Fino all’emanazione del Decreto legislativo 65/17 il centro-sud Italia non si era fino in fondo reso conto dell’epidemia del coronavirus, se non per i meme su facebook e gli scherzi contro i “polentoni infetti”. Il Decreto del governo ha, però, risuonato come un campanello d’allarme in tutto il paese. Nessuno, in effetti, ha memoria di scuole chiuse per dieci giorni, negozi chiusi e di centinaia di imprese che impongono il telelavoro.
Sono tantissimi i commenti interessanti che si possono leggere sul tema, dai grafici dei cattivi scienziati, alle analisi geopolitiche sulla centralità della Cina, alla trasformazione dei meccanismi di controllo e come sfuggirne. C’è, però, un sentimento di sottofondo, che aleggia sia tra chi sdrammatizza scherzando sia tra chi è in preda al panico, di cui nessuno parla: la paura della morte.
Questo virus ci riporta alla finitezza del nostro corpo, alla vulnerabilità della nostra vita, alla sensazione di impotenza, perché sfugge dalla nostra possibilità di controllo. Non importa quanti articoli leggiamo, quanto siamo diventati bravi a comprendere le tabelle dell’OMS, o le interviste dei virologi. Questo virus ci ricorda il fatto puro e semplice che la nostra vita non solo si potrebbe interrompere, ma che potremmo ammalarci e soffrire.
IL RIMOSSO DELLA MORTE NELLE SOCIETÀ OCCIDENTALI
Per millenni tutte le grandi civiltà hanno fondato le regole della propria vita in comune sulla relazione con la morte, rendendo la morte un momento di celebrazione collettiva centrale nella società. La morte è un tema centrale per tutte le religioni, monoteiste o meno, molte della quali la narrano come un momento di passaggio verso una vita/stato dell’essere migliore, senza più sofferenza o tempo.
Le società occidentali hanno lentamente rimosso la morte dalla propria vita sociale. La secolarizzazione della società ha eliminato l’idea della vita nell’aldilà, e con essa il discorso pubblico, la concettualizzazione stessa della morte, i riti e i simboli a essa legati. L’esaltazione neoliberale dell’individuo giovane, bello, sempre pronto ad affrontare nuove sfide, versatile, capace di trasformarsi ci racconta una società che non vuole parlare dei propri limiti, delle proprie incapacità e tanto meno della morte.
Non si piangono più i morti per giorni dentro casa, non ci si veste più di nero, difficilmente si sa cosa fare per gli anniversari della morte delle persone care. Certo non rimpiangiamo i tempi in cui le donne rimaste vedove erano obbligate a vestirsi di nero per mesi, se non anni, per tenerle legate strettamente alla sofferenza sociale evitando che si costruissero una propria indipendenza, una volta non più sotto il controllo del marito. Allo stesso tempo, vestire a lutto era una delle modalità tramite le quali la società rifletteva sulla propria perdita e lo faceva tramite dei simboli e rituali pubblici. Le urla delle donne lamentatrici accompagnavano i morti nell’aldilà, ma soprattutto sostenevano i vivi e li consolavano per il vuoto lasciato dalla persona deceduta. Oggi ci mancano proprio quei gesti ripetuti per secoli che avevano la capacità di lenire il dolore e accompagnarci durante l’elaborazione del lutto che non era mai una questione individuale ma sociale.
Oggi si evita di portare i bambini ai funerali, non si parla della morte a scuola, o tantomeno della malattia, la scusa è quella di non traumatizzare i bambini o gli adolescenti. La realtà è che ci mancano le parole semplici e chiare per rispondere alle domande dirette dei bimbi, non siamo in grado spiegare di quel senso di vuoto, o tantomeno vogliamo lasciar trasparire la nostra sofferenza. Così cresciamo adulti senza avere le parole e senza conoscere i gesti da dovere compiere di fronte a una malattia di lungo corso o di fronte alla morte di una persona cara. Non conosciamo nemmeno le leggi né le questioni materiali che dobbiamo affrontare nei giorni di un funerale, ritrovandoci senza strumenti nel mare in tempesta delle nostre emozioni. Degli adulti-bambini che rimangono sì traumatizzati. Ma traumatizzati da cosa? Il ciclo della vita prevede la morte, ma una società che si nega la capacità ci comprendere la morte, non si nega forse anche la capacità di comprendere la vita?
LA SOFFERENZA È UN TABÙ
Nel corso di questi decenni l’ideologia pseudo-scientifica del capitalismo neoliberale ci ha rassicurato che vivendo in modo sano, limitandoci ma allo stesso tempo divertendoci, saremo stati in grado di vivere il più lungo tempo possibile, in questo modo ci siamo voluti dimenticare della nostra finitezza e del dolore legato alla fine della vita, sia fisico che emozionale.
L’Italia è un paese che invecchia e non fa figli, ma la rappresentazione pubblica ci presenta donne e uomini che non invecchiano mai e che soprattutto non vogliono invecchiare. Siamo tartassati quotidianamente da pubblicità su creme, diete e decaloghi sulle migliori azioni da intraprendere contro l’invecchiamento. Negli ultimi anni anche in politica “essere giovani” è diventato un valore in sé, indifferentemente dai valori etici o dai programmi politici. Di Maio, Renzi, Salvini di per sé erano un bene per il paese perché avrebbero “svecchiato” la politica. Poca importa se prevedevano di smantellare qualsiasi garanzia per i lavoratori, diminuire il sistema sanitario nazionale o restringere i diritti selettivamente in base al paese di provenienza. L’emblema stesso di questa incapacità sociale di accettare l’invecchiamento è sicuramente Berlusconi: immagine di un uomo politico che non vuole morire e allo stesso tempo di un progetto politico in qualche modo sempre capace di continue rinascite, anche solo grazie alle proprie clientele.
Così si parla di invecchiamento poco e male, non esiste una presa di parola pubblica sulla sofferenza legata alla fase finale della vita, la malattia è un decalogo di comportamenti individuali da fare e non fare, e si è cancellata la morte dalla riflessione sociale, lasciandoci soli e senza strumenti. Eppure appena accendiamo la televisione o guardiamo il nostro cellulare veniamo bombardati da immagini scioccanti di guerre, genocidi, morti violente che ci ricordano la caducità della nostra vita, sulla quale però non veniamo invitati a riflettere emozionalmente o intellettualmente, ritrovandoci in un turbinio di immagini alle quali non sappiamo dare voce.
OLTRE LA VITA ETERNA, NEL PRESENTE DELLE NOSTRE VITE
L’idea di vita eterna, ricatto terreno delle religioni, è stata fortunatamente cancellata dal processo di secolarizzazione, ma al contempo non si è formata una nuova capacità di ragionare intorno alla morte. Oggi, tra bolle social e media mainstream ci dopiamo di numeri del contagio, di mappe dell’epidemia, di commenti di dottori, se non di teorie politiche sul controllo sociale, di racconti distopici sul futuro prossimo e videogames sempre più realistici su dove e come uccidere gli zombi. In un misto di paranoia da pandemia e ansia per il futuro materiale, dato che non sappiamo che fine farà il nostro salario, se siamo così fortunati da averne uno. Siamo più bravi a mantenere un metro di distanza dal nostro vicino, limitare i nostri spostamenti, diminuire i nostri contatti con l’altro che aprire una discussione pubblica sul problema della nostra finitezza.
Nei suoi Racconti Quotidiani, Andrea Camilleri racconta del giorno dei morti in Sicilia quando era bambino durante la guerra, prima che l’Italia venisse liberata dagli americani. Nell’infanzia siciliana di Camilleri, la notte tra il primo e il secondo giorno di novembre era il momento dei regali. I bambini nascondevano una cesta sotto al letto, affinché i morti la potessero riempire durante la notte di dolci e giochi. Quei regali riallacciavano il filo tra i vivi e i morti, coloro che segnano il nostro patrimonio genetico ma di cui abbiamo perso memoria, così che oggi è più facile fare una mappa del proprio DNA tramite una app che trovare un familiare disposto a narrare la storia della propria famiglia. Riallacciare il legame tra chi c’era e chi è oggi, accompagnare l’incessante passaggio tra la vita e la morte, questo è il compito dei rituali, dei cimiteri, dei funerali, e di tutti i loro simboli.
Le comunità indigene dell’America Latina credono che i morti siano tra i vivi, vivano tra di essi, in un sincretismo che non riconosce differenza tra passato che fu e futuro che viene, perché in ogni tempo vi è parte del passato e si intravede il futuro. Al contrario, noi occidentali chiudiamo una bara di legno con un trapano elettrico la sotterriamo sotto terra e crediamo che tutto sia finito. I morti non ci verranno a cercare, e noi non cercheremo loro. Non lasceremo latte e biscotti sulle loro tombe perché possano venirli a mangiare durante la notte, non costruiremo cimiteri sopra le colline delle nostre città perché possano vegliare sui vivi. I morti per le nostre società occidentali non sono altro che una questione individuale, forse nemmeno più familiare, sono la sofferenza da elaborare, il lutto da superare, affinché la vita torni a scorrere. Non sono mai una presenza da portare nella vita quotidiana dei vivi. I morti, anche per i credenti, sono morti, e vivono del regno che verrà. La legge che vige tra i due regni è quella dell’indifferenza.
La studiosa di studi della morte Ines Testoni parla della necessità di una nuova educazione alla morte che apra uno spazio di riflessione profonda da fare dalla scuola dell’infanzia fino all’università da personale competente. Oltre questo, c’è probabilmente bisogno di costruire nuovi rituali laici e condivisi in cui sapersi rispecchiare in questi momenti di difficoltà. Il movimento femminista nella sua storia ha rimesso in discussioni ruoli tradizionali, ma ha anche saputo rielaborare nuovi simboli e rituali. Così come scrive Veronica Gago «il femminismo ha una mistica. Lavora dagli affetti e dalle passioni (…). Ritiene che la spiritualità sia una forza di rivolta». Oggi in Italia è Non Una Di Meno è l’unico spazio che discute della vulnerabilità sociale dei corpi per riuscire ad imporre una discussione pubblica sui femminicidi. Non Una di Meno infatti ha già aperto uno spazio di discussione sull’epidemia a partire dalla necessità di rivedere le azioni e manifestazioni per l’8marzo, qui si intravede già uno spazio per ragionare della nostra finitezza come generi, specie e pianeta. Una discussione che possa quindi portarci a valorizzare il desiderio per la vita, a partire dalla consapevolezza della morte, e non cadere nell’angoscia della morte che immobilizza la vita.