La scommessa del dominio: il contagio della servitù

In questi giorni tutta l’Italia è diventata, più che mai, un carcere a cielo aperto di sperimentazione sociale.
Negli occhi dei politici, dei giornalisti, degli scienziati e degli economisti non si può che notare la paura. Occhi terrorizzati da un luogo del mondo che potrebbe essere l’epicentro di un sogno di tutte le persone sensibili: il crollo della civiltà.

Carceri in fiamme dove chi è recluso tenta la cosa più bella che ci sia: evadere dalla gabbia. Pestilenze e possibili untori che vagano nelle città della rovina endemica. Gabbie di vetro che dividono sofferenti e santificatori, in un continuo susseguirsi giornaliero di impennate di numeri degli infetti, come le morti provocate da una brutale guerra. Le minacce di selezione sulla vita e la morte fanno il resto. Grida avulse e stanche degli oppressori e dei loro tirapiedi dello spettacolo passano dallo state a casa al dobbiamo cambiare il nostro stile di vita. E le domande che sorgono sono le seguenti: e chi una casa non ce l’ha? E per i fortunati, se quella casa è sempre stata una gabbia? Di quale stile di vita stiamo parlando? Da che pulpito viene la predica, da chi tuttora non si fa scrupoli a sfruttare, devastare e uccidere questo mondo.

Il dominio è la realtà. Essa sta fagocitando tutto. Se la cultura si plasma sulla continua informazione data in tempo reale, giocando sulla presunta evidenza e non sulla sensibilità, l’effetto è quello di azzerare la riflessione. Il falso si innesta nei sensi per occupare terreno nel nostro sempre più ristretto spazio immaginario. Una realtà dove l’informazione ha occultato la conoscenza, non permettendo più di cogliere i fatti, faticando a metterli in relazione con le idee. Quando niente si inventa, ci si accontenta di essere replicanti dell’approssimazione.

Disimparare a sentire è lo spirito del tempo. Ma, oggi più che mai, fuori dagli schermi è buio pesto. E non è detto che dalle macerie di questa putrida civiltà infettata dal virus del potere, e della suadente servitù che la regge, non possano sbocciare germogli di vita appassionata. E qui torna alla mente una congiunzione storica. Uno dei primi attacchi della Comune di Parigi al fuggi fuggi dei padroni parigini nel 1871 fu l’incendio dell’anagrafe della città: un buon modo di bruciare ogni riconoscimento. L’altro ieri, nel carcere di Foggia, prima dell’evasione di una settantina di prigionieri, i ribelli hanno distrutto tutti gli incartamenti e documenti che riguardavano le loro identità. Come dire, quando la vita brucia cercare di rendersi non identificabili è una questione di saggia sicurezza individuale.

Ecco l’ennesimo atto di come sia chiaro che la sedizione attizzi la creatività di chi insorge contro le proprie condizioni di oppressione. Per spezzare il proprio contagio della servitù e scatenare l’ammutinamento di chi ancora riesce a sentire.

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