non ha molta speranza di cavarsela in questa situazione: il ricatto del voto non potrà durare a lungo, visto che molt* ragazz* cominciano a domandare: “ma i voti, prof.? Quando faremo i recuperi?”. E possiamo anche dire: meglio così, era ora!.
Sembra questa una delle poche opportunità che offre il doloroso momento che stiamo vivendo. Se, come ci pare auspicabile – forse probabile – bisognerà riconoscere l’impossibilità di valutare, allora gli strumenti di quantificazione del sapere al centro delle riforme scolastiche degli ultimi anni sarebbero per la prima volta inattivi.
Nella scuola contemporanea (quella pre-COVID19) la valutazione, unita al sistema dei crediti a partire dalla scuola secondaria, non è concepita come un indice dell’apprendimento né come un dato che permetta di avere un riscontro rispetto al proprio lavoro e a quello degli studenti. Per fare ciò non servirebbe contrassegnare tutto attraverso un numero: la quantificazione è funzionale esclusivamente a perpetuare un sistema scolastico che abitui gli/le studenti/esse a misurarsi con il cosiddetto “merito” e con le “capacità personali”, entrambi fattori concepiti all’interno della sfera individuale.
Questa ci sembra una posizione ideologica la cui eco risuona in molti ambiti della vita contemporanea, e la mistificazione è sempre la stessa: concepire l’individuo e le sue risposte come provenienti da una specie di essenza personale, giudicare moralisticamente rigidamente i comportamenti, slegare la persona dalla sua provenienza familiare, sociale, economica, culturale e, infine, non riconoscere e nemmeno problematizzare il perché la scuola (ahinoi anche quella pubblica, in quanto organo di riproduzione ideologica e sociale) tende a intuire da subito (nei primi giorni della relazione scolastica di una persona, dalla sua provenienza, dal suo atteggiamento di fronte alle istituzioni ecc…) ciò che verrà poi certificato con i voti. Tale situazione appare abbastanza chiaramente a chi abbia insegnato alle scuole medie: è proprio in quel passaggio che si stabilisce chi andrà al liceo, chi al tecnico, chi al professionale (e chi è semi-perduto).
In tale contesto la valutazione è per lo più uno strumento ideologico e giuridico che consente alla scuola di legittimarsi in questo ruolo. Ma allora la scuola, in primis nel suo strumento valutativo e (conseguentemente) di orientamento scolastico, non fa che riprodurre la situazione sociale già esistente. Altro che ascensore sociale: se continueremo a mettere al centro dell’azione scolastica la valutazione individuale, la certificazione delle competenze, la scuola coinciderà – con uno scarto che dipende molto dal modo in cui ciascun istituto gestisce il proprio potere – con la metafora più diffusa tra gli studenti per rappresentarla: una gabbia, che certifica e dunque cristallizza i rapporti sociali del territorio che la circonda.
Ma allora, durante questi giorni in cui tali strumenti mostrano giganteschi problemi di legittimazione, non potremmo portare quantomeno la voce del dubbio, anche nelle sedi collegiali? Proprio il tema della valutazione potrebbe essere di straordinaria attualità e, per come la conoscevamo, è un’arma spuntata: perché non provare a pensare alla valutazione come strumento di riscontro di un percorso educativo?
Per esempio, si potrebbe proporre l’idea di valutare non una singola performance (una sola verifica o un’interrogazione), ma un processo didattico, un rapporto complesso di medio periodo tra insegnant* e student*; il voto in numero, quanto piuttosto un commento al lavoro svolto, una segnalazione di cosa certamente va, cosa certamente non va e cosa si può discutere;
Ci pare che la situazione sia tale per cui molt* docenti sono ora dispost* a prendere in mano criticamente e discutere anche questo nodo fondamentale della scuola. Rimettiamo al centro il dibattito sulla didattica, sulle metodologie, e facciamolo impedendo che venga imposto dall’alto, per decreti!