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Abbiamo nei giorni scorsi ricevuto dalla Grecia alcune domande sulla situazione italiana e sulle riflessioni che si stanno facendo sulla crisi sanitaria in corso e proviamo a rispondere.
8 aprile 2020
QUESTION NUMBER 1:
Nel momento in cui il mondo intero si trova dinanzi ad una crisi sanitaria dovuta alla pandemia e con misure restrittive mai finora applicate in tempi di “pace”, l’Italia ed in particolare la Lombardia risulta come uno dei paesi e delle regioni piu’ duramente colpite dal virus Covid-19. Secondo voi, esistono motivi particolari per il fatto che l’ Italia ed in particolare la Lombardia detiene il triste primato in Europa per quanto riguarda la lista nera dei casi accertati e dei morti da questa pandemia? Potete riferire qualcosa riguardante lo stato d’ emergenza, le misure restrittive, le ripercussioni nella realtà sociale e la vita quotidiana del paese e della vostra città, durante questo ultimo mese?
Intorno al 20 febbraio si scopre il primo caso di coronavirus a Codogno (comune in provincia di Lodi), il 22 febbraio si contavano già 220 contagi in Lombardia e sebbene venisse delimitata e chiusa la prima zona rossa del lodigiano, politici e governatori dichiaravano che le città non si sarebbero fermate, noto a Milano è l’aperitivo sui navigli con il sindaco Sala e il segretario del partito democratico Zingaretti, accompagnato dallo slogan: “Milano non si ferma”. In pochi giorni hanno dovuto rimangiarsi ogni parola.
Oggi 6 aprile i contagi in Italia sono arrivati a 132.547, di questi il 40% in Lombardia, i decessi a 16.523 di cui il 50% in Lombardia. Dati diffusi quotidianamente dalla protezione civile, numeri che impressionano e che giorno dopo giorno hanno prodotto una serie di provvedimenti restrittivi che hanno da subito reso inaccessibile ogni spazio di socialità, di formazione e ogni luogo ricreativo o culturale. Misure che hanno sospeso la libertà di movimento delle persone, hanno vietato manifestazioni pubbliche ed assembramenti, scioperi e diffuso una capillare militarizzazione del territorio.
Questi provvedimenti sono stati accompagnati da veri e propri bombardamenti mediatici, diffusione del panico, criminalizzazione di chi esce da casa “senza giustificato motivo”, inasprimento delle sanzioni per chi non segue le direttive del Governo; il tutto condito da una retorica patriottica che vorrebbe farci sentire tutti uniti e responsabili nel combattere questa epidemia.
Di fronte alle immagini dei reparti di terapia intensiva degli ospedali congestionati dall’ingresso quotidiano di malati gravi, dalla carenza di personale e dalla mancanza di strutture adeguate, non c’è stata alcuna ammissione di responsabilità da parte del governo e di tutti i governi che hanno portato avanti le politiche sanitarie in questi ultimi decenni favorendo la sanità privata e tagliando ingenti fondi (37 miliardi dal 2010) a quella pubblica. Sono stati chiusi 759 reparti ospedalieri, tagliati 40.000 posti letto negli ultimi 15 anni e chiusi 115 ospedali tra il 2010 e il 2017. L’epidemia ha trovato quindi una sanità già allo stremo e in emergenza da anni. La sanità pubblica In mano alle Regioni, con gli ingenti finanziamenti da amministrare ha favorito la corruzione e la sanità privata dove in Lombardia è arrivata ad assorbire il 40% della spesa sanitaria e che si è rivelata totalmente assente in questa emergenza, perché come qualsiasi azienda privata investe per fare profitti e preferisce non avere i pronti soccorsi, dipartimenti d’emergenza, rianimazioni perché si guadagna poco.
In Lombardia dagli anni 90 ad oggi sono stati tagliati quasi il 50% di posti letto nel servizio sanitario pubblico. In una sistema sotto finanziato un’emergenza come quella che stiamo vivendo ha messo in crisi l’intero sistema.
Mentre gli operatori sanitari vengono ora osannati, applauditi e considerati i nuovi eroi da uno Stato che fedele al modello neoliberista ha sempre più scaricato i costi sociali sulla collettività, la percentuale dei contagiati tra loro sale e oggi si attesta intorno al 10/11%, in alcune residenze per anziani arriviamo al 20%, anche i decessi (87 ad oggi) sono in continua crescita e mentre si costruiscono ospedali d’emergenza, il personale sanitario è ancora privo di dispositivi di sicurezza individuali, mascherine, guanti e tute di protezione e dato ancora più grave, non vengono sottoposti ai tamponi, mettendo così a rischio la loro salute e quella delle persone che vivono con loro .
Altro dato particolare della Lombardia e dell’Italia in generale è l’alto numero di persone over 65 e il basso indice di natalità, in un sistema sanitario sempre più centralizzato, molti anziani sono deceduti nelle loro case o nelle residenze per anziani, spesso privati da qualsiasi tipo di assistenza e cura, dovuta anche questa al taglio di presidi medici territoriali. Così come le persone maggiormente fragili per patologie pregresse si sono infettate e hanno perso la vita proprio negli ospedali diventati veri e propri focolai di Covid 19. E le patologie che nella nostra regione sono sempre più diffuse sono proprio quelle respiratorie, scientificamente accertate e spiegate come conseguenza dell’alto livello di inquinamento, contro cui però la logica del profitto non si piega.
Mentre si diffondeva questo clima di allarmismo e coercizione, molte aziende rimanevano però aperte e molte di queste sono appunto concentrate nelle aree cosiddette “rosse”, Brescia e Bergamo epicentro dell’epidemia, dove si contano la metà dei contagi in Lombardia. Lo spostamento di migliaia di lavoratori e la mancanza di dispositivi di sicurezza per la loro protezione, hanno fortemente inciso sulle cause della rapida diffusione del contagio in queste aree. E non solo in Lombardia, considerando che nel Piemonte e nell’Emilia Romagna, anch’esse aree altamente produttive, i contagi non accennano a diminuire.
Una quarantena preventiva che vale per tutti, ma non per i milioni di lavoratori dipendenti obbligati ogni giorno dai padroni a stare 8, 10, 12 ore ammassati a centinaia in fabbriche, magazzini, cantieri e negozi, senza alcuna tutela e senza la possibilità di vedersi garantite le misure minime di salvaguardia dai contagi.
L’ultimo decreto del Presidente del consiglio Conte che avrebbe dovuto sancire la chiusura di tutte le attività produttive non necessarie, sotto pressione di Confindustria, ha lasciato ampi margine di manovra ad aziende nei settori chimico, tessile e manifatturiero… affinché proseguano le loro attività, pur non necessarie in questa fase, mediante autocertificazioni che non verranno mai verificate così come nessuna sanzione verrà fatta alle aziende che non rispettano le norme di sicurezza per i lavoratori. Solo a Bergamo 1800 aziende hanno già chiesto deroghe al decreto, a Brescia ad oggi 2980. E non si ferma l’industria bellica dove a Cameri in provincia di Novara continuano ad essere assemblati e prodotti i cacciabombardieri F35 e per assicurare questa produzione centinaia di lavoratori rischiano di ammalarsi; o alla RWM di Domusnovas in Sardegna che non si arresta il programma di espansione dello stabilimento per poter raddoppiare la produzione di ordigni bellici (bombe di aereo della serie MK ed esplosivo PBX) come se niente stesse accadendo.
Le ripercussioni nella vita sociale in un contesto di profonda crisi economica, cominciano ad essere pesanti e vissute in una sorta di silenzioso isolamento. Le famiglie si ritrovano ad avere un carico maggiore di lavoro perché mentre lavorano o non possono lavorare e produrre reddito, devono occuparsi dei figli, seguirli nella loro didattica, seguire code interminabili per fare la spesa, proteggere gli anziani rinunciando all’aiuto delle badanti, vivere tensioni che se prima venivano stemperate dalle ore passate fuori casa ora vengono compresse in spazi angusti e sovraffollati. Poi ci sono le persone sole, tagliate fuori da ogni relazione affettiva e relazionale, rese fragili da un clima di paura e solitudine. I bambini, di cui non si parla e i cui effetti di questa situazione forse li capiremo solo più avanti. La sensazione diffusa è quella di vivere una dimensione sospesa, dove trova spazio la solidarietà ma anche la paura dell’altro, la speranza che tutto questo finisca e la consapevolezza che la crisi economica sarà devastante. In particolare nelle regioni del sud dove il processo di impoverimento sta già riguardando milioni di donne e uomini che lavorano in nero e il cui reddito si basa su entrate giornaliere e dove la disoccupazione era già intorno al 40%.
L’impronta classista e discriminante è evidente in ogni scelta che il Governo sta portando avanti, impone condizioni che non sono praticabili per una fetta ampia della popolazione, dalla didattica a distanza dove una buona parte di studenti è priva dei dispositivi necessari per seguire le lezioni o dove in alcune aree manca la rete che supporti questa modalità, dallo “stare a casa” per famiglie che una casa non ce l’hanno o rischiano di perderla a breve, dall’impossibilità per molte categorie di lavoratori di accedere agli ammortizzatori sociali, e sono solo alcuni esempi.
Nonostante questo clima di apparente e silente paralisi, le forme di resistenza sul piano politico, sociale e culturale in realtà crescono di giorno in giorno. Dalle assemblee dei lavoratori che non sono disposti ad essere sacrificati in nome del profitto, dagli appelli sul diritto alla casa per organizzare lo sciopero degli affitti, dalle rivendicazioni del personale sanitario ancor più stremato da questa emergenza sanitaria al tentativo di categorie e soggetti prima invisibili di mobilitarsi, auto organizzarsi e rivendicare condizioni lavorative migliori. Forme di resistenza che si sono espresse anche all’interno delle carceri, attraverso differenti forme di rivolta, conclusesi anche con diverse morti tra i detenuti, che rivendicavano dignità e diritto alla salvaguardia della salute e la necessità di un indulto ed amnistia.
Nascono le brigate volontarie per l’emergenza dislocate in tutte le zone di Milano che supportano le persone sole o in difficoltà nel gestire quotidianamente le loro necessità, aumentano le collette alimentari e i gesti individuali e collettivi di solidarietà. Nonostante le reali ed evidenti difficoltà a spostarsi e vedersi, si cerca di proseguire il lavoro, si stanno sperimentando modi diversi per incontrarsi, discutere, elaborare, riflettere e socializzare materiali e proposte.
Panetteria Occupata – Milano, 8 aprile 2020
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13 aprile 2020
Rispondiamo alla seconda delle questioni che abbiamo ricevuto dalla Grecia questa in particolare sull’economia di guerra:
QUESTION NUMBER 2:
Questa pandemia -scoppiata dopo più di dieci anni di crisi capitalistica duratura e di politiche di massacro sociale/di classe- ha fatto venire a galla, in particolare per i sistemi sanitari nazionali e i loro lavoratori-lavoratrici, tutte le conseguenze sociali devastanti del “capitalismo privato” degli ultimi quarant’ anni di egemonia della “globalizzazione neoliberista” e dei dogmi dei “liberi” mercati internazionali. Ora, con il mondo intero sotto assedio, con aeroporti chiusi e le frontiere serrate, con la produzione quasi bloccata e i centri commerciali evacuati, presidenti e primi ministri, banchieri e amministratori delegati, finanzieri ed azionisti “sembrano come rileggere Keynes scoprendo l’“innocenza” dello stato-nazione-imprenditore. Per ora, tutte le contradizioni, gli interessi e le strategie diversificate degli stati membri dell’ Unione Europea hanno fatto vedere in modo chiaro il fatto che l’Εuropa -infatti- non è la casa dei popoli. Le immagini con gli aiuti arrivati dalla Cina e dei blocchi di arrivo di materiale sanitario dalla Germania hanno creato un certo imbarazzo a tutti quelli/e che sventolavano da anni la bandiera di un europeismo “di democrazia, solidarietà e rispetto dei diritti umani”. Dall’altra parte, sempre più’ spesso analisti ed propagandisti di regime ci ricordano che il mondo si trova in una fase di economia di guerra e l’ unica certezza è quella che dice “niente sarà come prima”. Che ne pensate?
Ad ogni modo, qualunque sia l’origine del Covid 19, l’aspetto più sconvolgente è il linguaggio da tempo di guerra che è diventato subito virale nei mass media di regime. Espressioni da caserma come “siamo in prima linea sul fronte” o “omaggio agli eroi di guerra” sono state ripetute all’infinito, insieme al ritorno di una retorica patriottarda fuori tempo e agli inni nazionali sui balconi, anche questi durati poco, di fronte al precipitare della situazione sanitaria. Le strade deserte hanno reso l’idea di una situazione di coprifuoco che, fino ad un certo punto, ha finito per oscurare i termini scientifici dell’evoluzione della pandemia e delle possibili soluzioni di prevenzione e terapia. Non si tratta qui di mettere in discussione alcune misure necessarie messe in campo, come l’uso di mascherine, la quarantena, il distanziamento fra le persone, la chiusura dei locali pubblici e la limitazione delle relazioni sociali quanto l’inserimento di queste misure entro una cornice che richiama la simulazione di una situazione di guerra.
Anche se poi, alla fine, i dati reali sulla pandemia, sul suo andamento ciclico costituito da una fase ascendente, un plateau e una fase discendente per una durata complessiva di circa tre mesi, sulle misure di prevenzione mediante un uso generalizzato dei tamponi, sulle possibili terapie, sul vaccino specifico, sul potenziamento della medicina del territorio, sulla necessità di finanziare adeguatamente gli ospedali pubblici e la ricerca in campo sanitario hanno finito per prendere il sopravvento.
Per arrivare ora agli aspetti economici della vicenda coronavirus, alcuni fenomeni possono far ritornare alla mente situazioni tipiche di una economia di guerra. Per esempio la riconversione industriale in alcune fabbriche per la produzione di merci non più reperibili sul mercato nazionale, come le mascherine o i respiratori, ma si tratta, in questo caso, di fenomeni molto limitati, mentre la produzione di armi (quelle vere) è tranquillamente continuata, anche nell’emergenza, come per gli F35 alla Leonardo di Cameri. Niente di paragonabile con l’autarchia dei tempi di guerra naturalmente, caso mai si tratta oggi della interruzione di filiere produttive multinazionali, risultato della divisione internazionale del lavoro capitalistica affermatasi negli ultimi decenni, impropriamente definita “globalizzazione”, e da cui è difficile, o improbabile ritornare a una economia nazionale auto centrata.
Adesso è comparso un altro fenomeno tipico dell’ “economia di guerra”: la speculazione sui generi di prima necessità. Il prezzo della farina di grano duro (quello per la pasta) è raddoppiato, mentre il prezzo dello stesso grano duro è aumentato di un solo euro, passando da 25 a 26 euro al quintale (un 4% scarso). A quando l’inizio del mercato nero?
Un altro fenomeno che può richiamare una economia di guerra è la limitazione, certo notevole anche se limitata nel tempo, dei consumi interni, fatta eccezione per il settore alimentare e farmaceutico. Tutto ciò comporta naturalmente un aumento del risparmio privato, che diviene perciò obiettivo privilegiato sia dei fondi di investimento che delle emissioni dei titoli di stato. Certo non siamo ancora ai crediti di guerra obbligatori o alla raccolta di oro per la patria, anche perché il mercato finanziario è diventato così automatico, veloce e ramificato da rendere estremamente difficile una sua regolamentazione da parte di una qualsiasi autorità nazionale. Qualche probabilità in più avrebbero gli eurobond, ammesso che questa entità sfuggente chiamata Unione Europea, o, per meglio dire, la sua Banca Centrale riuscisse a trovare una mediazione ragionevole fra i vari appetiti nazionali. Il tutto si tradurrà comunque in una crescita esponenziale dell’indebitamento, sia pubblico che privato. Ma i debiti alla fine vanno comunque ripagati.
Nella vicenda dell’emergenza da Covid 19 hanno riacquistato visibilità alcune variegate tendenze autodefinitesi “di sinistra” che riprendono le teorie keynesiane per l’uscita dalla crisi capitalistica: un neokeynesismo di ritorno. Le politiche keynesiane furono applicate negli Stati Uniti durante la grande depressione degli anni 30, con le riforme introdotte da Roosevelt, e in altri stati capitalistici europei con altre forme e modi. Esse consistono sostanzialmente in un intervento massiccio dello stato nell’economia al fine di creare una domanda aggiuntiva, attraverso imponenti opere pubbliche, e riassorbire così anche la dilagante disoccupazione. Naturalmente queste misure operano un tamponamento sociale degli effetti della crisi, nella prospettiva di una ripresa dei profitti capitalistici che può avvenire attraverso la concentrazione dei capitali e la riduzione dei salari operai. L’efficacia di queste politiche non è comunque sicura, tanto è vero che dopo un breve periodo di parziale ripresa esse sfociarono in un “keynesismo di guerra”, quando, durante la seconda guerra mondiale, quasi tutta la produzione era comprata dallo stato, dai carri armati ai bottoni delle divise.
Nel secondo dopoguerra, durante la trentennale golden age capitalistica, in cui comunque il debito pubblico era sceso ai minimi storici, le politiche keynesiane si identificarono in alcuni paesi dell’Europa occidentale, fra cui l’Italia, in un sistema di “economia mista”, stato/privato, e nel welfare state, ovverosia nella gestione da parte dello stato di una parte consistente del salario operaio, indiretto o sociale, a fronte del versamento nelle casse statali di ingenti contributi sociali da parte dei lavoratori dipendenti o, per loro conto, dai datori di lavoro. Questo sistema è stato comunque ridotto al minimo, o quasi smantellato, sotto i colpi della crisi iniziata negli anni 70, a forza di privatizzazioni e di delocalizzazioni industriali in paesi a basso costo del lavoro. Dunque le tendenze neokeynesiane, che presentano però una pericolosa convergenza con le tendenze “sovraniste di destra”, condividono con queste ultime un alto tasso di improbabilità, vista la predominanza assunta negli ultimi decenni dalle grandi multinazionali “senza patria” e dal capitalismo finanziario internazionale sugli stati nazionali.
Inoltre sembra, come sostiene Paul Mattick in un suo articolo del 1940, che anche la guerra abbia perso la sua capacità di risoluzione della crisi capitalistica. Dice Mattick: “Nell’andamento ciclico del modo di produzione capitalistico una rapida accumulazione di capitale porta di conseguenza alla depressione e alla crisi, mentre il meccanismo stesso di risoluzione della crisi porta a una nuova fase di accumulazione e sviluppo. In maniera direttamente conseguente un periodo di pace capitalistica porta alla guerra, e la guerra riapre a un nuovo periodo di pace. Ma cosa succede se la depressione economica diviene permanente? Anche la guerra seguirà lo stesso andamento e quindi la guerra permanente è figlia della depressione economica permanente.” Mattick porta poi alle estreme conseguenze la sua analisi quando afferma: “Oggigiorno, si tratta solo di vedere se, nella misura in cui la depressione non sembra più poter ricostituire le basi di una nuova prosperità, la guerra stessa non abbia perduto la sua funzione classica di distruzione-ricostruzione indispensabile per innescare un processo di rapida accumulazione capitalistica e di pacifica prosperità postbellica”. Ora la guerra permanente si è svolta finora in aree capitalistiche semiperiferiche, come il Medio Oriente, l’Africa o l’Afghanistan, con l’eccezione del conflitto alle porte dell’Europa in Donbass/Ucraina, per cui sorge il sospetto che la pandemia da coronavirus possa costituire un surrogato della guerra permanente che coinvolge invece i paesi capitalisticamente sviluppati. Un surrogato che è contemporaneamente troppo e troppo poco: troppo per i sacrifici sociali che comporta e troppo poco per risolvere la crisi capitalistica. Alla fine di questa storia non ci sarà una ripresa economica, ma neanche un crollo del capitalismo ma, probabilmente una accelerazione dei processi di crisi già in corso.
Panetteria Occupata – Milano 11 aprile 2020
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FONTE:
https://panetteriaoccupata.noblogs.org/post/2020/04/08/question-number-1/
https://panetteriaoccupata.noblogs.org/post/2020/04/13/question-number-2/