Sull’epidemia delle emergenze /fase 2: prima venne il carcere…

L’avevamo anticipato una settimana fa: di fronte ad un’epidemia di una certa e inaspettata gravità questo stato non avrebbe saputo rispondere che con la militarizzazione e la repressione.
I dodici morti1 e gli innumerevoli feriti tra i detenuti rivoltosi del carcere di Modena e di Rieti e in tutte le altre case di reclusione che sono esplose tra domenica e lunedì, ne sono la palese conferma.

Mentre i media asserviti cercano di avvallare l’ipotesi, sia a Modena che a Rieti, che i detenuti siano morti tutti, o quasi, per overdose, è un governo paralizzato a tutti i livelli quello che finge di saper traghettare i cittadini verso una lontana e, per ora, invisibile riva di salvezza. Un governo che sa mostrare, ma solo in alcuni casi, il pugno di ferro, mentre, in realtà, i suoi rappresentanti centrali, regionali e locali non fanno altro che aggravare il probabile naufragio e, memori della gloria del comandante Schettino, cercano di accaparrarsi le lance di salvataggio dichiarandosi in quarantena per aver acquisito il virus Covid-19 o invocando misure “cilene” più che “cinesi”.

Ed è in conclusione di un lunedì che conta blocchi stradali, evasioni di massa, sparatorie in strada e scontri per riprendere possesso delle carceri in mano ai rivoltosi, che Giuseppe Conte appare per parlare alla Nazione. Da tiepido uomo d’ufficio prova goffamente a vestire i panni del minuteman mentre dichiara con aria grave che d’ora in avanti tutta l’Italia sarà zona rossa. Le misure stringenti che già hanno investito il nord ora dilagheranno fino all’estremo sud.

Ma a ben guardare, nonostante l’avanzare incessante del virus, a preoccupare veramente tutto l’arco parlamentare, mai così unito come in questi giorni, è un altro tipo di contagio: è l’epidemia della conflittualità sociale che fa scendere gocce di sudore freddo lungo le schiene dei padroni. Allora è bene muoversi decisi e serrare tutto prima che una scintilla schizzi oltre le mura di cemento delle patrie galere e incendi tutto il circostante.

Non serve un genio a vedere che i provvedimenti presi non scongiurano affatto il pericolo della diffusione del virus e continuano, anzi, a moltiplicarne gli effetti. Fino ad ora nessuna chiusura delle fabbriche (qui) e dei luoghi di lavoro, nessuna autentica fermata della circolazione di persone e merci (la scomposta fuga verso il Sud scattata sabato sera subito dopo la diffusione della bozza dei provvedimenti governativi ne è l’esempio emblematico), nessuna autentica strategia per combattere la malattia all’interno delle strutture sanitarie ormai al collasso. Con l’eccellenza lombarda già arrivata a dover selezionare i pazienti a cui somministrare le terapie (qui).

Tutti coloro che dovrebbero svolgere il ruolo di governanti incrociano le dita, corrono scomposti ora facendo gli affidabili, ora cercando di scaricare su ignoti ladri di bozze la frantumazione di una catena di comando che si è fermata ormai alla semplice raccomandazione dell’assunzione di responsabilità da parte dei cittadini. Messaggi che, per avere effetto ed essere ascoltati e messi in pratica, dovrebbero essere accompagnati da rassicurazioni di ben altro tenore, sia sul piano sanitario che sociale.

Invece no: il governo cerca di garantire prima di tutto la stabilità economica senza sforare troppo i parametri europei sul debito pubblico, mentre l’opposizione, i governatori e gli amministratori locali, i rappresentanti delle associazioni degli imprenditori e delle aziende chiedono, sì, di sforarlo ma per garantire la continuità delle aziende stesse e del “necessario” ritorno di profitti.

Nei giorni scorsi avevamo già segnalato l’ineffabile Boccia, presidente di Confindustria, che ha dichiarato che per uscire dall’emergenza economica occorrerà rilanciare le grandi opere inutili, a partire dal TAV; senza nemmeno prendere in considerazione il fatto che anche la costruzione di nuovi ospedali o l’ampliamento di quelli già esistenti potrebbero costituire un investimento più utile, non solo dal punto di vista delle aziende, ma soprattutto da quello della salute dei cittadini.

Come hanno tenuto a sottolineare già domenica 8 marzo, in occasione della festa (virtuale) della donna, le donne NoTav esponendo i cartelli in cui si affermava che un solo metro di TAV potrebbe servire a finanziare cento giorni di terapia intensiva (con tutti i servizi annessi). Ma si sa, in una società fondata sul diritto alla rapina del prodotto del lavoro sociale e sull’accumulazione privata della ricchezza socialmente prodotta non è l’utilità effettiva a contare, ma gli utili delle imprese, degli azionisti e dei gruppi finanziari.

Ma, d’altronde, può un paese come l’Italia, legato a doppio filo al mercato europeo e globale fermarsi e dirottare ogni sua energia verso la risoluzione di una sua emergenza? Crediamo di no. E l’incontrollata frana che ha travolto le borse mondiali subito dopo l’annuncio di una zona rossa (molto tiepida tra l’altro) in nord Italia ci conferma che questo modo di produzione, in fondo, non è così invincibile. Deve correre senza mai fermarsi e nel suo movimento caotico e forsennato si rende inafferrabile. Ma basta un sassolino. Una pietra d’inciampo e il mostro cade giù. Il 9 e il 10 marzo la rivolta dei carcerati ce lo ha mostrato bene.

Così, in queste drammatiche ore, mentre i nostri fratelli detenuti pagano in prima persona il coraggio della rivolta, anche noi e, più in generale, tutti gli esclusi e gli oppressi di questa società avviata al suo drammatico tramonto, dobbiamo riprendere in mano le armi della teoria, dell’analisi e dell’organizzazione.
Comprendere davvero che così come il coronavirus ucciderà più per i tagli effettuati negli anni alla sanità che per la sua virulenza, così nelle carceri, là dove davvero vivono gli “ultimi” di questa società e lo Stato non indossa maschere, la rivolta non esplode solo per il timore del contagio, ma per condizioni di vita (già più volte denunciate e stigmatizzate in Europa) estremamente e ingiustificatamente disagiate, così come scrive dall’interno del carcere un militante No Tav:

l’ansia e l’angoscia per il dilagare dell’infezione stanno crescendo anche tra le mura del carcere, tra i detenuti e il personale ivi impiegato. Scenari di blocco dei colloqui con i familiari, sospensione di permessi e uscite per i semiliberi sono già divenuti realtà in alcuni penitenziari del territorio nazionale e stanno divenendo probabili per gli altri visto il precipitare degli eventi giorno dopo giorno.
Appare chiaro che allo stato attuale, con una popolazione carceraria abbondantemente superiore alla capienza prevista (siamo più di 60.000 in carcere in circa 50mila posti disponibili), non ci sarebbe la possibilità di affrontare con misure di sicurezza adeguate l’eventualità non remota di un contagio tra i detenuti. Non oso pensare con quali conseguenze si ripercuoterebbe su individui già deboli e fragili, nonché ristretti, la diffusione di questa nuova infezione.
Di fronte alla impreparazione e approssimazione delle autorità statali nell’affrontare questa cosiddetta emergenza sanitaria, non pare sensato concentrare ulteriormente i carcerati bloccando anche le uscite di chi gode di benefici o di regimi di custodia attenuata. Inoltre, così facendo si infierisce ulteriormente su persone e sulle loro famiglie che già vivono da anni una condizione di privazione, sacrificio e umiliazione2.

La paura del virus non è che una miccia, l’esplosivo è questa vita di merda che si trangugia e respira quotidianamente. Come dicevano i francesi: fine del mondo, fine del mese, stessa battaglia.

La risposta durissima data alle rivolte esplose in oltre 30 carceri italiane (era almeno dagli anni Settanta che non si assisteva ad un così rapido propagarsi delle rivolte carcerarie) avviene proprio in grazia delle leggi approvate in questi giorni e assume anche il volto del ministro Bonafede, ineguagliabile giustizialista pentastellato. In grazia dello stato di assedio in cui lo Stato può di fatto agire con una discrezionalità fuori dal comune. Il tutto giustificato dal diffondersi del virus, ma in realtà già finalizzato a fronteggiare le conseguenze sociali ed
economiche di una crisi che assomiglia sempre più a una guerra.

Un autentico governo di unità nazionale sembra già essere nato nei fatti, senza distinzione tra Destra e Sinistra. Mentre il rifiuto del Governo e degli imprenditori di chiudere anche i settori produttivi non potrà fare altro che alimentare la rivolta contro una promessa di sicurezza che si rivela di giorno in giorno sempre meno convincente ed efficace. Come gli operai di Pomigliano scesi spontaneamente in sciopero (qui) sembrano già annunciare.

Un governo autoritario che attende di mettere nelle mani di un uomo forte la gestione dell’emergenza. Uomo forte che non dovrà nemmeno minacciare di fare del parlamento un bivacco di manipoli, visto che la maggioranza degli eletti dai cittadini sono già in fuga e l’emiciclo appare sempre più deserto (qui e qui ), come in un film di George Romero. A dimostrare, anche simbolicamente, la perdita di qualsiasi funzione reale dello stesso, a meno che non sia quella di passare la mano, un tempo ai vertici europei e adesso probabilmente all’uomo forte o al “commissario straordinario” che verrà.

Troppo si è dormito anche a sinistra e nei luoghi di aggregazione dell’antagonismo: il discorso sulla catastrofe capitalistica (guerra, crisi economica e ambientale, epidemie) è stato superficialmente accantonato. O meglio affrontato, di volta in volta, separatamente.
Troppo rischioso, troppo responsabilizzante affrontarlo altrimenti nella sua totalità, attraverso la sua irriducibile negazione.

Eppure, eppure…oggi occorrerà, anche se in ritardo, tornare a farci i conti.
Questa epidemia intaccherà a fondo il sistema economico e la vita sociale di questo paese.
Una volta finita l’emergenza, i padroni di ogni risma torneranno a battere cassa.
Per chi ricorda il default della Grecia di dieci anni fa, qualcosa di simile si affaccia all’orizzonte. Ma lo scenario è oggi più instabile, la crisi più profonda, l’autoritarismo più esplicito. Sono i primi bagliori che illuminano il clima da guerra civile che già si sta annunciando, quelli che si intravedono alla fine di questi giorni3.
E non ci si potrà appellare alla magnanimità della democrazia.
Occorre preparare adesso i piani per lo scontro di classe che viene.
Ecco un valido motivo per tornare a fare i conti con questa catastrofe.

Perché quello che per primi stanno sperimentando sulla loro pelle i carcerati in rivolta sarà esattamente ciò che attenderà tutti coloro che a breve, ancora nel corso dell’epidemia o subito dopo il suo placarsi, si mobiliteranno, non per scelta ma per necessità, per le condizioni di lavoro e i licenziamenti, per le mancate cure sanitarie o per il costo dei medicinali e dei prodotti di prima necessità. Per ogni schizzo di questa vita informe che urla vendetta.

Questa non è una previsione tra le tante, è esattamente la realtà dei fatti che ci attendono. Il capitalismo non ha affatto l’intenzione di salvarci, ma soltanto di salvare se stesso. Sulla nostra pelle.
Prepariamoci.

di Sandro Moiso e Jack Orlando

 

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