Il coronavirus non sembra volersi arrestare: con oltre 9.000 vittime nel modo e oltre 230.000 contagiati, la pandemia iniziata in Cina ha toccato ben 159 Paesi. In un tentativo disperato e a tratti confusionario di frenare la catastrofe, sempre più nazioni, inclusa l’Italia, stanno approvando decreti emergenziali volti a ridurre al più possibile i contatti sociali dei loro cittadini.
Il risultato è che, al momento, mezzo miliardo e oltre di persone, in tutto l’Occidente, si trovano private delle più basilari libertà individuali, inclusa quella di fare una passeggiata o di poter fare la spesa senza mascherina e guanti. Se la speranza, per molti, è quella di un rapido ritorno alla routine, diversi analisti dipingono un quadro molto più inquietante.
Basta leggere, su tutti, lo storico report di un team di 30 scienziati dell’Imperial College di Londra, pubblicato lunedì. I ricercatori, guidati dal professor Neil Ferguson (in questi giorni in autoquarantena per febbre) spiegano senza mezzi termini che la guerra al Covid-19 durerà nel migliore dei casi il tempo di trovare un vaccino e sperimentarlo, mentre qualunque rilassamento delle restrizioni finirebbe per far rialzare la curva dei contagi.
Vale a dire un anno e mezzo e forse più: periodo entro il quale le nostre abitudini saranno stravolte in ogni campo, dall’educazione alla vita sentimentale, dalla possibilità di fare carriera a quella di vedere i propri cari. Con costi umani, economici e psicologici mai studiati prima.
Pochi giri di parole: nelle ultime tre settimane la vita ci è stata sconvolta per davvero, ed è inutile darsi una scadenza temporale per il ritorno alla normalità; di sicuro, non sarà il 3 aprile (data inizialmente indicata come termine della quarantena italiana). “La spiazzante velocità con cui sono cambiate le nostre vite compromette la nostra capacità di accettare che l’uscita da questa crisi non sarà rapida quanto è stato il suo ingresso”, ha scritto il giornalista Francesco Costa. “Uno scenario che soltanto un mese fa avremmo considerato lunare – le code ai supermercati, la polizia per le strade a controllare chi esce di casa, le scuole chiuse, le rivolte e i morti nelle carceri, i treni che non partono, l’impossibilità di vedere i propri cari – oggi è la nostra vita quotidiana”.
Economia del “confinamento”
Quando l’Italia e il mondo “riapriranno”, ci metteranno un bel po’ per tornare dove erano prima. E non è detto che ci riescano del tutto. Questa è anche l’opinione del direttore di Technology Review, magazine della prestigiosa università Massachusetts Institute of Technology, Gordon Lichfield. L’incipit del suo articolo, che è girato molto in Rete in questi giorni, recita: “Per fermare il coronavirus dovremo cambiare radicalmente quasi tutto quello che facciamo: come lavoriamo, facciamo esercizio fisico, socializziamo, facciamo shopping, gestiamo la nostra salute, educhiamo i nostri figli, ci prendiamo cura dei nostri familiari“.
Il direttore ha poi proseguito parlando di uno scenario drammatico relativo all’epidemia: “La maggior parte di noi probabilmente non ha ancora capito, e lo farà presto, che le cose non torneranno alla normalità dopo qualche settimana, o addirittura dopo qualche mese. Alcune cose non torneranno mai più“. Secondo Lichfeld non c’è scampo: ogni Paese dovrebbe fare proprio come l’Italia se vuole “appiattire” la curva dei contagi e scongiurare il sovraccarico dei reparti di terapia intensiva. Ma questa strategia ad alto impatto comporterà un mutamento sostanziale delle nostre abitudini: non soltanto per tutta la durata dell’attuale “guerra” in corso, ma anche per tenerci pronti nell’evenienza di future pandemie.
Secondo Linfield non ha senso dunque illuderci che lo stop a cui siamo sottoposti sia di breve termine. Di sicuro ciò che ci sta capiterà nei prossimi 18 mesi non ha precedenti nell’ultimo secolo, e ci muoveremo in terra incognita. Qualunque programma importante abbiamo nel cassetto in questo lasso di tempo (matrimonio, figli, viaggi, cambio di lavoro, etc.) dovrà tenerne conto. Persino le scuole potrebbero restare chiuse, in mezzo Occidente, con effetti sui bambini mai osservati prima. L’Unione europea e altre istituzioni sovranazionali dovranno cambiare radicalmente per non perire. Ma, anche se non si sa esattamente quando, la parte più cruda del conflitto finirà.
Dobbiamo, tuttavia, metterci nell’ottica di un nuovo stile di vita e nuovi modi di consumo che coinvolgeranno innumerevoli settori: probabilmente ci dovremo abituare nei prossimi anni a diffidare di metro e bar troppo affollati, delle discoteche e degli hotel non standardizzati. Le palestre potrebbero convincersi a puntare di più su corsi online. L’e-commerce – unico medium attualmente disponibile per acquistare ciò che non si trova nel nostro circondario – potrebbe subire uno sviluppo radicale. I cinema, le sale da thé, i centri commerciali potrebbero installare a tempo indeterminato poltrone distanziate almeno un metro l’una dall’altra, panchine dove ci si può sedere soltanto uno alla volta e così via.
Per rendere chiaro il concetto, Linfield fa riferimento all’emergere di una “economia rinchiusa”, di un’economia “del confinamento”, vale a dire legata a tutto ciò che è on demand, ordinabile da casa, chiesto e usufruito online. Già in ascesa prima del coronavirus, questa shut-in economy sarà avvantaggiata dall’inevitabile cambiamento dei nostri modi di abitare le città, dall’onda lunghissima del panico post-corona, ed è destinata a restare.
Secondo il celebre matematico Nassim Taleb e il fisico di sistemi complessi Yaneer Bar-Yam, lo studio dell’Imperial College presenta alcune importanti lacune, tra cui la sottovalutazione del ruolo centrale svolto dai tamponi durante una quarantena per monitorare i contagiati. Solo così, spiega la recensione critica del New England Complex Institute – mantenendo in piedi il lockdown per tutta la durata della crisi e al tempo stesso isolando i positivi – si potranno evitare nuove infezioni. Questa riflessione, tuttavia, non esclude il problema di fondo sottolineato in Technology Review: la necessità di adattare le nostre democrazie e i nostri comportamenti a un “distanziamento sociale” perenne, o quasi, tale da farci sembrare il mondo che c’era prima un vago ricordo.
Un esempio di come la tecnologia potrebbe venire incontro allo Stato-controllore ci giunge da Hong Kong, dove i movimenti delle persone in quarantena vengono monitorati con braccialetti intelligenti. Una proposta simile arriva da Israele, dove una capillare rete di sorveglianza tramite Gps potrebbe tracciare i cellulari dei potenziali infetti. Anche la più mite “strategia asiatica” di test e tracciamento continuo, già messa in atto dalla Corea del Sud, da Hong Kong e Singapore – escludiamo la Cina per via della sua natura autoritaria – potrebbe rappresentare la fase successiva dello spietato lockdown messo in atto in Italia, ma comporta forme avanzatissime di controllo sociale mediato dalla tecnologia, e una grande collaborazione da parte dei cittadini.
Autarchia e algoritmi
Si potrà vivere in una realtà simile? Secondo Lichfield, il futuro potrà essere sostenibile solo se insieme al controllo sociale avanzeranno anche i sistemi sanitari, costituendo unità di risposta specifica alle pandemie, piani d’azione coordinati e capaci di muoversi ben prima che le epidemie si aggravino. Andrebbe inoltre sviluppata la capacità dei singoli Paesi di produrre da sé attrezzature mediche, kit di tamponi e farmaci senza dipendere da complesse catene di approvigionamento e dai capricci del mercato.
Com’è facile immaginare, il costo maggiore di questa rimodulazione della società in senso “spartano” sarà a carico delle fasce più povere e deboli: anziani e immunodepressi che dovranno essere collocati altrove durante le crisi, oppure i poveri che avranno più alte probabilità di venire infettati, perché costretti a lavorare in ogni caso o a vivere in case troppo affollate. Per questo motivo non è da escludere, secondo il direttore di Technology Review, il ricorso da parte del governo ad algoritmi complessi che riescano a identificare i soggetti più vulnerabili; con il rischio, purtroppo, di involontarie discriminazioni. Anche uno stato di guerra deve garantire che i dati dei cittadini vengano raccolti esclusivamente per fini di salute pubblica, e che le eventuali misure di localizzazione siano interrotte al termine della crisi.
Anche perché, come scrive Branko Milanovic su Foreign Affairs, il costo umano della pandemia “potrebbe portare alla disintegrazione sociale. Coloro che resteranno senza speranza, senza lavoro e senza asset potrebbero facilmente prendersela con chi sta meglio. Già oggi, circa il 30 per cento degli americani ha ricchezza pari a zero o negativa (cioè in debito)”.
In conclusione, il direttore di Technology Review si augura che questa crisi possa costringere finalmente i Paesi occidentali, e in particolare gli Stati Uniti, a mettere mano alle ingiustizie che rendono un’ampia parte della loro popolazione particolarmente esposta a catastrofi come quella del Covid-19. Una considerazione che si inserisce nel dibattito già in corso sul ritorno dello Stato interventista, e di politiche di stampo keynesiano o addirittura socialista che molti pensavano dimenticate nella soffitta della Storia.
Insomma, se il costo in termini di vite umane di una strategia di mitigazione come quella sognata da Johnson è inaccettabile, una strategia di soppressione “pura”, sul modello italiano è insostenibile sul lungo periodo. La combinazione migliore, in un futuro si spera più lontano possibile, in caso di nuove colossali emergenze come quella attuale, probabilmente verrà da un mix di strategie: temporanee e localizzate chiusure delle attività, isolamento degli anziani e dei soggetti a rischio, e infine tamponi a tappeto. Realisticamente, l’aumento della domanda di sorveglianza sarà proporzionale all’aumentare del rischio, e del bilancio delle vittime. Ma tutto questo non potrebbe funzionare senza una trasformazione radicale del nostro modo di stare assieme e di vivere la società.
Significherà dunque abitare un mondo più algido, sospettoso e conformista? È presto per dirlo. Tuttavia, proprio perché le tentazioni autoritarie si rafforzeranno, unite a un basso livello di fiducia nella democrazia parlamentare, la sfida futura sarà definire regole e sistemi di controllo che bilancino protezione delle vite umane e rispetto per la loro dignità. Questa è la sfida che dovremo affrontare tutti noi, nel frattempo che proviamo ad adattarci al mondo nuovo.