Note epide(r)miche

Il suo nome mi è letteralmente balzato in mente la scorsa settimana. Ero andato a prendere il pane e, una volta arrivato dal fornaio, mi è venuto istintivo contare fra i clienti presenti dentro e fuori il locale quelli che portavano la mascherina. Fu lì che accadde. Mi resi conto d’un tratto che avevo appena ripetuto il conteggio del filologo tedesco Victor Klemperer, testimone e studioso dell’ascesa del Terzo Reich: «il nostro morale cambia di giorno in giorno. Contiamo quante persone nei negozi dicono “Heil Hitler!” e quante dicono “Buongiorno”.
Ieri al panificio cinque donne hanno detto “Buongiorno” e solo due “Heil Hitler”: il morale risale. Oggi, dal macellaio, tutti hanno detto “Heil Hitler”… il morale scende». Lo ammetto, in quel preciso momento ho sentito un brivido dietro la nuca.
Rileggere il suo diario non è servito a placare la mia inquietudine, anzi. Ho un bell’evidenziare tutte le truculente differenze che ci separano da quegli anni, le similitudini spiccano comunque. Terrificanti, sebbene quasi prive di macchie di sangue. Anche all’epoca la popolazione era convinta di essere minacciata da un pericoloso virus, «l’Ebreo», in grado di infettarla. E nel giro di poco tempo un paese intero, noto per altro per il suo enorme apporto alla filosofia, venne travolto da una sorta di delirio di massa. Le credenze più ridicole si diffusero a macchia d’olio, spingendo uomini comuni a commettere gli atti più aberranti. E poi l’uso del sentimento per allontanare ogni riflessione critica, la martellante retorica bellica, l’ossessione tecnica per raggiungere l’omogeneità…
Sì, è in mezzo a quelle pagine che ho capito come il virus mortale che deve essere oggi debellato non sia affatto il Covid-19. Siamo noi. Noi che, come gli ebrei, non possiamo più uscire di casa. Noi, che non possiamo più frequentare biblioteche, cinema, ristoranti, parchi. Noi, che abbiamo il permesso di varcare la soglia solo per il tempo necessario a procurarci i generi di prima necessità. Noi, costretti a giustificare la nostra presenza alla prima uniforme che ci incrocia per strada. Noi, che ci consoliamo con l’identico ritornello di allora («La follia totale non può durare, una volta che sia svanita l’ubriacatura popolare, lasciando dietro di sé solo un gran mal di testa»). Noi, che parliamo la lingua del nemico. Noi, fra cui non manca neppure chi ammira le autorità. Noi, che attendiamo ogni giorno attaccati ai nostri dispositivi elettronici la lieta notizia della fine dell’incubo.
Ma non finirà mai, anzi, peggiorerà, se non saremo noi stessi a porvi fine. Come diceva l’autore di La Peste, «La speranza, al contrario di quanto si pensi, equivale alla rassegnazione. E vivere non è rassegnarsi».

Alcuni giorni fa un medico epidemiologo che insegna in una celebre università statunitense ha espresso tutta la sua preoccupazione per quanto sta accadendo. A spaventarlo non è tanto l’epidemia in corso quanto ciò che ha suscitato, ovvero una reazione politica e sociale in buona parte dettata dalla paura. A suo dire il serio rischio che si sta correndo è quello di finire come l’elefante che, in preda al panico per essere stato attaccato da un topolino, cerca di scappare lanciandosi in un dirupo. In mancanza di informazioni più precise sul pericolo effettivo del virus e soprattutto sulla profondità del dirupo, il rimedio potrebbe rivelarsi più letale del malanno. Per amor di discussione, egli arriva al punto da ipotizzare lo scenario più catastrofico (pur precisando di non ritenerlo verosimile): il virus contagerà il 60% dell’umanità causando 40 milioni di morti, una cifra pari a quella provocata nel 1918-20 dall’influenza spagnola. Con una differenza fondamentale, però. Che il coronavirus rischia di fare un’ecatombe di anziani e malati gravi, mentre la spagnola aveva seminato la morte fra tutti indistintamente, giovani e bambini inclusi. Ebbene, si domanda questo epidemiologo, quante e quali vittime ci saranno se l’elefantiaca umanità si lancerà nel dirupo? Ha senso che per evitare la morte di milioni di persone con una breve aspettativa di vita si corra il forte rischio di provocare la morte di miliardi di persone anche fra quelle che hanno una lunga aspettativa di vita?
Si dirà che si tratta di un ragionamento da ragionieri, tipico frutto del pragmatismo anglo-sassone. È vero, ecco perché potrebbe essere il più comprensibile per chi pensa solo al proprio interesse e alla propria sopravvivenza. Noi abbiamo preso atto della cecità e sordità e mutismo nazional-popolare davanti allo scempio che le misure governative stanno facendo della benché minima libertà e della dignità umana, ma i cittadini che approvano la sospensione forzata della vita pubblica prenderanno atto delle innumerevoli vittime provocate da questa isteria di massa? A partire da chi sta morendo già oggi, chi suicidandosi per timore del risultato del tampone (è accaduto in Veneto), chi venendo trucidato per aver tentato di fermare gli esasperati dalla reclusione (è avvenuto nel Lazio), chi spirando per mancanza di mezzi sanitari tutti dirottati sull’emergenza (è avvenuto in Puglia). E fra gli emarginati ed i più poveri, quelli che già ieri faticavano a tirare avanti, in quanti non avranno più scampo e soccomberanno del tutto? E dopo di loro, cosa accadrà a chi lavorava nelle molte imprese che non saranno in grado di riprendersi e si ritroverà senza più lavoro? Per non parlare di quando le azioni crollate in borsa verranno rastrellate e comprate per due soldi, permettendo a pochissimi squali di fare indigestione di moltissimi pesci piccoli e medi stremati dalla debolezza. Quanti morti provocherà, in quasi tutti gli ambiti sociali, l’esplosione di tutta questa disperazione che sta montando sotto i nostri occhi?
Se lo sono chiesto i mentecatti e sbruffoni italioti che — dopo aver indossato mascherine, essersi cosparsi di antisettico e barricati in casa — escono sui balconi a cantare in coro «siam pronti alla morte»? Lo vedremo presto, se e quanto siano pronti.

La vecchia propaganda di guerra si basava sulla disinformazione, sulla manipolazione, sulla censura. Ciò significa che, prima di essere riportati, i fatti venivano opportunamente selezionati, edulcorati o taciuti del tutto. Lo scopo era di sottrarre il più possibile la loro cruda realtà alla vista di uno sguardo attento. Oggi a queste tecniche (sempre presenti, basti pensare al silenzio imposto ai medici sanitari fuori linea) se n’è aggiunta un’altra, l’indifferenziazione per eccesso. Le informazioni vengono date con tale velocità e in tale quantità da non permettere ad una coscienza stordita e sovraccaricata di coglierne il senso, di discernere il vero dal falso. È un po’ lo stesso metodo usato da Poe nella Lettera rubata; non occorre nasconderla, per non farla vedere basta metterla in mezzo a mille altre cianfrusaglie.
Gira voce tra i «negazionisti» della pandemia in atto, che i morti di coronavirus siano pochissimi. Si tratta di una bufala, ovviamente, di una fake news (per gli antiquati del linguaggio, una notizia falsa) a cui non bisogna dare credito. La verità vera la conoscono solo gli esperti al diretto servizio dello Stato, come i funzionari dell’Istituto Superiore di Sanità. Loro sì che sanno come stanno le cose. Ascoltiamoli e leggiamoli, allora. Pochi giorni fa, nello snocciolare i numeri del quotidiano bollettino di guerra ci hanno infilato questo: stando alle ultime statistiche settimanali, le vittime di solo coronavirus sono lo 0,8% del totale dei morti attribuiti alla pandemia. Tutti gli altri erano già malati gravi, spesso più di là che di qua, a cui il virus ha solo dato il colpo finale. Se la matematica non è un’opinione e se quel dato può essere usato a parametro generale, ciò vuol dire che un paese composto da sessanta milioni di abitanti, la stragrande maggioranza dei quali gode di buona salute, si è paralizzato dalla paura per un virus che ha ucciso… sì e no una quarantina di persone sane? Ovvero lo 0,07% circa di tutti i contagiati?
Ciò non ci aiuta a capire molto bene il motivo per cui il Belpaese sia diventato d’un tratto uno Stato di polizia a tutti gli effetti, e per di più col plauso generale dei suoi novelli sudditi, ma per lo meno spiegherebbe la discrepanza esistente fra il tasso di mortalità attribuito al coronavirus in Italia e quello relativo al resto del mondo. Se in Germania si registrano molte meno vittime, ad esempio, è perché là si conteggiano solo o soprattutto i morti di coronavirus, non i morti con coronavirus. D’altronde, perché fare diversamente? In Baviera è bastato citare l’esempio italiano per terrorizzare la popolazione e farle accettare misure draconiane. È il progresso dei tempi. Hitler dovette non solo ispirarsi a Mussolini, ma superarlo in crudeltà.

Certo, è imbarazzante essere trattati da imbecilli fino a questo punto. Del resto le autorità ne hanno non solo la possibilità, ma anche la motivazione. I mass media si rivolgono a tutti indistintamente, non a ciascuno singolarmente. Quindi, se il popolo ha dimostrato in più di un’occasione la propria stupidità, i singoli che si presume ne facciano parte avranno anche tanto da lamentarsi, ma ben poco di cui stupirsi. Becchiamoci perciò in faccia pure l’ennesimo studio condotto dai soliti esperti, i quali sono giunti alla conclusione che l’avanzata del contagio del virus non abbia nulla a che vedere con l’inquinamento atmosferico come sostenuto da alcuni medici. Che l’aria sia piena di ossigeno o di anidride carbonica, per il virus non fa differenza.
Ma per gli esseri umani sì che fa la differenza, altro che! Il punto infatti non è tanto l’ipotesi che l’aria inquinata faccia da veicolo al contagio, bensì la certezza che favorisca la letalità del virus. L’inquinamento potrà forse non aiutare il virus a trasmettersi, ma di certo ne accentua la capacità di uccidere. Colpendo soprattutto le vie respiratorie, è ovvio che risulti più pericoloso laddove la salute dei polmoni sia già compromessa. Basti considerare che la stragrande maggioranza delle vittime erano fumatori o residenti nelle regioni più industrializzate d’Italia. Se si respira già male, è chiaro che una complicanza polmonare può rivelarsi fatale. E per smentire questa banale conclusione logica, irritante perché mette comunque in discussione i fumi dell’industria, cosa fanno? Spostano i termini della questione e ci assicurano che il contagio può avvenire anche all’aria fresca di campagna?

Un orgasmo multiplo e permanente, ecco cos’è in questi giorni l’esercizio del potere per chi, piccolo o grande, lo detiene. Lo stato di emergenza ha dato la stura a tutti gli appetiti, a tutte le prepotenze e a tutte le arroganze. Dal primo dei ministri all’ultimo dei sindaci, è tutto un ordinare, regolamentare, vietare, minacciare. Poco importa che questi ordinamenti siano assurdi, inutili e perfino contraddittori. Le strade e le piazze sono vuote, tutti si sono reclusi nella propria paura. Il territorio è sgombero, a totale disposizione della legge. Dopo che le forze dell’ordine e l’esercito hanno occupato le strade, ora è la volta dei droni che si stanno alzando per occupare il cielo. Tutto il paese diventerà un enorme Panopticon, una prigione a cielo aperto dentro la quale ogni sopruso sarà permesso.
E dove già si stanno scatenando i peggiori istinti umani. Dall’ultimo dei poveri al primo dei ricchi, è infatti anche tutto un osservare, sospettare, rimproverare, denunciare. Confinati nelle proprie celle più o meno confortevoli, molti detenuti ogni giorno cantano dalla loro finestra. Ma non è una battitura di protesta, è un inno alla servitù volontaria.
Tronfi e quasi increduli di questi poteri assoluti incontestati, i potenti non mostrano più alcuna cautela nel tirare fuori il loro grugno. «Torino è ubbidiente», esulta un questore piemontese. «Subito con le richieste di condanna per gli irresponsabili», tuona un procuratore pugliese. «È arrivato il momento di militarizzare l’Italia», invoca un governatore campano. La voglia di legge marziale sembra inarrestabile.
E a noi rimbomba in testa il monito lanciato in altri tempi bui da un vecchio anarchico: «È una sconfitta di cui bisogna lavarsi, ricordatelo bene; o le tigri, gli sciacalli forse meglio, dei covi giudiziari repubblicani non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere».

Come qualsiasi operatore sanitario sa bene, la cosiddetta prevenzione primaria è la più importante delle prevenzioni perché è quella che mira ad evitare proprio l’insorgere di una malattia. Un’ottima idea, quella di anticipare la causa del male impedendole che si manifesti e provochi i suoi effetti. Ma chi dovrebbe attuarla, e come? Avendo rinunciato ad ogni autonomia, affidiamo allo Stato il compito di amministrare ogni aspetto della nostra vita. La salute non è più qualcosa di cui ognuno dovrebbe preoccuparsi per sé, è una «cosa pubblica» che in quanto tale va gestita dall’alto. E in alto si conoscono solo due maniere per occuparsene: o attraverso i vaccini, o attraverso il tentativo di ridurre i singoli fattori di rischio (imposizione di misure di sicurezza, lancio di campagne di sensibilizzazione, etc.).
Il che spiega perché oggi, in assenza di misteriose punturine magiche non ancora inventate, ci viene suggerito, quando non imposto, di indossare una mascherina prima di avventurarsi per strada. Ora, a parte il fatto che la stragrande maggioranza delle mascherine sul mercato non proteggono affatto dal virus; a parte il fatto che quelle poche che effettivamente servono a tale scopo dovrebbero essere lasciate al personale medico e ai parenti degli infettati («egoisti irresponsabili» sono semmai coloro che le sprecano per andare a fare la spesa); ma poi, come si fa a non capire che la prevenzione migliore contro qualsiasi virus è quella di aumentare le proprie difese immunitarie con un’alimentazione sana e vitaminica ricca di frutta e verdura, esercizio fisico all’aperto, tranquillità e riposo, assunzione delle più svariate sostanze naturali? E che di conseguenza, chiudendosi in casa sotto stress da panico, senza più prendere sole e respirare aria pulita, si ottiene l’effetto diametralmente opposto, cioè si indebolisce il proprio organismo rendendolo più vulnerabile al contagio?
Quanto al prevenire le cause che favoriscono le malattie, non è certo lo Stato patogeno a poterlo fare. Che questo virus sia una tipica malattia della civiltà moderna, lo ammettono persino gli stessi virologi. Non perché in passato non avrebbe potuto comparire, sia chiaro, ma perché i suoi effetti sarebbero stati ancor più trascurabili di quel che sono. Come per un terremoto, è l’attuale organizzazione sociale ad averne accentuato le conseguenze. Se sta contagiando l’intero pianeta è perché ha trovato vettori che si spostano in aereo da un continente all’altro e che vivono in città sempre più affollate. Fosse rimasto circoscritto in un piccolo villaggio remoto, chi ne avrebbe mai sentito parlare? Inoltre il passaggio di un virus dall’animale all’uomo è più probabile che avvenga se si avvicinano le due specie con la deforestazione, la costruzione di strade all’interno di territori vergini, l’urbanizzazione. Come ha riconosciuto anche una studiosa di virus, «noi creiamo habitat dove i virus si trasmettono facilmente, ma ci sorprendiamo quando ciò accade».
Quindi, qual è la migliore prevenzione primaria?

 

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