Il 22 marzo scorso, nella mia postilla alla testimonianza di Pietro De vivo pubblicata qui su Giap scrivevo:
«per essere per lo meno conformi alla costituzione, [i divieti introdotti con decreto del presidente del consiglio dei ministri dall’inizio dell’epidemia] dovrebbero essere profondamente ripensati. Ciò che il governo, arrivato a questo punto, non può permettersi di fare: non può permettersi di ripensare alcunché, ma non può nemmeno permettersi di trasferire l’esistente in una legge. Sarebbe come ammettere di aver del tutto sbagliato a gestire l’epidemia, dopo oltre un mese dal suo inizio. Sarebbe come dire d’aver scelto strumenti inidonei.»
All’apparenza, il riassetto delle misure di contenimento operato con il decreto legge (d.l.) 25 marzo 2020 n. 19 sembrerebbe smentire la mia previsione. Io invece credo che in larghissima parte la confermi, pur con le precisazioni che farò subito.
1. Un’unica pezza sui buchi del caos normativo
È vero che il d.l. contiene un elenco delle misure che possono essere adottate nel corso dell’emergenza sanitaria, dichiarata per un periodo di sei mesi con una delibera del consiglio dei ministri del 31 gennaio scorso. Quest’elenco è tassativo, lo si legge all’art. 1, comma 2 del decreto, e comprende 29 voci (lettere da a) ad hh).
Il precedente d.l. 23 febbraio 2020 n. 6, abrogato quasi per intero dal d.l. n. 19/2020, conteneva invece un elenco solo esemplificativo di restrizioni (art. 1, comma 2), e dava alle autorità competenti il potere di adottarne di altre, anche non previste nell’elenco, se ritenute necessarie a contrastare il contagio (artt. 1 e 2).
Ciò in pratica ha significato conferire soprattutto a governo e regioni una libertà illimitata di provvedere. Libertà che come sappiamo si è concretata in una produzione a getto continuo di decreti del presidente del consiglio dei ministri (dpcm), ordinanze ministeriali, decreti dei presidenti di regione e pure ordinanze contingibili e urgenti dei sindaci di moltissimi comuni, che hanno generato un quasi inestricabile caos normativo: non solo con buona pace della certezza del diritto, ma anche con l’effetto di aumentare la confusione tra la popolazione. E in tempo d’emergenza, l’aumento della confusione equivale all’aumento della paura.
Ora, detto che gli elenchi di misure contenuti nei due d.l. sono tecnicamente diversi, esemplificativo quello del d.l. n. 6/2020, tassativo quello del d.l. n. 19/2020, quest’ultimo menziona tutte le restrizioni e i divieti adottati finora, dando la possibilità di adottarli nuovamente per il futuro, ossia fino al termine dell’emergenza fissato per il 31 luglio 2020, e facendo oltretutto salvi gli effetti delle ordinanze e dei decreti emanati nel frattempo (art. 2, comma 3).
Il governo ha in sostanza voluto mettere al riparo la decretazione emergenziale dell’ultimo mese dalle pronunce d’incostituzionalità a cui sarebbe con ogni probabilità andata incontro.
Per farlo, ha dovuto limitare con un d.l., cioè un atto avente forza di legge, il numero e il tipo delle misure di contenimento disponibili. Tra esse ci sono tutte quelle a cui hanno fatto ricorso governo e regioni. L’elenco dell’art. 1, comma 2, d.l. N. 19/2020 è insomma una giustificazione a posteriori del già esistente. Non solo: il d.l. Conferma che gli strumenti giuridici principali per la gestione dell’emergenza rimangono, esattamente come prima, i DPCM (art. 2, comma 1). E, nelle more di quelli, le ordinanze del ministero della salute (art. 2, comma 2) oltre alla produzione normativa regionale (art. 3). Il D.l. n. 19/2020, quindi, ribadisce le scelte di politica legislativa fatte finora, solo sforzandosi – e probabilmente non riuscendoci del tutto – di riportarle nell’alveo della legalità costituzionale.
2. La cosiddetta «depenalizzazione»
La novità più importante introdotta dal decreto del 25 marzo riguarda però, e ancora una volta, il sistema sanzionatorio.
Come si sa, il decreto ha stabilito una sanzione amministrativa pecuniaria da 400 a 3000 euro per la trasgressione alle misure: sanzione elevata fino a un terzo, dunque fino a un massimo di 4000 euro, se la trasgressione è commessa con l’uso di un veicolo (art. 4, comma 1). Per la violazione di alcune misure è prevista la sanzione accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni (art. 4, comma 2).
Un reato, precisamente una contravvenzione punita con la pena congiunta dell’arresto da 3 a 18 mesi e della multa da 500 a 5000 euro, è stato inoltre introdotto per il caso in cui una persona positiva al virus non rispetti l’obbligo della quarantena (art. 4, commi 6 e 7).
Per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 19/2020, sono abrogate le sanzioni penali (il riferimento, come vedremo, è all’art. 3, comma 4, del d.l. n. 6/2020) e al loro posto si applica retroattivamente quella amministrativa nella somma fissa di 200 euro (art. 4, comma 8). Questi i tratti essenziali del quadro sanzionatorio così come lo ha riconfigurato il decreto del 25 marzo.
Prevedere, come fa questo d.l., un elenco di quasi trenta misure che governo e regioni possono assumere, e assoggettarle tutte – tranne la violazione della quarantena obbligatoria – a un’unica sanzione amministrativa che può essere irrogata entro un range di 2600 euro (esclusi gli aggravamenti), dettando pochissimi criteri per la sua commisurazione in concreto, è un esempio notevole di sciatteria legislativa. E poco importa che la prassi di scrivere leggi in questo modo sia frequente. Resta sciatta, e dà spazio a una discrezionalità che può concretizzarsi in trattamenti diversi di situazioni simili, a seconda di chi irroga la sanzione. In questo senso, la realtà delle prime due settimane di lockdown è scoraggiante, a dir poco.
Com’è evidente, a questa impropriamente detta «depenalizzazione» corrisponde un inasprimento delle sanzioni per la trasgressione ai divieti. È una scelta che difficilmente può essere sottoposta a un sindacato di legalità, ossia a un giudizio di conformità ai principi dell’ordinamento, in primis quello d’uguaglianza: la corte costituzionale direbbe che questo tipo di scelte rientrano nella discrezionalità politica del legislatore. Se una critica di legalità è molto probabilmente fuori discussione, almeno una critica in punto di giustizia rimane aperta: è giusto inasprire un trattamento sanzionatorio, quando il tasso di violazioni è stato costantemente basso (sotto il 5% dei controlli effettuati), e non ci si è preoccupati di dimostrarne in alcun modo l’effettiva correlazione con il decorso del contagio?
E c’è un altro fatto, di una sconcertante banalità, ma che al tempo dell’emergenza bisogna persino ricordare, visto l’automatismo contestazione = responsabilità che domina il discorso pubblico. La fondatezza dell’addebito di un illecito, penale o amministrativo che sia, si può sempre contestare nel merito. Il diritto di difesa continua a esistere, nonostante la topica colpevolizzante sfruttata a media unificati. Bisognerà parlarne, nelle prossime settimane.
Proviamo ad analizzare nel dettaglio il decreto del 25 marzo, partendo dal punto su cui più ho insistito nelle settimane scorse.
3. “Salvare” denunce che non stavano in piedi
Delle oltre centomila denunce per le violazioni dei dpcm di cui ha dato notizia il ministero dell’interno, la stragrande maggioranza contestava la violazione dell’art. 650 del codice penale. Un reato che non poteva configurarsi per i motivi ben noti, e che altri ha spiegato molto meglio di me. La disposizione su cui si basavano le contestazioni era quella dell’art. 3, comma 4, del d.l. n. 6(2020: «Salvo che il fatto non costituisca piu’ grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto e’ punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale.»
Questa disposizione è stata abrogata dal d.l. n. 19/2020: possiamo perciò evitare di occuparci dei problemi di legalità che poneva. Il legislatore, però, non si è limitato all’abolizione. All’art. 4, comma 8, del d.l.: n. 19/2020 ha previsto che ai fatti incriminati dalla norma ora abrogata, e commessi prima dell’abrogazione (cioè prima dell’entrata in vigore dello stesso d.l. n. 19/2020), si applica retroattivamente la sanzione amministrativa pecuniaria di 200 euro: vale a dire, la sanzione amministrativa prevista in via generale dall’art. 4, comma 1, del decreto, ridotta della metà rispetto al minimo edittale (400 euro).
Detta come va detta, qui il legislatore ha cercato di salvarsi la faccia, ed è quasi certo che non ce l’abbia fatta. C’erano centomila denunce accumulatesi in 15 giorni, che oltre ad essere di assai dubbio fondamento avrebbero certamente finito con l’ingolfare il sistema giudiziario. Per non trovarsi con una massa di procedimenti archiviati senza ulteriori conseguenze, e per non dover affrontare un giudizio di costituzionalità dell’art. 3, comma 4, d.l. n. 6/2020, il governo ha eliminato la norma dall’ordinamento, e al suo posto ha escogitato questa sanzione amministrativa pecuniaria retroattiva.
4. Le nuove sanzioni e il principio di uguaglianza di fronte alla legge
Come ha già osservato su Sistema Penale Gian Luigi Gatta, al cui articolo rimando per una disamina più tecnica di quella che qui sto facendo,
«la disciplina dell’art. 4, co. 8 d.l. n. 19/2020 è compatibile con il principio di irretroattività di cui all’art. 25, co. 2 Cost. se e nella misura in cui non comporti una punizione dell’agente più severa di quella al quale lo stesso avrebbe potuto andare incontro sulla base della legge vigente al tempo del fatto, e che era da lui prevedibile e calcolabile in quel momento.»
Dato che l’art. 3, comma 4, d.l. n. 6 2020 rimandava alle sanzioni previste dall’art. 650 c.p., cioè arresto fino a 3 mesi o ammenda fino a 206 euro, e dato che la nuova sanzione amministrativa pecuniaria si applica ai fatti pregressi nella misura di 200 euro, la regola sembrerebbe rispettata.
Sennonché, osserva ancora Gatta, una sanzione in misura fissa comminata indiscriminatamente a violazioni di divieti diversi – tutti quelli che si richiamavano al d.l. n. 6/2020: spostamenti ingiustificati, divieto d’assembramento e così via – non sembra compatibile con il principio costituzionale d’eguaglianza, che impone di trattare situazioni eguali in modo eguale, e situazioni diverse in modo diverso. Insomma, ancora una volta ci troviamo di fronte a una norma sanzionatoria sospettabile d’incostituzionalità.
A me pare dubbio che sia compatibile con il principio d’eguaglianza anche l’aumento della sanzione amministrativa fino a un terzo, di cui al comma 1 dello stesso art. 4, per il caso che la violazione di una misura sia commessa con l’uso di un veicolo. La ratio dell’aggravio sanzionatorio dovrebbe essere questa: che l’uso di un veicolo permette di percorrere lunghe distanze, e quindi di propagare la potenzialità del contagio ad aree più vaste di quelle che potrebbe coprire qualcuno che si sposta a piedi. Ma non è affatto detto che chi usa un veicolo compia lunghi spostamenti. Eppure la disposizione, indiscriminatamente, punisce in modo più grave chi dovesse violare una qualunque delle misure di contenimento a bordo di un veicolo. Anche in questo caso la mia impressione è quindi che siano irragionevolmente trattate in modo uguale situazioni diverse.
5. Violazione della quarantena e «reato d’epidemia»
Leggiamo ora, sempre dell’art. 4, i commi 6 e 7:
«6. Salvo che il fatto costituisca violazione dell’articolo 452 del codice penale o comunque piu’ grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 2, lettera e), e’ punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, Testo unico delle leggi sanitarie, come modificato dal comma 7.
7. Al comma 1 dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, Testo unico delle leggi sanitarie, le parole «con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da lire 40.000 a lire 800.000» sono sostituite dalle seguenti: «con l’arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5.000.»
Come anticipavamo, si tratta del reato che punisce, con l’arresto da 6 a 18 mesi congiunto all’ammenda da 500 a 5000 euro, chi viola la quarantena obbligatoria per le persone positive al virus.
Il comma 6 si apre con quella che tecnicamente viene chiamata clausola di salvezza: la contravvenzione di cui stiamo parlando si configura solo se la condotta non «costituisca violazione dell’articolo 452 del codice penale o comunque piu’ grave reato.» L’art. 4, comma 6, richiama dunque l’art. 452 cod. pen.: faceva lo stesso già una circolare del ministero dell’interno diretta ai prefetti emanata l’8 marzo scorso.
In più di un articolo giornalistico si è letto che chi viola la quarantena rischia 12 anni di carcere, così com’era stato scritto ai tempi dell’emanazione della circolare ministeriale. Tocca quindi ribadirlo: non è vero.
Facciamo corretta informazione giuridica. Ecco il testo dell’art. 452:
«Chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 438 e 439 è punito:
1) con la reclusione da tre a dodici anni, nei casi per i quali le dette disposizioni stabiliscono la pena di morte;
2) con la reclusione da uno a cinque anni, nei casi per i quali esse stabiliscono l’ergastolo;
3) con la reclusione da sei mesi a tre anni, nel caso in cui l’articolo 439 stabilisce la pena della reclusione.
Quando sia commesso per colpa alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 440, 441, 442, 443, 444 e 445 si applicano le pene ivi rispettivamente stabilite ridotte da un terzo a un sesto.»
La reclusione dai 3 ai 12 anni è prevista al n. 1), che rimanda agli artt. 438 e 439, nella parte in cui questi stabiliscono la pena di morte. Ma essendo la pena di morte stata abolita dal codice penale con il decreto luogotenenziale 10 agosto 1944 n. 224, il n. 1) dell’art. 452 s’intende implicitamente abrogato. La pena massima che può essere irrogata in applicazione dell’art. 452 è 5 anni (n. 2).
Va detto anche che in sé il richiamo all’art. 452 nel d.l. n. 19/2020 non mi pare sia del tutto pertinente, come già non lo era nella circolare ministeriale dell’8 marzo. Ciò almeno per due ragioni.
La prima, e meno forte, ha a che fare con la storia di questo reato.
Il delitto di cui all’art. 452 veniva evocato dalla circolare ministeriale, e viene ora evocato dal d.l. n. 19/2020, principalmente perché rimanda all’art. 438 cod. pen., che a sua volta punisce chi contribuisca al rischio di propagazione di un’epidemia «mediante la diffusione di germi patogeni». L’art. 438 punisce il comportamento doloso, l’art. 452 quello colposo. Ma il reato di epidemia non è affatto stato pensato per le condotte a cui il legislatore sembra volerlo ora applicare, seppure nella sua declinazione colposa. Il manuale di diritto penale di Giovanni Fiandaca ed Enzo Musco ne presenta così la ratio:
«Questa fattispecie, sconosciuta ai codici precedenti, è stata introdotta dal legislatore del Trenta in base alla considerazione che l’evoluzione scientifica ha (almeno teoricamente) incrementato la possibilità di procurarsi colture di germi patogeni, al fine di provocare e diffondere epidemie».
Insomma, nulla a che vedere con violazioni dell’isolamento imposto dalla quarantena.
La seconda ragione, a mio avviso più stringente, è questa: l’art. 438, a cui il 452 – come detto – rimanda, punisce chi causa un’epidemia. E chi può, ora, anche solo determinare il pericolo di causare un’epidemia, dato che l’epidemia è già in atto?
La contravvenzione prevista dall’art. 4, comma 6, del DL. N. 19/2020 pone poi un altro problema. Il reato punisce la violazione della quarantena, ma non c’è una norma o un complesso di norme che disciplinano questa misura. E dal momento che la quarantena incide sulla libertà personale, una sua disciplina deve rispettare le riserve di legge e di giurisdizione stabilite dall’art. 13 della costituzione. Di nuovo con le parole di Gatta:
«Manca nell’attuale quadro normativo […] una disciplina organica della misura (chi è legittimato a disporla? per quanto tempo?); una misura che in quanto limitativa della libertà personale sembrerebbe dover sottostare ai limiti dell’art. 13 Cost. Ciò significa necessità della previsione legislativa dei casi e dei modi in cui la misura può essere disposta, con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, quanto meno nella forma della convalida.»
6. Articoli e commi che sembrano contraddirsi a vicenda
Vengo, infine, a un dubbio che mi pongo leggendo l’art. 4, comma 1, del decreto.
Per onestà intellettuale, cioè per non fingere un’imparzialità che non ho, dico subito che si tratta di una perplessità influenzata dal mio orientamento ideologico, critico verso l’uso su vasta scala degli strumenti sanzionatori. Ciò che mi induce a valutare molto rigorosamente il dato testuale delle norme sanzionatorie, e mi spinge forse a un atteggiamento ipercritico.
Leggiamo la prima parte dell’art. 4, comma 1:
«Salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2, comma 1, ovvero dell’articolo 3, e’ punito con la sanzione amministrativa etc.»
L’art. 4, comma 1, richiama gli artt. 1, comma 2, 2, comma 1, e 3 dello stesso decreto. L’art. 1, comma 2, come abbiamo detto, contiene l’elenco tassativo delle misure adottabili. Leggiamo le altre due disposizioni richiamate. Art. 2, comma 1:
«Le misure di cui all’articolo 1 sono adottate con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentiti il Ministro dell’interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri ministri competenti per materia, nonché i presidenti delle regioni interessate, nel caso in cui riguardino esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino l’intero territorio nazionale. I decreti di cui al presente comma possono essere altresì adottati su proposta dei presidenti delle regioni interessate, nel caso in cui riguardino esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero del Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino l’intero territorio nazionale, sentiti il Ministro della salute, il Ministro dell’interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri ministri competenti per materia. Per i profili tecnico-scientifici e le valutazioni di adeguatezza e proporzionalità, i provvedimenti di cui al presente comma sono adottati sentito, di norma, il Comitato tecnico scientifico di cui all’ordinanza del Capo del dipartimento della Protezione civile 3 febbraio 2020, n. 630.»
La norma detta quindi la procedura da seguire nell’adozione dei DPCM applicativi delle misure di contenimento. Una norma simile si trovava nell’abrogato d.l. n. 6/2020. L’art. 3 invece recita:
«1. Nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 2, comma 1, e con efficacia limitata fino a tale momento, le regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive, tra quelle di cui all’articolo 1, comma 2, esclusivamente nell’ambito delle attivita’ di loro competenza e senza incisione delle attivita’ produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale.
2. I Sindaci non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza in contrasto con le misure statali, ne’ eccedendo i limiti di oggetto [di] cui al comma 1.
3. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano altresì agli atti posti in essere per ragioni di sanità in forza di poteri attribuiti da ogni disposizione di legge previgente.»
Dunque, la sanzione amministrativa pecuniaria si applica alle violazioni delle misure disposte con i DPCM adottati secondo le procedure di cui all’art. 2, comma 1, e con le Norme regionali emanate ai sensi dell’art. 3 nelle more dell’adozione dei DPCM: norme regionali che perdono efficacia una volta che i DPCM vengano infine adottati.
Nell’introdurre la sanzione amministrativa pecuniaria, l’art. 4, comma 1, non richiama invece i commi 2 e 3 dell’art. 2. Li riporto:
«2. Nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1 e con efficacia limitata fino a tale momento, in casi di estrema necessità e urgenza per situazioni sopravvenute le misure di cui all’articolo 1 possono essere adottate dal Ministro della salute ai sensi dell’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833.
3. Sono fatti salvi gli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanati ai sensi del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, ovvero ai sensi dell’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833. Continuano ad applicarsi nei termini originariamente previsti le misure gia’ adottate con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri adottati in data 8 marzo 2020, 9 marzo 2020, 11 marzo 2020 e 22 marzo 2020 per come ancora vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto. Le altre misure, ancora vigenti alla stessa data continuano ad applicarsi nel limite di ulteriori dieci giorni.»
Vista nel complesso, la disciplina degli artt. 2 e 3 del decreto mi sembra che segua due direzioni. L’art. 2, commi 1 e 2, e l’art. 3 dispongono per il futuro, cioè stabiliscono la procedura di adozione dei DPCM applicativi delle misure (art. 2, comma 1), e danno la possibilità al ministero della salute e alle regioni di provvedere in via d’urgenza, prima dell’adozione dei DPCM. L’art. 2, comma 3, invece, in sostanza fa salve le misure adottate finora.
Come abbiamo visto, però, la norma che introduce la sanzione amministrativa pecuniaria (art. 4, comma 1) richiama solo l’art. 2, comma 1, e l’art. 3. Dunque, a rigore, si dovrebbe dire che le violazioni alle ordinanze del ministero della sanità di cui all’art. 2, comma 2, non rientrano nel perimetro della sanzione. E salvo per i fatti pregressi considerati dall’art. 4, comma 8, del decreto (che detta una norma anch’essa problematica, come abbiamo già visto), lo stesso io direi anche rispetto alle violazioni delle ordinanze e dei decreti adottati in base al d.l. n. 6/2020, di cui parla l’art. 2, comma 3.
È vero che di quelle ordinanze e quei decreti l’art. 2, comma 3, fa salvi gli effetti. Ma l’art. 2, comma 3, non è richiamato dall’art. 4., comma 1, che stabilisce la sanzione amministrativa pecuniaria. Se questo è vero, perché una violazione possa essere amministrativamente sanzionata, la misura trasgredita dovrebbe essere adottata o con un dpcm emanato secondo le procedure di cui all’art. 2, comma 1, o con le norme ad efficacia provvisoria di cui all’art. 3, ossia le uniche due disposizioni procedurali a cui rimanda la norma sanzionatoria dell’art. 4, comma 1.
Il legislatore avrebbe potuto, almeno per chiarezza, richiamare nell’art. 4, comma 1, anche i commi 2 e 3 dell’art. 2. O avrebbe potuto espressamente equiparare la vecchia decretazione a quella adottata ai sensi dell’art. 2, comma 1. Ma non ha fatto né l’una né l’altra cosa.
7. Conclusioni
Lo dico onestamente: è ben difficile che un’interpretazione così rigorosa dei dati testuali trovi accoglimento nella prassi. Verosimilmente alle violazioni delle vecchie misure commesse dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 19/2020 verrà applicata la sanzione amministrativa piena, così come prevista dall’art. 4, comma 1, del decreto, sulla base del fatto che quelle misure rientrano comunque nell’elenco tassativo di cui all’art. 1, comma 2. Del resto, le misure di contenimento sono state prorogate al 13 aprile con il DPCM di mercoledì primo aprile, emanato appunto ai sensi dell’art. 2, comma 1 del d.l.
Concludo qui le mie riflessioni sulle violazioni commesse tra il momento in cui ha cominciato a essere efficace il d.l. n. 19/2020 e il 4 aprile, giorno d’entrata in vigore del DPCM del primo aprile. Mi è sembrato giusto far notare quelli che a me paiono difetti non di poco conto nella tecnica di redazione normativa. Difetti che vanno ben al di là del caso specifico, e che non sono il solo a trovare intollerabili in norme emergenziali, con le quali per di più vengono introdotte restrizioni e sanzioni. Sulla lingua di fatto indecifrabile della decretazione d’emergenza si era espresso molto duramente un giurista autorevolissimo, e non certo sospettabile di inclinazioni anti-istituzionali, come il giudice emerito della corte costituzionale Sabino Cassese:
«È comprensibile — ma non giustificabile — l’avere scelto la strada sbagliata di creare in fretta e furia un nuovo diritto dell’emergenza sanitaria, uscendo dai binari delle leggi di polizia sanitaria già esistenti, a partire dalle norme della Costituzione sulla profilassi internazionale fino a quelle del Servizio sanitario sulle epidemie e al testo unico delle leggi sanitarie.
Non si comprende, invece, perché i nostri governanti continuino a scrivere proclami così oscuri. L’ultimo decreto del presidente del Consiglio dei ministri, annunciato in televisione la sera del 21 marzo, firmato la sera successiva ed entrato in vigore il giorno dopo, contiene, nella parte dispositiva, 864 parole e ben dieci rinvii ad altri decreti, leggi, ordinanze, codici, protocolli. A Palazzo Chigi pensano che tutti gli italiani siano dotati di una raccolta normativa completa, incluse le ordinanze?»
di Luca Casarotti