Si scorgeva in lontananza una striscia di fumo nera, indolente, salire verso il cielo. Neanche tanto in lontananza: un paio di chilometri in linea d’aria, da casa mia. Pareva l’eco angosciante di epoche lontane – e vicinissime; il fumo triste che dovevano vedere giorno e notte gli abitanti di certe cittadine una settantina di anni fa, dalle loro finestre – la memoria dannata d’Europa. Le nostre anime, passeranno tutte dal camino.
Ora che siamo piombati dentro il peggior incubo distopico – non uscite, non vi assembrate, non vi toccate -, ora che ogni scenario apocalittico o autoritario sembra plausibile, cominciamo a riflettere seriamente sulla nostra condizione. Non come malati o potenziali infettati, ma come esseri umani improvvisamente risvegliati dal sonnambulismo indotto dal tran tran fasullo e quotidiano a cui eravamo avvezzi.
Un mio amico fischietta allegro, quando va a fare la spesa, nel vuoto desolato nel nostro quartierino di prima periferia: dice che la mascherina gli ha migliorato l’estetica, e trova anche tutte le donne attraenti, coi loro volti esoticamente velati dalla FFP3. Fuori c’è un sole di primavera che ricorda l’aprile berlinese del 1945, magistralmente raccontato da Jonthan Littel ne Le Benevole: la città spettrale, vuota di corpi e desideri, scassata e rassegnata, in attesa della Nemesi terribile – mentre la natura fiorisce irridente, dolcissima, struggente e puntuale, promettendo un futuro di normalità che sembra lontanissimo, sepolto dai rimpianti di tutti coloro che vorrebbero tornare indietro, cancellare gli anni della follia, godersi legittimamente la primavera – come agognavano i berlinesi tardivamente pentiti nel ’45. Solo che non c’è nessun nemico, alle porte. Forse è per quello che le strategie difensive si accatastano inutilmente. Dai nostri bunker antivirali, non si coglie uno spiraglio di futuro ipotizzabile. C’è il qui e ora. Le tragedie sono sempre una lucida immersione nel presente – lo raccontava bene Benedetto Croce quando rammemorava la sua esperienza di sepolto vivo sotto le macerie di Casamicciola, durante il terremoto del 1883 che gli uccise la famiglia. Si resta lucidi, guardando il cielo stellato e sperando che i soccorsi arrivino al più presto, a liberare il corpo imprigionato da tufi e calcinacci.
Quello che fa più paura, non è la situazione economica. Ciò che spaventa è l’irreversibilità delle nostre paranoie. Per quanto tempo, quando sarà finita, continueremo a disinfettare il nostro mondo, in una illusione di incontaminazione, di asetticità? Per quanto tempo continueremo a girare in mascherina, a lavarci ossessivamente le mani, a perpetuare solo rapporti a controllata lontananza? L’ideologia del distanziamento sociale viene introiettata da una società che già, embrionalmente, aveva cominciato a praticarla da anni, in dosi omeopatiche. Metà dei nuclei familiari milanesi sono single – il “distanziamento” era già penetrato nei polmoni. Le relazioni umane come un impiccio da evitare – tra un aperitivo, un pilates o una impiccagione per debiti.
Le nostre bardature anti-virus fanno riflettere – per noi sono una fastidiosa novità. Ma sappiamo che milioni di cinesi, indiani, indonesiani, nelle sterminate metropoli d’Asia, indossano già normalmente quelle stesse mascherine, da anni. Fa parte della loro routine. E non per proteggersi dai virus: solo per ripararsi dall’intossicazione di uno smog ormai incontrollato – qualcosa di quotidiano, ineluttabile, non eccezionale, che si sa non passerà. Particelle inerti, non virus. Agenti patogeni che aggrediscono il sistema respiratorio e innescano la tosse cronica con cui si convive, nella frenetica tristezza tipica delle metropoli asiatiche. Dov’è il virus nell’aria lercia e irrespirabile di Bangalore? Non è quello il problema principale, da quelle parti. Ma che razza di vita è quella in cui normalmente decine di milioni di persone barattano un po’ di elevazione sociale, un po’ di modernità e di accesso alle merci, con l’impossibilità fisiologica di respirare in maniera normale? Diventare ceto medio significa soffocare? E’ una buona metafora? Intanto, nella ridente Padania – da sempre catino fetido e stagnante – le autorità fanno a gara a smentire la possibilità che il virus possa essere veicolato attraverso le micropraticelle dell’inquinamento urbano. Sarebbe un bel problema, se fosse così. Meglio non pensarci nemmeno. Come faremmo, dopo, quando sarà passata, a risalire ordinatamente sulla giostra?
Chi sono i vecchi padani che stanno morendo dentro reparti stracolmi e improvvisati, a Brescia o Milano? Pensionati di piccoli paesini, insediati in un contesto di solido benessere, sociale e famigliare. Sono passati nel giro di pochi giorni, dai riti placidi della bocciofila alla terapia intensiva; e adesso sono lì, dentro uno scafandro o attaccati ad un respiratore, con gli occhi sbarrati, la fame insaziabile di ossigeno, soli nella morte come nella nascita. Pure loro, ceto medio, medissimo; vecchi eroi del boom, custodi di una solida ricchezza privata: probabilmente non si erano accorti di quanto, negli anni, fosse stata tanto gravemente erosa quella pubblica – né potevano ipotizzare ricadute così drammatiche sulla propria cartella clinica.
Ho letto che nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Bergamo, prima della crisi, c’erano 17 posti disponibili. Non so se il numero sia quello giusto (già la scaramanzia non lasciava presagire nulla di buono), ma comunque era una disponibilità scandalosamente inadeguata, per una grande città. Scenario tipico dell’egemonia liberista: crescono le ricchezze private, decrescono quelle comuni, collettive. Mentre i capannoncini grigi, della meccanica, dell’agroalimentare e della logistica, facevano girare l’economia del Nord, mentre la disponibilità economica delle famiglie ti faceva sentire al sicuro – chi se ne frega delle attese, vado a fare l’esame a pagamento -, ci siamo scordati di vigilare sul lento inesorabile sfilacciamento del sistema pubblico.
Come in un bizzarro cartone animato, una lunga fila di topolini maligni ci aveva sfilato sotto gli occhi migliaia di posti letto, uno alla volta, ogni santo giorno, per anni. Non se ne era accorto nessuno? Reparti chiusi, ospedali e presidi cancellati, pezzi di sanità trasferiti pari pari al privato. Non è vero che il sistema sta facendo fatica ad affrontare la criticità, oggi, per colpa del virus. Era già così da tempo. Adesso sta piangendo il Nord, ma in condizioni normali, erano le strutture sanitarie meridionali, che quotidianamente condannavano ad un’assistenza indegna o addirittura alla morte i pazienti più fragili, anziani, poveri. Con qualche occasionale denuncia pubblica, che dopo due giorni spariva dai giornali, derubricata nell’archivio strapieno, alla voce “malasanità”.
Adesso tra Bergamo e Brescia si sta decidendo a chi dare priorità nelle terapie salvavita. A Sud non c’era bisogno del virus: funzionava più o meno così, nei luridi pronto soccorso trasformati in depositi di fine vita. Abbiamo ballato al ritmo dell’euro-riformismo per vent’anni – ideologia e tagli feroci – e adesso piangiamo sull’austerity versata. Non autosufficienza e invecchiamento: quando la buriana sarà passata, ci ricorderemo che non sono temi a margine? Ci torneranno in mente le file delle bare solitarie caricate dai mezzi militari – i vecchi che spariscono, letteralmente, dai reparti e ricompaiono in forma di urna funeraria? Le bare, Cristo Santo. Almeno quelle le capiamo? Sono un linguaggio esplicito, le bare: 180×50 cm, la misura della verità. Ci ricorderemo, quando qualche illuminato maestrino della Bocconi verrà a dirci che “ce lo chiede l’Europa”? Saremo pronti a reagire, onorando la memoria dei nostri morti?
A proposito di ideologie introiettate: questa estrema, totale, requisizione delle nostre libertà da parte dell’esecutivo – al di là che possa essere ritenuta necessaria in questa fase o meno – quali effetti avrà sulla psicologia di massa? E’ la prima volta, dal 1945, che in questo paese si confinano i cittadini dentro le mura di casa senza una realistica previsione di cessazione della misura. Come ne usciranno gli italiani medi, già immunodepressi sul piano dell’autonomia di pensiero, privati già da tempo di strumenti di lettura o critica che vadano al di là del mugugno anti-casta o anti-negri? Sembrerà normale e acquisito il circuito shock sociale/comando verticale – l’esautorazione di ogni margine non solo di opposizione, ma anche di semplice discussione? L’idea nefasta della “compagine nazionale” potrà essere ritirata fuori dal cassetto ad ogni passaggio di svolta – non solo epidemiologico -, come una specie di bandierina, di retaggio, di orgoglio della “resilienza italiana” che canta dai balconi e invoca i militari nelle strade?
Non preoccupa tanto la propensione autoritaria delle istituzioni – che ormai è un automatismo biopolitico – quanto il pericolo che essa possa trasformarsi, tra la gente, in senso comune, ineluttabilità e indiscutibilità di questi meccanismi. I check point, le ordinanze minacciose, la tracciabilità digitale delle nostre vite: tutte cose già da tempo nella disponibilità degli Stati, ma che adesso rischiano di non aver più bisogno di alcun alibi emergenziale.
Il virus impecorisce o risveglia le coscienze? Certo è che siamo in una congiuntura astrale speciale. Gli imprenditori privati, che per vent’anni avevano rivendicato il primato morale e la guida di fatto del paese, si stanno rivelando meschini bottegai pronti a barattare salute e fatturati; il Presidente del Consiglio è uno scappato di casa, che si trova lì senza sapere bene perché; l’opposizione è clownesca; la Protezione civile assume compiti di governo abnormi e inadeguati. Insomma: non c’è più la borghesia, la classe dirigente che forma le élite del paese e lo dirige. Puff. Estinta. Sparita. La nuova autorità morale è fatta di paramedici che indossano come protezione sanitaria i sacchetti della spazzatura, le infermiere che piangono impotenti i pazienti morti, i medici di famiglia che non sanno che pesci prendere, i facchini e i trasportatori della logistica che alimentano le reti distributive, i lavoratori dei settori di pubblica utilità. I fanti straccioni, insomma – mentre generali e approfittatori di guerra aspettano che passi. A molti verrà il dubbio che tutto sommato, anche “dopo” potremmo fare a meno di loro: capitani d’industria, manager, economisti, euroburocrati, consulenti del nulla.
Nel notte fatale tra il 20 e il 21 marzo, il Governo ha appurato che l’immunità operaia non esiste – né di gregge né individuale. E ha chiuso tutte le attività “non essenziali”, formula che lascia ampi margini di trattativa a squali manageriali di ogni risma. Al momento in cui scriviamo è già aperto il suk sottogovernativo, quello dei protocolli e degli applicativi, dove mezze seghe pseudoimprenditoriali e mezze seghe pseudopolitiche, confrontano le loro mediocrità, patteggiando la soglia della sopravvivenza dei dipendenti o delle aziende. Una trattativa levantina sulle proroghe e le deroghe di ogni genere, guidata dagli ascari di Confindustria. Ricavi, profitti, fette di mercato: se fossero sul Titanic, morirebbero con la calcolatrice in mano.
L’essenzialità produttiva e merceologica è una tale catena di sant’Antonio, che alla fin fine anche Gucci potrebbe rivendicarla (sembra una barzelletta, ma pare stiano riconvertendo a camici ospedalieri parte della produzione. Infermieri con poche protezioni e scarse gratifiche: ma elegantissimi). Gli operai italiani hanno manifestato in queste settimane una sana estraneità alle ragioni della produzione. Lo spettacolo delle multe agli innocui frequentatori di parchi, mentre metropolitane e stabilimenti si riempivano di salariati ogni mattina, aveva provocato sdegno e rabbia sacrosanta, dentro i perimetri aziendali.
Si è scioperato per la salute ma anche per strappare la cortina ipocrita dell’iostoacasa, mentre si impediva alla gente proprio il diritto di starsene a casa. Scioperi che hanno incalzato le timidezze dei confederali, sempre propensi a interpretare un ruolo nello spettacolo dell’union sacrée, modesta particina in cui si sono tristemente specializzati. Ma non in tutti i lavoratori è scattato il normale riflesso autoconservativo. C’è anche “l’insana” fetta degli irriducibili – non solo i fidelizzati, o i terrorizzati: ci sono anche quelli che vogliono continuare a lavorare perché quello è ormai l’unico residuo aggancio che hanno rispetto alla loro idea di normalità. Il lavoro come vera casa, come habitat naturale: una vita deprivata dai ritmi del lavoro come indegna di essere vissuta. Una psicosi, insomma. Un po’ come quella dei maniaci che fotografavano i runner dalla loro finestra e mettevano le foto in rete per esporli al ludibrio che meritano gli untori. Il virus è anche un formidabile rivelatore di malattie mentali che la normalità occulta.
Quel filo di fumo non costituiva un richiamo quasi per nessuno. Tutti voltavano la testa imbarazzati. La città sapeva, che stava succedendo qualcosa, là, a Modena, dalle parti di Sant’Anna, al carcere. Le voci cominciavano a girare, nei notiziari locali on line. Davanti ai cancelli solo qualche attivista solitario e impotente – e i parenti, disperati, e torme di divise che entravano e uscivano. Eppure lo vedevamo tutti, dai quattro angoli della città, il fumo di guerra. Quando sono arrivato lì davanti, ho sentito un operatore di polizia che spiegava con disinvoltura ad un avvocatessa: hanno avvisato tutti gli avvocati dei morti, se a te non ti ha chiamato nessuno, vuol dire che i tuoi sono ancora vivi. Qualche passo più in là un’anziana signora tunisina, velata di turchino, singhiozzava con le mani in faccia appoggiata ad una macchina. Tre ragazzoni intorno a lei l’abbracciavano e se la baciavano, come si deve fare con le vecchie madri: hamdullillah, le dicevano per consolarla, ringraziamo Dio. Nostro fratello non è nell’elenco dei morti. E’ solo scomparso, non si trova: è asserragliato, è deportato, chissà dove, chissà in che condizioni…
Fioriscono le analisi, alcune assai interessanti pubblicate anche da Carmilla, circa le conseguenze globali del virus. In che direzione spingerà, questa formidabile accelerazione della storia? Come si ridisegneranno le gerarchie mondiali, nella divisione internazionale del comando, del lavoro, delle risorse, dei mercati? E’ noto che le grandi epidemie, spesso hanno accompagnato massicci mutamenti degli scenari geopolitici – i rapporti tra città e campagna, lo sviluppo delle forze produttive, della scienza, della tecnica: i virus come araldi della krisis, di uno stadio ulteriore della modernità. Una lettura che diffida di ogni crollismo, di ogni catastrofismo fine a se stesso.
Le tendenze in atto sono contraddittorie: le screditatissime élite occidentali, si rilegittimeranno grazie al senso di protezione che i sudditi umanamente coltivano davanti al Male? O ci sarà il collasso finale degli assetti politici, già così precari, dei vecchi epicentri imperialisti – Washington, Londra, Bruxelles? E l’Iran, la Turchia, l’asse dei paesi intermedi – soprattutto quelli che gli Usa odiano – riuscirà a reggere le grandi onde telluriche in atto, tra sanzioni, profughi, crollo dei prezzi del petrolio? E l’epidemia, può essere paragonata ad una guerra, con i suoi ben noti effetti catartici sul ciclo economico? Può essere che questo contesto così distruttivo di ricchezza, possa determinare una nuova fase di ri-accumulazione, che contrasti almeno per un po’ la tendenza alla depressione che da mesi segnava le economie capitalistiche mondiali? Qualcuno si chiede se stiano cambiando i paradigmi, le categorie, le strutture di pensiero, dopo un quarto di secolo di egemonia liberale. Ma quello non è un problema. Il liberismo è sempre stato una religione del pragmatismo. Le ortodossie vanno bene per l’accademia, mica nella vita. Gli economisti sono al servizio di chi paga. E i padroni già invocano l’economia di guerra, l’eccezionalismo, il cambio di passo – precisando però che “niente nuova Iri”, lo Stato dovrà metterci i soldi, le commesse, gli appalti, gli esoneri fiscali, gli iperammortamenti, il finanziamento alle grandi opere, mica pensare di cambiare spartito. Assisteremo alle pantomime del 2008, quando i boss dell’industria e della finanza americana andavano a Washington col capo cosparso di cenere – oh, quanti paradigmi da cambiare! – per ritrovarsi l’anno dopo più arroganti e famelici di prima.
Intanto gli animali selvatici si stanno riavvicinando ai centri urbani, silenziosi e salubri come non mai. Volpi, lepri, germani reali e fagiani: il microscopico virus sta generosamente aprendo loro le porte delle città, mentre gli abitanti sono costretti a barricarsi in casa. Ci ricorda che non siamo soli sul pianeta, con le nostre malattie, le nostre ipocondrie, il nostro ventaglio di abitudini sguaiate: c’è un mondo che si muove intorno a noi, spesso invisibile – almeno per chi non vuol vedere.
Milioni di persone stanno ignorando il corona virus, semplicemente perché per loro è normale e naturale vedere un bimbo morire di diarrea o chiamare “vecchio” un cinquantenne: una massa enorme di uomini e donne che vive negli infiniti slums del mondo e che convive con ogni genere di virus – e di morte – senza vie d’uscita. Un popolo senza acqua, senza fogne, dall’alimentazione scarsa, dal sistema immunitario fisiologicamente compromesso fin dalla nascita. La vita e la morte di quelli che non hanno paura del coronavirus, che adesso ci vedono annaspare terrorizzati e magari non capiscono, o pensano che finalmente c’è un po’ di giustizia virale, in questo mondo.
Domenica 8 marzo 2020. Nove cani crepano in seguito alla rivolta nel canile di Sant’Anna, in Modena. Non verrà il Gabibbo, a indagare su quelle morti: erano cani cattivi, idrofobi, accusati di reati contro il patrimonio. Assurdi coltivatori di dipendenze. Morti come si muore nei canili, tra guaiti soffocati e anonimato. Nessuno sa come è cominciata la rivolta, nessuno sa bene quando è finita. Un balletto di versioni contrastanti e fatti occultati per giorni, una censura di Stato degna del Guatemala, del Salvador. La stampa locale, il Garante dei detenuti, le autorità, gli amministratori, tutti allineati e coperti, hanno dedicato poche parole distratte a questo inaudito eccidio modenese – il primo dopo quello delle Fonderie del 9 gennaio 1950.
Rendiamo almeno l’onore del nome a questi cani ribelli e sfortunati: Hafedh Choukane, 36 anni; Slim Agrebi, 40 anni; Ali Bakili, 52 anni; Lofti Ben Masmia, 40 anni; Erial Ahmadi, 37 anni; Salvatore Cuono Piscitelli, 40 anni; Ghazi Hadidi, 36 anni; Abdellah Rouan, 34 anni (fonte Antigone – e ne manca pure uno). Quattro sono morti in viaggio, li avevano caricati mezzi morti sui furgoni per portarli presso altri penitenziari – capita nel trasporto animali. Per loro non c’è stata nessuna mobilitazione della società civile, nessuna indignazione, nessun dibattito si è aperto: il sindaco ha mandato persino una squadra di imbianchini a coprire celermente qualche scritta solidale comparsa sui muri della città, tanto per calibrare le emergenze… Meglio, così ci risparmieranno in futuro le retoriche sul carcere “casa di vetro”, le irriducibili bugie liberali sul carcere “specchio di una società democratica”. Tutte chiacchiere. Non frega un cazzo a nessuno, di quelli là dentro.
A Sant’Anna non è successo niente, poco più di un incidente, questa è la parola d’ordine. Ricostruiranno il canile – distrutto dalla torma degli ingrati rivoltosi – più funzionale e sicuro di prima. Avevano intuito, le autorità, che con l’avanzare del virus la rivolta di Modena sarebbe semplicemente scomparsa dalle cronache, dalla labile memoria di una città attonita – bastava tenere duro e tacere per qualche giorno in più. Non ci sarà nessun comitato di controinchiesta, a bilanciare le versioni ufficiali. Ci fideremo dei PM e archivieremo alla svelta questa pratica incresciosa. Guai ai vinti. Ai perdenti. Saranno cancellati. E così siamo morti da emarginati, da antichi clandestini della storia – recitava il canto dolente di Domenico Rea nel 1980, contemplando la morte umile e dimessa dei cafoni, durante il terremoto d’Irpinia. Nessun poeta canterà invece la morte di Hafedh o Salvatore, nessuna Spoon River racconterà i loro giorni contorti – e poi cosa scriveresti sulle lapidi a beneficio del poeta: epidemia di overdose? Clandestini tra i clandestini, cani selvatici in mezzo ai cittadini civili. Il fumo nero è andato avanti per due giorni.
Restiamo umani, scriveva Vittorio Arrigoni. L’altro giorno, allineati davanti al Conad, una fila disciplinata di gente di mezza età (tra cui io). Tutti muniti di mascherina, più o meno a norma, tranne un signore sulla sessantina, dall’aria preoccupata, gli occhi sgranati, che esibiva sul muso un fazzoletto da bandito-cowboy, annodato alla nuca. Si vede che non aveva trovato di meglio. Uno della fila, allora, si è avvicinato e gli ha passato una mascherina: – tieni, ne ho una in più, nuova. L’altro l’ha presa riluttante, insisteva per pagarla, ma non c’è stato verso – era un regalo e l’ha accettato; se l’è infilata visibilmente soddisfatto e ha detto al donatore ad alta voce: ti auguro tanta salute! – così con semplicità – e si vedeva che era sincero. Un augurio bellissimo. Poche parole. Forse voleva solo dire: abbiamo i capelli bianchi, ne abbiamo viste, passerà anche questa, cazzo, e ci ritroveremo al bar o giù in polisportiva. Ti auguro tanta salute.
di Giovanni Iozzoli