Il Maghreb alla prova del Coronavirus

Come tre paesi del Maghreb (Marocco, Algeria e Tunisia) affrontano l’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del Covid-19.

L’articolo è stato scritto da Rachida El Azzouzi e Lilia Blaise, pubblicato sul giornale online francese di informazione indipendente “Mediapart” il 20 marzo con il titolo originale: “Il Maghreb si barrica per non diventare un nuovo Wuhan”. Traduzione di Giacomo Marchetti.

Lo stress pandemico sarà un banco di prova per le leadership politiche dei tre Paesi, e per i tre sistema-paese in generale, a partire dalla capacità dei rispettivi apparati sanitari di far fronte alle necessità di cura dei pazienti che, come emerge dalle testimonianze del personale sanitario intervistato, rischiano di essere abbondantemente insufficienti.

Tutti i tre i Paesi, in particolare il Marocco, non hanno proceduto a test di massa sulla propria popolazione così che i dati ufficiali del  contagio non costituiscono un campione adeguato per definirne l’ampiezza e prefigurare gli scenari futuri.

Smaïl Mesbah, intervistato dalla rete radiofonica francofona algerina “Chaine III” e membro del comitato scientifico incaricato della lotta contro il coronavirus in Algeria, afferma che: «nessuno può prevedere quando ci sarà un picco» nel suo Paese.

I dati ufficiali per l’Algeria riportavano 264 contagi e 19 decessi martedì 24 marzo, con due morti in più rispetto al giorno precedente e 34 casi confermati in più.

Le misure di contenimento del virus, che hanno portato tra l’altro alla decisione del confinamento totale della regione di Blida, uno dei focolai, hanno fatto sì che dopo più di un anno consecutivo di mobilitazioni lo scorso venerdì – sarebbe stato il 57simo di fila – gli algerini non siano scesi in strada ed in pizza, ma hanno deciso comunque di dare continuità all’hirak in maniera alternativa.

L’incertezza è la cifra che attraversa questo momento il Paese, considerato il fatto che gli idrocarburi, in particolare il petrolio – la maggiore ricchezza da cui il paese è strettamente dipendente –  è ai minimi storici, quotato a meno di 30 dollari al barile, minandone la già fragile economia.

Come ha scritto nel suo editoriale di mercoledì 25 marzo il quotidiano algerino di lingua francese “El Watan”: «è nella durata di questa prova che gli algerini dovranno mostrare una più grande capacità di resilienza e di solidarietà come l’hanno fatto in passato di fronte al terrorismo». Il riferimento è al “decennio nero” degli anni Novanta, in cui una sanguinosa guerra civile ha contrapposto la guerriglia jihadista allo Stato, mietendo numerosissime vittime civili ed isolandolo di fatto dal resto del mondo.

Una buona notizia giunge – come per molti altri Paesi che affrontano l’emergenza sanitaria – dalla Cina, come riporta una fonte del giornale online francese sull’Algeria “TSA”.

1 milione di maschere, 50 mila kit per effettuare il test, respiratori artificiali, guanti ed altro materiale, arriveranno dalla Repubblica Popolare in due tranche, probabilmente il 27 e il 29 marzo. Seguiranno l’invio di équipe di medici e scambi in video/conferenza cino-algerini. Oltre a questi doni sono state autorizzate le esportazioni di materiali necessari all’emergenza dalla Cina.

I due paesi hanno uno storico legame che data dal periodo della lotta di liberazione (1958-1962). In Algeria vive la più grande comunità cinese nel Maghreb ed è uno dei paesi dell’area in cui la partnership economica è stata più fiorente, rendendolo tra l’altro uno “snodo chiave” per la strategia della “Nuova Via della Seta”. Non è peregrino pensare che quello cinese, visto il fermo dell’economia-mondo, possa diventare uno dei maggiori sbocchi per il mercato degli idrocarburi algerini in futuro.

La Cina aiuterà anche il Regno del Marocco, come hanno confermano differenti fonti, tra cui l’agenzia stampa cinese “Xinhua”, parlando dei rapporti tra i rispettivi Ministri degli affari esteri – Yang Yi e Nasser Bourita – in seguito all’interessamento cinese sulla situazione marocchina.

Il Paese – che il 24 marzo aveva 170 casi accertati – ha recentemente dichiarato lo “stato d’emergenza sanitario” e le relative misure con una procedura d’urgenza che ha bypassato la lettura congiunta delle camere per l’approvazione della legge 2/20/292. Inoltre ha predisposto l’impiego delle Forze Armate Reali (FAR) per far fronte all’emergenza, nonché attivato un fondo di donazioni ad hoc che ha raggiunto i 23,5 miliardi di Dirhams (1 Dirham equivale ad un quarto di 1 euro) il 25 marzo.

Sono partiti dal Marocco due Boeing cargo della Royal air Maroc venerdì, giunti sabato sera in Cina che dovrebbero riportare differente materiale utile per l’emergenza sanitaria.

Il ministro degli esteri marocchino ha lodato la Cina per avere sviluppato le “norme di base” per far fronte all’emergenza; ha dichiarato che faranno tesoro dell’esperienza maturata in Cina e che i rapporti bilaterali devono «progredire verso il miglioramento degli scambi e della cooperazione degli esperti medici cinesi».

Anche la Tunisia – che il 24 marzo aveva 114 casi accertati – sarà destinataria degli aiuti provenienti dalla Cina, tra cui 20 mila maschere chirurgiche, 1000 maschere N95, 1500 kit diagnostici e 1000 occhiali protettivi, ed ha fatto notizia la decisione dell’ambasciatore cinese a Tunisi di decurtarsi lo stipendio per aiutare il Paese durante questa emergenza.

In Marocco e Tunisia l’industria del turismo, che costituiva una grossa fonte di entrate, è ferma, indebolendo ancora di più le due economie, che hanno sofferto della relazione “neo-coloniale” con l’Unione Europea; la quale in questa emergenza si è palesata per la propria inconsistenza, così come è avvenuto per l’Algeria rispetto al suo precedente “padrone di casa”, la Francia.

Si apre una breccia per il “soft power” cinese, ed una possibilità di sganciamento per i tre Paesi del Maghreb dalla logica dello scambio neo-coloniale che ha caratterizzato i rapporti con la UE, tra l’altro responsabile delle nefaste conseguenze causate dalla guerra civile libica.

Buona Lettura

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Come tutta l’Africa, il Maghreb si prepara al peggio e blocca le sue frontiere per arginare l’espansione del coronavirus.  Tanto più che il Marocco, l’Algeria e la Tunisia conoscono le carenze del loro sistema sanitario, in crisi da anni.

“Quando vediamo quello che succede in Francia, in Italia, i sistemi sanitari al limite dell’implosione, sebbene siano tra i migliori d’Europa e del mondo, pensiamo: come i nostri, già molto fragili, potranno tenere e affrontare una crisi simile senza che questo non sia un massacro per la nostra popolazione, in grande parte composta da giovani?

Questo è ciò che esprime un medico del Rif, una regione “marginalizzata” al nord del Marocco fino a quel momento risparmiata, mentre la pandemia del coronavirus avanza: 94 casi rilevati, di cui 10 decessi in Algeria; 63 casi in Marocco, di cui due guariti e dieci deceduti; 39 casi di cui un guarito e un deceduto in Tunisia, secondo gli ultimi bilanci officiali che molti ritengono sotto valutati… Il Maghreb si prepara al peggio  e si barrica.

Cosciente dei suoi limiti sanitari, il Marocco, 36 milioni d’abitanti, è il primo paese ad avere reagito e ad avere preso delle misure drastiche, ben più rapidamente dei paesi europei.  Ha chiuso le sue frontiere terrestri e aeree con una trentina di paesi. L’ha fatto in due tempi, in principio con i grandi focolai europei la settimana scorsa come la Francia e l’Italia, ma anche con il suo vicino algerino, primo focolaio di contaminazione in Africa, e in seguito con  una ventina d’altri paesi nel mondo, da l’Africa all’America latina, passando per il Medio-Oriente.

Una decisione radicale che gli ha valso delle critiche inevitabili, tenendo conto della velocità di propagazione del virus, del turismo di massa nel paese e dei mezzi sanitari largamente carenti nel regno. Il Marocco accoglie ogni anno una media di 13 milioni di turisti. Nessuno sa che viaggiare, vuol dire propagare il Covid-19 in grande scala. Quanto agli ospedali, vivono una situazione drammatica. Soffrono d’una mancanza lampante di risorse umane e di  materiale .

Come ricorda qua l’epidemiologo marocchino Youssef Oulhote, “il grande pericolo è che la capacità ospedaliera – già molto fragile in Marocco – arrivi presto a saturazione. Il numero dei posti letti ospedalieri  in Marocco (1,1 letto per  1000 abitanti) è molto basso in rapporto a dei paesi già sopraffatti dal virus.

In un articolo pubblicato, ampiamente circolato, dall’associazione Tafra, stima che molto probabilmente “il numero reale dei casi sia da dieci a cento volte superiore, visto che il numero dei casi rilevati riflette soprattutto il numero dei test effettuati dalle forze pubbliche  piuttosto che la realtà della trasmissione sul territorio”. Secondo lui, bisogna attendersi “delle decine di migliaia di casi in Marocco nelle settimane a venire”.

Secondo una delle ipotesi “il Marocco potrà aver bisogno di 400.000 posti letto, di cui una parte significativa necessiterà cure intensive e ventilazione. Ora, il Marocco dispone attualmente  tra i 30.000 e i 40.000 posti letto, ossia dieci volte meno che il necessario, oltre alla penuria di medicinali e personale sanitario”

Qual ora non sia senza conseguenze – migliaia di marocchini sono bloccati all’estero e migliaia di turisti dal mondo intero sono ancora bloccati in Marocco negli aeroporti del paese (Marrakech, Agadir i più colpiti), nel caos generale, le autorità dei differenti paesi coinvolti venivano superati, il blocco delle frontiere è apparso come indispensabile sul piano sanitario per contenere la diffusione della pandemia. L’accesso a tutti i porti marocchini sul Mediterraneo e l ‘Atlantico è stato temporaneamente chiuso a tutte le navi turistiche, da crociera e ai passeggeri.

Molte altre misure di restrizione sociale sono state prese. Gli assembramenti di massa sono stati vietati. Le scuole e le università hanno sospeso i loro corsi. I luoghi di socializzazione- café, ristoranti, cinema, palestre, hammam, parchi, ecc. – sono stati chiusi. Anche le moschee, per le cinque preghiere quotidiane così come quella del venerdì, sono chiuse, ciò ha provocato la collera di qualche figura islamica radicale, sostenendo che la salute non debba passare avanti alla religione.

Ormai sono attivi soltanto  i negozi indispensabili: I supermercati, i negozi di alimentazione generale, le catene di consegne a domicilio, banche e farmacie. Le autorità hanno ugualmente annunciato delle restrizioni e delle operazioni di disinfettazione dei trasporti pubblici “più volte al giorno”.

“Non c’è ancora il panico ma ovunque continuano le stesse scene viste nelle città del mondo intero: corsa ai negozi e alle farmacie, prezzi che aumentano, scaffali vuoti, e così via. Si temono le stesse misure di confinamento che in Europa. Si comincia già ad auto-confinarsi” racconta un’ abitante di Casblanca, che non esce più da casa e rimprovera una seria mancanza d’informazione e di prevenzione in un paese dove quasi la metà della popolazione è analfabeta o illetterata. “Bisogna sensibilizzare le persone, allertarle, informarle: è una questione di sanità pubblica e d’interesse nazionale”.

Per il sociologo Mehdi Alioua, confinare i Marocchini in casa “ rischierebbe d’essere la peggiore delle soluzioni e la più inefficace”. Opterebbe di più per dei confinamenti mirati e di analisi generale , come ha fatto la Corea del Sud, che ha uno dei tassi più bassi di mortalità, benché il paese sia uno dei più infetti. Un’opzione che non è del tutto privilegiata dalle autorità, che riflettono piuttosto sul confinamento generale e hanno praticato meno di 300 test, benché l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) abbia ribadito a inizio settimana l’importanza di una politica di analisi massiccia della popolazione . “Non si può combattere un incendio con gli occhi bendati”, ha dichiarato il direttore dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus.

“In un paese come il Marocco, spiega Mehdi Alioua, migliaia di persone comprano i loro beni alimentari di giorno in giorno, in base a quello che guadagnano quotidianamente. Non hanno risparmi, nemmeno dei redditi stabili. Molti non hanno accesso all’acqua corrente né all’elettricità. Per le persone di ceto  popolare  e intermedio che hanno dei redditi più stabili e una casa con le comodità dove confinarsi, i loro redditi sono troppo modesti per fare provvigioni a sufficienza. Non resisteranno delle settimane, soprattutto le persone che hanno bisogno di certe cure o di medicine.”

Per di più, e questo è valido in Algeria come in Tunisia, in questi paesi in via di sviluppo, dove l’enorme maggiorità della popolazione è povera, le famiglie si ammucchiano in piccole superfici, mescolando le generazioni, bambini, genitori e nonni. Chi augura a un confinamento più complesso, tanto più numerosi sono i confinati, maggiore è il rischio di contaminazione. “Se li fermiamo con la forza, nelle grandi città, la rivolta non tarderà a venire. Questo sarebbe lo scenario peggiore, che porterebbe panico generalizzato, sommosse, saccheggi”, osserva ancora Mehdi Alioua.

Giovedì 19 marzo, lo stato di emergenza sanitaria è stato decretato per limitare ulteriormente gli spostamenti della popolazione, mentre il paese ha registrato oltre una cinquantina di casi in una settimana.

CONTINUARE L’HIRAK SAREBBE CRIMINALE, UN DANNO MORTALE

IN ALGERIA, CON 42 MILIONI DI ABITANTI, primo paese africano a dichiarare un caso di Covid-19 il 25 febbraio ( un cittadino italiano arrivato a metà febbraio ad Algeri), l’epidemia progredisce pericolosamente e sta guadagnando nuove regioni, oggi più di una quindicina. Finora sono stati confermati 94 casi, tra cui dieci decessi. Un dato fuorviante che deve essere rivisto in aumento, in un momento in cui il virus circola ormai da un mese nel paese, perché, ancora una volta, le strutture di analisi sono insufficienti; l’Algeria ne conta solo una.

Sono stati effettuati 1200 test, secondo il ministero della Sanità. E’ cinque volte più che in Marocco, ma non è abbastanza massiccio. Bilda, dove la popolazione comincia ad auto-confinarsi, è la prima Wilaya (regione) colpita della pandemia. Se l’Algeria ha più letti ospedalieri del Marocco (1,9 posti letto ogni 1.000 abitanti), la situazione dei suoi ospedali non è molto migliore. È critica quanto lo è in Marocco.

Aggravati dalla corruzione, dalla mancanza di risorse umane e finanziarie, dalla penuria di medicinali, dal degrado delle infrastrutture, che hanno provocato l’esodo dei medici all’estero, in particolare in Francia (oltre 10.000), gli ospedali algerini sono lo specchio che ingrandisce i grandi mali dell’Algeria, impoverita da vent’anni di bouteflikisme. Mentre il paese destina il 10 % della sua spesa pubblica al settore sanitario, quasi il doppio del Marocco, la medicina si basa su un valido principio cardinale, la gratuità, il sistema sanitario algerino si deteriora di anno in anno.

Gli operatori sanitari, generalmente costretti ad esercitare ancora senza protezioni adeguati anche se in prima linea contro il Covid-19, non credono alla promessa presidenziale di un aumento delle capacità degli ospedali, in particolare in letti di rianimazione (appena 400 in Algeria!) e in respiratori, prefigurano tempi difficili. In alcuni ospedali c’è già il panico, come in Kabylie, nel Bejaia, dove sono stati rilevati dei casi.

Martedì 12 marzo, dopo un grave ritardo nell’attivazione, il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune ha annunciato una nuova serie di misure per combattere il coronavirus, a cominciare dalla chiusura di tutte le frontiere terrestri e aeree, del traffico marittimo, escluse le navi adibite al trasporto di merci.

Sono state prese disposizioni che fino a qualche giorno fa non erano possibili, tra cui la sospensione della preghiera del venerdì e delle preghiere collettive nelle moschee, nonché la chiusura di quest’ ultime. Ha inoltre pronunciato «il divieto dei raduni e delle passeggiate, qualunque sia la loro forma o il loro obiettivo».

Questo riguarda in particolare l’Hirak, il movimento di protesta all’opera da più di un anno contro il regime algerino che ha travolto l’ex presidente Bouteflika e che chiede ancora la fine del sistema che paralizza il paese da oltre vent’anni. Da giorni, una polemica divideva i militanti dell’Hirak come mai dall’inizio del movimento nel febbraio 2019, per le strade e sui social network: occorre o meno continuare la rivoluzione, che riunisce sempre migliaia di persone, mentre la pandemia sta guadagnando terreno nel paese, è urgente proteggersi da essa per proteggere gli altri e impedire la propagazione. Se la maggioranza si esprimeva per fare una pausa, molti hirakisti volevano e vogliono continuare.

“Alcuni algerini sono usciti martedì 17 marzo a camminare per Algeri  a dispetto del buon senso, della ragione, delle raccomandazioni degli scienziati e, naturalmente, contro l’imperativo di preservare la salute altrui. È una cosa stupida, irresponsabile e qualcuno potrebbe addirittura definirla un crimine, perché è una questione di pericolo per gli altri. Pericolo mortale. Vorremmo diffondere il coronavirus più di quanto non faremmo altrimenti. Si vorrebbe dare motivi ai servizi di sicurezza per reprimere i manifestanti, non avremmo fatto altrimenti», fulminava su Facebook il giornalista algerino Farid Alilat.

“Non sono un politico o una figura dell’Hirak, sono un giornalista libero che marcia per mostrare agli algerini e al mondo questa rivoluzione eccezionale. Sospendo la mia copertura a partire da domani per il bene di tutti”, tweettava da parte sua il giornalista Khaled Drareni, che è stato arrestato e incarcerato all’inizio di marzo, mentre era a una manifestazione repressa dalla polizia (rilasciato dopo quattro giorni di carcere, rimane oggetto di un’inchiesta per accuse di “incitazione all’ assembramento illegale” e di “attentato all’unità nazionale”, legate ai suoi reportage sull’Hirak.

“Inventiamo un nuovo modo di lottare in attesa di poter riprendere la strada. Restiamo a casa, pur continuando ad esprimere la nostra solidarietà con i detenuti dell’Hirak, rincarava da parte sua l’attivista dei diritti umani Said Salhi. Ciascuno lo farà a modo suo a partire da casa sua, continuiamo a ribadire le nostre rivendicazioni per un’Algeria nuova ma mobilitiamoci anche contro il coronavirus, priorità nazionale. “

Come in tutto il mondo, gli algerini si precipitano nei mercati e nei negozi di generi alimentari per rifornirsi. Semola, farina, pasta, riso, legumi secchi, detergenti, acqua minerale. Gli scaffali si svuotano e i prezzi salgono. Non si trovano più gel antisettico né mascherine. Segno di una presa di coscienza in corso, gli algerini s’impongono di rimanere a casa e i riflessi del distacco sociale cominciano a mettersi in piedi per le strade, anche se questo è ancora laborioso.

“Non riesco ancora a capire come qualcuno la prenda alla leggera, mentre i paesi più avanzati nel campo della ricerca e della tecnologia sono stati costretti a dichiarare lo stato di emergenza e ad imporre le misure più severe per limitare la diffusione di questo virus”,  si indigna una studentessa sulle colonne del quotidiano “El Watan”.

Numerose voci si levano e chiedono di restare a casa, raccomandando in particolare ai più vulnerabili di evitare le piazze pubbliche e i luoghi di raggruppamento. Sui social media, gruppi di medici algerini lanciano sempre più appelli per applicare una quarantena totale della popolazione il più presto possibile. Alcuni chiedono l’attuazione di uno “stato di emergenza sanitario”.

Giovedì 19 marzo sono state annunciate altre otto nuove misure, tra cui la chiusura dei caffè e dei ristoranti nelle grandi città, la sospensione dei collegamenti ferroviari e dei trasporti pubblici urbani e regionali, congedi pagati del 50% dei funzionari, ad eccezione dei servizi vitali, nonché delle donne che lavorano  e hanno figli piccoli.

“LE PERSONE REALIZZANO L’IMPORTANZA DI PROTEGGERSI E DI PROTEGGERE GLI ANZIANI”

La Tunisia, con 12 milioni di abitanti, ha registrato 39 casi dal 2 marzo, tra cui un guarito e un decesso. Ma le autorità hanno preso delle precauzioni di livello 3 per prepararsi al peggio, a causa dello stato del sistema sanitario del paese, in crisi da diversi anni, e di un contesto economico molto fragile.

Difficile valutare il livello di contenimento della grande Tunisi. Tra le strade vuote e i caffè e i ristoranti che chiudono alle ore 16, alcuni potrebbero credere a una città fantasma ma, al mattino, i più temerari continuano a uscire a fare la spesa o a fermarsi per un «cappuccino» o un «diretto» (nomi dati ai caffè nocciola e caffè crema) mattutini.

Certi matrimoni hanno ancora luogo, nonostante il divieto di assembramenti. Diversi stranieri o tunisini di ritornano da focolai di contaminazione non sempre rispettano la quarantena nelle regioni vicine, come a Nabeul, dove molti cittadini hanno denunciato coloro che infrangono alla regola dell’autoisolamento.

Ma, da mercoledì 18 marzo, sarà più difficile permettersi questo tipo di infrazioni. In un discorso televisivo il presidente della Repubblica Kai Said ha detto che il coprifuoco sarà imposto su tutto il territorio dalle 18 alle 6 del mattino: «Dobbiamo fare dei sacrifici e mostrarci solidali», ha dichiarato solennemente.

Sul Facebook tunisino dove quasi sette milioni di persone si connettono ogni giorno, le informazioni e le frottole su questa situazione inedita esplodono, mentre le informazioni sono allegramente ritrasmesse, come i numerosi annunci di decessi legati al coronavirus, più volte smentite, in realtà. Sebbene la maggior parte dei tunisini dimostri resilienza a causa dell’ultimo decennio, che ha visto sfilare la rivoluzione dal  2011, omicidi politici, attentati e crisi economiche, politiche e sociali a ripetizione, il coronavirus resta un fatto nuovo, come in altri paesi.

Su Facebook ci si scambiano consigli o ci si improvvisa esperti, ma dietro gli stati allarmisti o scherzosi, i buoni consigli come l’uso del sapone verde tradizionale contro il gel disinfettante o l’hastag #Cheddarek (“Resta a casa”) mostrano anche una progressiva presa di coscienza da parte della popolazione dell’importanza di proteggersi e proteggere i propri anziani. In molte famiglie tunisine, la tradizione vuole che i bambini vivano con i genitori anche dopo il matrimonio, costruendo un piano, ad esempio, sopra la casa familiare.

L’assistenza e il rispetto degli anziani sono valori essenziali per alcune famiglie. È il caso di Selim, un insegnante universitario di 40 anni, che risiede a Sousse sopra la casa dei genitori e condivide tutti i giorni il suo quotidiano su Facebook per cercare di rendersi utile. “ Faccio la spesa per loro, indosso sempre una mascherina, dei guanti e utilizzo il gel. Decontamino sistematicamente tutto ciò che entra in casa. Esco con gli stivali di gomma che lavo con la candeggina ogni volta che entro, li tolgo sullo zerbino. Usciamo solo per fare un giro in riva al mare quando non c’è nessuno. Preferisco essere chiamato pazzo che irresponsabile”, descrive.

Leila Ben Gacem, 50 anni, è manager di alcune pensioni nella medina di Tunisi. Ha temporaneamente chiuso i locali e si è messa in quarantena con i suoi genitori, costringendoli a tornare nella casa di famiglia a Tunisi.  “Normalmente abitano a Beni Khaled, non lontano dalla città di Nabeul, e non voglio che siano isolati. Li porto con me a Tunisi e do l’esempio mettendomi  in quarantena.”  Suo padre è leggermente diabetico e ha 80 anni, sua madre ha la pressione alta e 72 anni.  “Mio padre mi dice che ha più paura di me che del corona, perché io controllo sempre quello che fa, se si è lavato bene le mani, ecc .” ride Leila.

I suoi genitori si alternano tra Facebook e passeggiate in giardino. Hanno dovuto cambiare le loro abitudini, come altri anziani, per affrontare il rischio di contagio del virus. “Stiamo cercando di mobilitarci con altre associazioni locali affinché gli anziani non debbano andare a prendere all’ufficio postale, per esempio, la loro pensione, come ogni mese. Molti pensionati la ricevono per posta e la ritirano in contanti per poter pagare le loro bollette e altro, e questo è un vero problema, perché li costringe ad uscire e a fare le code», testimonia Leila.

A Bizerte, un giovane e la sua associazione si sono proposti per occuparsi delle spese degli anziani e di questa questione. Nella città di Kerker, a una trentina di chilometri da Sousse, il comune ha proposto agli anziani di non uscire e di portargli direttamente le pensioni.

A riprova di questa presa di coscienza collettiva, il paese ha anche adottato numerose misure ben prima di arrivare alle situazioni dei suoi vicini europei. Se al momento sono stati registrati solo 25 casi, le analisi sono scarse, con soli 450 test effettuati dal primo caso e quasi 5.000 persone in isolamento.

Il capo del governo ha annunciato la chiusura delle moschee al momento delle preghiere , la sospensione della preghiera del venerdi,  un turno unico di cinque ore al giorno per i lavoratori impossibilitati a fare il telelavoro con orari sfasati per evitare la congestione dei trasporti pubblici, la limitazione dei voli con l’Italia e la Francia, la soppressione dei voli commerciali e la chiusura delle frontiere marittime. Sul piano locale ,le amministrazioni comunali, compresa quella di Tunisi, moltiplicano i controlli per disinfettare le grandi superfici e verificare che i cafè non vendano più le famose chichas, che sono l’emblema nazionale, ormai interdette da un mese.

Dei distributori d’acqua sono stati installati vicino alle grandi arterie per incitare I passanti a lavarsi le mani, mentre il ministero della sanità tiene una conferenza stampa quotidiana per informare sui nuovi casi, la maggior parte tra i tunisini rientrati dall’estero o tra gli stranieri arrivati a Tunisi dal mare. Dei tunisini all’estero hanno attivato delle donazioni per aiutare gli ospedali, come lo Stato, che ha messo in atto una cassa di solidarietà alla quale i tunisini posso partecipare donando soldi tramite linea telefonica.

“Tutto il mondo si prepara e tenta di anticipare perché sappiamo che non abbiamo I mezzi per gestire una crisi. Solo all’ospedale regionale di Gabès ( nel sud della Tunisia) che conta circa 375.000 abitanti, non abbiamo che 10 letti in rianimazione e sei ventilatori. I letti sono già occupati da persone affette da altre malattie oltre al coronavirus”, testimonia Mourad Thabti, un medico dell’ospedale.

I medici sono quelli che cercano di allertare di più la popolazione condividendo quotidianamente le cifre e dei fatti che ciascuno conosce a Tunisi: il sistema sanitario soffre di una mancanza di mezzi da più di un decennio e i medici sono abituati a una medicina d’urgenza, Con soltanto 331 letti in rianimazione ripartiti su tutto il paese per gli ospedali pubblici, il paese avrà difficoltà ad affrontare una crisi simile a quella che vivono i suoi due vicini e principali partner commerciali, la Francia e l’Italia.

Di fronte a questa realtà, molti tunisini e settori si sono rassegnati a fermarsi, malgrado un’economia vacillante. Anis Meghirbi, direttore commerciale di tre hotels tra Sousse e Djerba, due città turistiche, chiude uno a uno i suoi complessi. “Avevamo dei turisti che erano lì per passarci un lungo periodo, molti belgi e francesi che passano una parte dell’inverno qua. Stanno per essere rimpatriati e noi, noi saremo obbligati a chiudere anche per rispettare le misure di confinamento”, spiega.

Il settore alberghiero, malgrado una ripresa del turismo nel 2019, non ha smesso di vivere delle crisi a ripetizione, tra le quali il fallimento del tour-operetor Thomas Cook nel settembre scorso, che ha lasciato più di 59  milioni di euro di crediti in Tunisia. Tra i settori travolti, oltre al turismo, che rischia di prendere una nuova batosta in questa crisi, c’è quello dei lavoratori precari tra i quali gli operai nei cantieri, dei camerieri, delle donne delle pulizie, per i quali il codice di lavoro tunisino non prevede nessun tipo di indennità o anche l’eeser ricevuti dal datore di lavoro. Un vuoto giuridico che rischia di lasciare spazio a tensioni sociali in caso di obbligo di quarantena totale.

Il Presidente della Repubblica ha chiesto martedì sera che il potere legislativo preveda misure per ridurre e scaglionare i debiti delle persone che non possono pagare i loro crediti in caso di quarantena. Su un piano più globale, ha chiesto ai finanziatori internazionali di tenere conto anche della situazione economica della Tunisia per le scadenze del rimborso del debito estero.

Come in Marocco e in Algeria, le conseguenze sanitarie, economiche e sociali rischiano di essere terribili.

 

FONTE: https://contropiano.org/news/internazionale-news/2020/04/02/il-maghreb-alla-prova-del-coronavirus-0126137


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