Tra i modi di dire felsinei, il nostro preferito era sempre stato: «As vadd di can caghèr di viulén».
Nel loro Dizionario bolognese, Gigi Lepri e Daniele Vitali lo rendevano con: «Succedono cose inaudite». Letteralmente, però, si vedevano «cani cagare violini». E in quei giorni di virus cagavano liuti, violoncelli, contrabbassi, pronti a suonare melodie stridule.
Dopo la prima puntata del nostro Diario virale, avevamo ricevuto decine di racconti, testimonianze, aneddoti sullo sfascio che l’ordinanza di Bunazén stava causando nel mondo del lavoro.
La settimana prima c’era stato lo sciopero degli edili, con manifestazione a Milano. Il 25 febbraio un’impresa di costruzioni romagnola, visto che i suoi lavoratori avevano partecipato al corteo, li aveva avvertiti con un sms che erano tutti in quarantena per quattordici giorni, e dovevano fare il tampone altrimenti li metteva in cassa integrazione.
Nelle aziende di alcune province, Confindustria voleva imporre ai dipendenti di riempire questionari invasivi, per appurare se erano entrati in contatto con «qualcuno che è stato in Cina/zone italiane attenzionate e presentava sintomi come tosse e/o febbre» o se avevano avuto rialzi di temperatura «oltre 37.2°». In alcuni call center si misurava la febbre ai dipendenti in entrata.
Il padronato, insomma, coglieva l’occasione per aumentare il controllo aziendale sui lavoratori. La Cgil aveva dovuto precisare:
«non è obbligatorio compilare nessun questionario proposto dall’azienda o altri enti che non siano quelli preposti (Dipartimento di Igiene Pubblica dell’Ausl);
l’autocertificazione che alcune imprese stanno richiedendo è illegittima oltre che essere una falsa tutela per i lavoratori […] Dobbiamo evitare che le aziende, fuori dalle procedure definite dalle Autorità competenti, in modo unilaterale prendano iniziative che possono creare allarmismo e panico e ledere i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.»
Alcune aziende usavano il coronavirus per imporre ferie forzate ai dipendenti, in modo da fargliele smaltire tutte – a febbraio! – e averli a disposizione per il resto dell’anno.
Vodafone aveva indetto la chiusura nazionale «ad esclusione delle attività di vendita, supporto vendita […] presidi del Customer Care, Security Operations Center e Network Operations», obbligando i lavoratori degli altri comparti aziendali – anche quelli delle zone non toccate dall’emergenza – a utilizzare le proprie ferie. Tentativo bloccato dalla Cgil di Bologna.
Una lavoratrice interinale era stata allontanata dal luogo di lavoro solo perché il marito lavorava in un’azienda del modenese dove il padrone era risultato positivo al virus.
– Solo dopo l’intervento del sindacato han tirato il culo indietro!
Di storie così ce n’erano uno sbanderno.
Tutto questo mentre il Garante per gli scioperi rivolgeva «un fermo invito» ai sindacati perché evitassero le astensioni collettive dal lavoro fino al 31 marzo.
Quindi, niente scioperi per più di un mese, proprio mentre i lavoratori subivano uno dei peggiori attacchi degli ultimi decenni.
In teoria non si potevano convocare nemmeno le assemblee sindacali, ma la Cgil le aveva fatte comunque, minacciando denuncia ai sensi dell’articolo 28 se i padroni avessero cercato di impedirle.
Ogni vertenza era comunque bloccata, dato che lavoratori e sindacalisti dovevano occuparsi dell’emergenza. Anche perché l’Inps dell’Emilia-Romagna aveva deciso di chiudere, mentre tutte le attività collegate – Caf e patronati – gestite dai sindacati restavano aperte al pubblico e assorbivano tutto il lavoro in più.
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L’emergenza che toccava affrontare non era quella del virus, ma quella generata da ordinanze e circolari attuative, che ormai facevano epidemia per conto loro. Scollegate una dall’altra, da regione a regione, e recepite in misura diversa da comune a comune, con direttive applicative che si susseguivano a distanza di 24 ore, per rammendare i buchi che le direttive precedenti avevano prodotto.
A Bologna si toccavano picchi di ridicolo. «Bologna non si ferma», aveva detto il sindaco Merola mentre chiudevano musei, cinema e teatri, saltavano festival e fiere…
Restavano aperte le biblioteche. Proprio nelle biblioteche scrivevamo il Diario virale.
In quella più grande, Sala Borsa, frequentata da migliaia di utenti al giorno, l’amministrazione dispensava i dipendenti comunali dai contatti col pubblico. Precauzione che però non valeva per i lavoratori ausiliari della coop appaltatrice, i quali evidentemente potevano essere esposti al virus, purché mandassero avanti la baracca. [Su questo cfr. la precisazione nei commenti, N.d.R.]
La circolare applicativa della regione non disponeva la chiusura dei centri sportivi, ma la sindaca di un comune della cintura aveva deciso di chiuderli lo stesso. Così i dipendenti So.Ge.Se delle piscine di quel comune erano rimasti a casa, mentre quelli delle piscine di altri comuni continuavano a lavorare. Quella gente doveva spendere giorni di… cosa? Malattia? Ferie? Cassa integrazione?
Con le scuole chiuse, gli insegnanti percepivano comunque lo stipendio, ma i servizi di pulizia e mense erano in gran parte esternalizzati, e quei lavoratori erano senza paga. Idem i lavoratori del privato sociale, spesso impiegati nel sostegno alla didattica. Per loro i sindacati avevano chiesto il fondo d’Integrazione salariale, la vecchia “cassa integrazione”. Un sussidio noto per i suoi cronici ritardi e comunque ridotto del 20/30% rispetto allo stipendio. In realtà, i servizi svolti da quei lavoratori erano già pagati, già a bilancio, perché le cooperative che li fornivano avevano vinto bandi pubblici. Non ci sarebbe voluta chissà quale organizzazione per far arrivare quei soldi subito nelle tasche dei lavoratori. Dove invece non c’era un baiocco che inzuccasse con quell’altro.
I lavoratori delle coop sociali o delle piattaforme di servizi a domicilio – come l’accompagnamento di disabili e malati, la formazione e aggiornamento sui luoghi di lavoro, ecc. – si vedevano cancellato ogni appuntamento e di conseguenza i guadagni di intere settimane.
L’intero settore dello spettacolo era stato scaraventato in una crisi senza precedenti. Le imprese coinvolte non potevano sostenere i costi della chiusura, così finivano per chiedere ai lavoratori di rinunciare allo stipendio, o al posto di lavoro stesso. Il rischio della chiusura definitiva di piccoli teatri e cinema era altissimo.
Non solo: tutti i luoghi di lavoro ad alta concentrazione di personale o di pubblico erano a rischio. Ogni azienda bloccata dall’ordinanza si ritrovava ad affrontare il problema senza avere ricevuto la minima indicazione su come comportarsi.
Le disdette nel settore alberghiero e turistico arrivavano a raffica, sui giornali si parlava di un calo del 40% a livello nazionale. Tutte le fiere bolognesi erano state rimandate a maggio. Anche le forniture iniziavano a scarseggiare e molte aziende dovevano mettere in cassa integrazione i dipendenti perché impossibilitate a proseguire la produzione.
I sindacati gestivano l’emergenza caso per caso, azienda per azienda, cercando di non far perdere giornate di stipendio e chiedendo l’attivazione degli ammortizzatori sociali straordinari alle amministrazioni e al governo, che invece baccagliavano di «zone rosse» da isolare. L’insipienza di una classe dirigente selezionata in peggio da anni di retoriche populiste e tecnocratiche risultava in tutta la sua evidenza.
Anche l’accavallarsi di competenze amministrative e governative faceva danni, dimostrando che gli ambiti non erano chiari a nessuno.
Un lavoratore del modenese, malato di polmonite e positivo al coronavirus, era stato invitato dai medici a non recarsi all’ospedale, per non rischiare di infettare altri pazienti, e a farsi assistere a casa; ma il Prefetto era intervenuto per imporre il ricovero, nonostante il precedente dell’ospedale “bomba” di Codogno.
Il governatore delle Marche, benché nella sua regione non risultasse nemmeno un contagiato («ma abbiamo avuto casi al confine, a Cattolica»), aveva decretato la chiusura delle scuole. Il governo centrale aveva impugnato il provvedimento, talmente peregrino da illuminare la peregrinità degli altri. «No a iniziative autonome dei governatori», aveva tuonato il premier Conte. Il TAR gli aveva dato ragione.
Lo stesso Conte ora parlava espressamente di «rischio recessione» e chiedeva di abbassare i toni.
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Nel giro di poche ore i media mainstream avevano cambiato linea. Gli stessi giornali che fino al giorno prima titolavano a tutta pagina che «mezza Italia» (sic) era in quarantena, il giorno dopo pubblicavano articoli rassicuranti, che ridimensionavano l’emergenza. Dopo aver tifato paranoia per una settimana, se ne uscivano con analisi forbite sul Paese «in crisi di nervi». Pfui, che povevacci, che cveduloni…
Ma dopo ettolitri di benzina sul fuoco, spegnere l’incendio non sarebbe stato facile.
Soprattutto perché ora gli amministratori – che da quei media si erano lasciati influenzare, reagendo nei modi più irrazionali possibili – si trovavano in un paradosso a spirale, una trappola senza uscita: non sapevano come rimangiarsi il “decisionismo” e il celodurismo di pochi giorni prima.
Revocare le direttive inutili mentre il virus era ancora in giro non equivaleva forse ad ammettere di avere sbagliato tutto, o almeno di avere esagerato?
L’altra opzione era fingersi imperterriti, mantenere in essere le direttive in nome di una loro presunta efficacia, almeno per un’altra settimana, poi si sarebbe visto.
Questo, però, avrebbe reso sempre più ingestibile la situazione sul piano socioeconomico. Quante settimane di scuola o lezioni universitarie o esami avrebbero perso gli studenti? Quante giornate avrebbero perso i lavoratori precari, autonomi e quelli non coperti dagli ammortizzatori? Quanti giorni di malattia o di ferie accumulate sarebbero stati bruciati? Quanti soldi si sarebbero ancora buttati in inutili blocchi e militarizzazione?
E soprattutto, quei provvedimenti erano stati presi in attesa… di cosa?
Di un vaccino?
Della bella stagione?
Ch’al vgnéss zò la Madòna?
Un esempio clamoroso era il coprifuoco imposto ai locali e bar di Milano. Che significato aveva il ritiro di quella disposizione, dopo soli quattro giorni dalla sua entrata in vigore? Delle due l’una: o la misura era stata una cazzata fin dall’inizio, oppure era stata una buona idea ma la si revocava per le pressioni della Confcommercio e dei dané (ne andava del «modello Milano»!), sacrificando all’economia la salute dei cittadini più deboli.
In entrambi i casi, il sindaco Sala non ci faceva una bella figura, così come non ce la faceva Cirio, il governatore del Piemonte, che voleva «ritornare alla normalità» e tentava di giustificare questo desiderio con varie supercazzole, non avendo dati medici che lo giustificassero, ma soltanto ragioni economiche.
Come sempre la faccia più tosta, di quelle ch’as i amacarév i nûṡ (che ci si ammaccherebbero le noci), l’aveva il veneto Zaia: mentre il suo omologo marchigiano, sbertucciatissimo, chiudeva le scuole, lui bel bello le riapriva dichiarando: «La situazione è sotto controllo».
Almeno altrove si faceva marcia indietro, o si provava a farla, seppure maldestramente o paraculamente, perlomeno su alcuni dei provvedimenti. In Emilia-Romagna no, brisa, nessun cenno di autocritica, amministratori allineati, coperti e pure infastiditi dal «discutere». Bonaccini aveva persino dichiarato che la chiusura delle scuole era stata «richiesta da oltre il 90% dei genitori» (!), un dato bello tondo e levigato, prêt-à-porter.
Meno di un mese dopo la «stravittoria» (sic) alle regionali, al primo test significativo del presunto «nuovo corso» il golden règaz Bonaccini e il PD emiliano davano prova di un frastornato dilettantismo, e si stavano alienando proprio i lavoratori del comparto cultura e spettacoli, gente che si era turata il naso in massa per sconfiggere la Lega.
Ma niente, i nostri amministratori andavano dritti come treni e non li avresti mai sentiti dire «ho sbagliato».
– Bonaccini sembra quello che pensa di potersi pisciare a letto e dire: «E alåura? Ai ò sudé!»
A parte stringere la ganassa, comunque, non sapevano che altro fare. Avevano un piede a mollo e l’altro in acqua. Non potevano neanche dar la colpa al ministero della sanità, perché era il ministero di un governo amico, e soprattutto perché i più assurdi spropositi presenti nelle ordinanze erano farina del sacco locale.
Questo era successo ovunque: ad aver dato il peggio erano state le regioni. La regionalizzazione della sanità si era dimostrata d’intralcio nella gestione della crisi, alimentando un caos più volte criticato dai vertici dell’Istituto Superiore di Sanità e addirittura spingendo Conte a minacciare la Lombardia di toglierle le prerogative. Nemmeno sul vero numero dei contagiati c’era consenso: secondo l’ISS le regioni comunicavano numeri non controllati.
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L’emergenza – nazionale e planetaria – stava sfasciando importanti settori dell’economia, mentre altri puntavano a cogliervi opportunità, a sfruttarla per il proprio tornaconto.
I provvedimenti presi erano contrari agli interessi di una parte di borghesia, che infatti stava tirando le orecchie ai politici, reclamando il dietrofront. Non per questo avrebbero danneggiato il capitalismo come sistema, perché a un livello superiore esso avrebbe integrato e usato quel precedente, traendone profitti. Con tutta probabilità, lo stava già facendo. Ma se dicevi che l’emergenza non era tutta disfunzionale al capitale, anzi, per certi versi era molto funzionale, ti davano del «dietrologo» o del «complottista».
In realtà non c’era nulla di nuovo né di astruso, tantomeno si trattava di «complotti»: era solo la classica contraddizione, per dirla col Marx dei Grundrisse, «tra [la] potenza generale sociale alla quale si eleva il capitale e il potere privato del capitalista sulle condizioni sociali della produzione.» Una crisi, una catastrofe o una rovinosa serie di cazzate potevano danneggiare il potere privato di uno o più capitalisti – cioè rovinare aziende o determinati comparti dell’economia, provocare ruzzoloni in borsa ecc. – e al tempo stesso rafforzare il capitale come potenza generale sociale, come sistema nel suo complesso.
Non sarebbero stati gli errori del ceto politico, non sarebbe stata la «recessione da coronavirus» a fermare il capitalismo. Il capitalismo usava la distruzione – «creatrice», diceva quel tale – di alcuni suoi settori e si ristrutturava per raggiungere un livello superiore. Non si fermava nemmeno davanti al baratro ecologico e climatico, anzi, cercava modi di mercificare il baratro. Trovava limiti solo nei conflitti sociali che si opponevano all’estrazione di valore, cioè nelle lotte contro lo sfruttamento. Nessuna crisi lo aveva mai fermato, perché non poteva fermarsi da sé. Come ogni modo di produzione precedente, sarebbe finito solo quando una rivoluzione ne avesse imposto un altro già maturo.
Erano tanti i modi in cui il capitale come potenza generale sociale poteva trarre profitto dall’emergenza.
Ad esempio, grazie ai big data. Estrarre valore dai comportamenti delle persone, dalla loro sorveglianza, dal tracciamento di ogni azione compiuta online – e ormai, con l’«Internet of things» e le case smart, «online» voleva dire tantissime cose – era il business più redditizio di quella fase storica. I big data prodotti a fantastiliardi di gigabite in quelle settimane di emergenza e paura sarebbero stati materiale prezioso, anzi, erano già materiale prezioso da vendere sul mercato, e da usare per propinare pubblicità micropersonalizzata, vendere sicurezza, acuminare algoritimi per produrre nuove app sempre più pervasive e addictive, disciplinare e sorvegliare meglio ecc.
Inoltre si era stabilito l’ennesimo precedente, utile a perfezionare il comando capitalistico sui territori. Il decreto-legge del governo prevedeva lockdown di vaste dimensioni di territorio anche in presenza di un solo tampone positivo non collegabile a focolai noti.
Che una simile formulazione fosse lì per voglia di controllo orwelliano o semplicemente perché il decreto era scritto in fretta e furia, come le sue disposizioni attuative, senza che nessuno ponderasse le conseguenze, poco importava. Contavano le conseguenze, appunto, non le intenzioni. Si trattava dell’ennesimo «decreto sicurezza» che sarebbe rimasto nel nostro ordinamento, adagiato su quelli già in essere e fatto di pura propaganda.
Era probabile che quando l’anno venturo il Covid19 – divenuto malanno stagionale, come diversi esperti prevedevano – fosse tornato, le reazioni non sarebbero state spropositate come la prima volta, ma intanto si era introdotta la possibilità di trasformare in zone rosse ampie porzioni di territorio italiano, al cui interno potevano essere sospesi diritti elementari, di fatto per la presenza di un solo ammalato.
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Procedura controversa, quella del lockdown, anche sotto l’aspetto strettamente sanitario. In uno dei testi scientifici che avevamo letto si studiava l’effetto di una quarantena su due territori contigui, uno con servizi medico-sanitari migliori e quindi a minor rischio di epidemia (chiamiamolo «ricco») e uno con servizi medico-sanitari peggiori e quindi a maggior rischio di epidemia (chiamiamolo «povero»).
Nel caso di focolai nel territorio povero, chiudendo quest’ultimo diminuivano sì i contagi nel territorio ricco, ma aumentavano e si aggravavano nella zona sottoposta a quarantena, e a tal punto che l’intera situazione peggiorava: «più bassa sarà la mobilità relativa delle persone della comunità ad alto rischio, più vasta sarà la dimensione complessiva dell’epidemia.»
Al contrario, proseguiva il paper,
«se la comunità a basso rischio ha una risposta abbastanza forte alle infezioni, allora non restringere gli spostamenti tra le due comunità può ridurre o addirittura spezzare le catene di trasmissione nella comunità ad alto rischio. Esportando casi secondari di infezione nella comunità a basso rischio, la produzione complessiva di casi secondari può essere ridotta.»
Non era necessario pensare all’Africa per immaginare una situazione simile a quella studiata in quel testo. In Italia c’erano moltissime zone sfigate sotto l’aspetto sanitario, confinanti con altre messe molto meglio.
Idea: scrivere un racconto su un lockdown da qualche parte lungo la dorsale appenninica, o in una valle alpina, o nella zona del Delta del Po, dove poteva capitare di vivere a ottanta chilometri dal primo ospedale e in assenza di presidii sanitari territoriali.
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C’era continuità tra i «decreti sicurezza» degli ultimi anni – «Minniti-Orlando», «Salvini» e «Salvini bis», che il governo Pd-M5S si guardava bene dell’abrogare – e quello sull’emergenza coronavirus, perché c’era una continuità tra retoriche. La fobia del contagio si era incanalata nel solco già tracciato dalle pseudo-emergenze legate all’immigrazione, e dalle campagne securitarie e sul «decoro». Ancora una volta il libro di Wolf si dimostrava prezioso.
Al virus si era data una risposta in chiave di militarizzazione del territorio, la stessa che si era sempre data a povertà, esclusione, disuguaglianze. Si era ricorso alla logica della «zona rossa», ma spingendola ben oltre i confini della zona da circoscrivere per contenere il focolaio. Si era data la caccia a presunti «untori» – il «Paziente Zero», sfuggente come Igor il Russo! – alzando di diverse tacche il livello di paranoia.
Foto e racconti sui giornali descrivevano città vuote, piazze deserte. Spesso si trattava di luoghi scelti ad hoc: non i quartieri dove la gente viveva davvero, ma le strade del turismo e dello shopping. Zone in realtà già morte, al cui cadavere l’emergenza Covid veniva soltanto a togliere un dito di belletto. E lo stesso poteva dirsi per l’agorafobia da coronavirus, che ci pareva strettamente collegata all’ideologia del decoro. Laddove già si era diffusa una certa paura per i luoghi pubblici, magari velata di nostalgia, perché considerati «non più sicuri come un tempo», proprio là colpiva più duro il vuoto. Ma come per il razzismo contro i cinesi, non era il virus a indurre nuovi atteggiamenti: l’emergenza portava a galla verità nascoste dal tran tran quotidiano o rivestite da strati di retorica. Come scrivevamo ai tempi del terremoto in Emilia: a uccidere non è il sisma, ma la realtà su cui il sisma getta luce.
L’emergenza era come un interruttore, che d’improvviso aumenta l’intensità della luce e rende visibili contorni e gesti che altrimenti sarebbero rimasti nell’ombra. La quarantena, le zone rosse, i confini invalicabili, i posti di blocco, le limitazioni alla mobilità, le chiusure: i termini e le questioni erano identici a quelli di un’altra «emergenza», quella che riguardava profughi, migranti, richiedenti asilo. In un caso come nell’altro, i confini erano la risposta a un attacco di panico, dovuto al trovarsi smarriti, in mezzo a una folla sconosciuta, bombardati dall’insicurezza, disorientati dallo spazio. I confini erano le pareti alle quali si aggrappa chi si trova circondato dai suoi simili e ne ha paura: perché sono stranieri o perché sono infetti. Perché sono altri.
Lo si vedeva bene da certe reazioni, come quella del governatore del Friuli-Venezia Fedriga, che subito aveva unito le due emergenze, chiedendo la quarantena anti-Covid19 per i migranti in arrivo dalla Slovenia. Salvo poi ritrovarsi con la Slovenia che voleva chiudere i confini, come no, ma per non far entrare gli italiani. E lo stesso, in giro per il mondo, dalle isole Mauritius ai Caraibi al Brennero, per treni, aerei e navi con italiani a bordo.
Rifiuti che facevano montare l’indignazione per lo smacco subito: una ferita sanguinosa, specie per quei sovranisti che di solito invocavano i porti chiusi e sbattevano le frontiere in faccia a chi scappava dalla guerra.
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Da farsa, il «contenimento» era divenuto lugubre carnevale in quel di Taranto, dove ArcelorMittal, il colosso siderurgico proprietario dell’Ilva, aveva predisposto nientemeno che una task force per «meglio tutelare il personale considerata l’evoluzione del nuovo Coronavirus 2019-nCoV», e disposto: «i dipendenti che entrano in contatto con personale esterno (vettori, fornitori, vigilanti) sono tenuti a indossare apposita mascherina con filtro».
Era la stessa azienda che ogni giorno riversava nell’aria – e sulle case di quegli stessi dipendenti – acido solfidrico e anidride solforosa oltre i valori soglia. Tanto da ricevere un ultimatum dal sindaco.
Si era arrivati a quel punto, a quell’ipocrisia, perché del contenimento s’era fatto spettacolo, diversivo.
Razionali misure di contenimento non potevano prescindere dall’informare adeguatamente i cittadini, in particolare i soggetti più a rischio, affinché evitassero determinati comportamenti e circostanze. Era chiaro – o avrebbe dovuto esserlo – che questo non si poteva ottenere con il terrore, né con gli energumeni in mimetica. Solo la corretta informazione, unita alla capillarità dell’assistenza e a elementari misure di profilassi nella routine quotidiana di tutte e tutti noi avrebbe potuto prevenire le condotte pericolose.
Invece si era fatto l’opposto: si era rovesciata addosso ai soggetti più deboli una disinformazione massiva, martellante, contraddittoria, e li si era spinti a tenere i comportamenti più a rischio. Affollare i supermercati in cerca di amuchina, ad esempio. Invece di intervenire sulle esigenze dei più vulnerabili – principalmente anziani e immunodepressi – e potenziare le strutture ospedaliere che potessero accoglierli, si era deciso di promulgare ordinanze assurde e incoerenti, che probabilmente avevano tutelato ben poco, ma in compenso avevano mandato in tilt mezzo mondo del lavoro.
Dal ponte Matteotti guardavamo il tramonto scendere su Bulåggna e, tutt’intorno, sull’Emilia-Romagna, sulla pianura padana, sull’Italia.
I media avevano descritto scenari da film di Romero, come La città verrà distrutta all’alba (1973). A noi invece veniva in mente uno scenario da western crepuscolare.
La sensazione era che il paese fosse in balia di chiunque e di qualunque cosa. Una frontiera selvaggia dove tanti aspiranti sceriffi gonfiavano i muscoli e alzavano la voce, mimando un decisionismo tanto nocivo nei modi e nelle implicazioni quanto farlocco e pagliaccesco.
Il Covid 19 non ci avrebbe annientati.
Il problema era tutto il resto.