Il Coronavirus costituisce anche un’emergenza psichiatrica. Per questo è possibile leggere la quarantena alla luce del manicomio.
La situazione di emergenza dovuta alla pandemia di Covid-19 sta avendo effetti sul nostro assetto psichico, sia in termini di fragilità emotiva sia rispetto all’insorgenza eventuale di disturbi di tipo psichiatrico legati, tra gli altri, a uno stato di isolamento forzato e all’incertezza della durata di questa condizione.
Alla preoccupazione per un’emergenza sanitaria che già assumeva sempre di più i contorni di una pandemia mondiale, si sono aggiunte le indicazioni del decreto del 9 marzo, quelle che hanno cominciato gradualmente a limitare e vincolare sempre più la nostra libertà di movimento e circolazione, costringendoci a passare dalle reti sociali alle reti social per sentirci meno soli. I cori dai balconi, i flash-mob, gli appuntamenti virtuali ci permettono, anche solo virtualmente, di percepire con meno virulenza la pressione di una forma di alienazione a cui mai avremmo pensato di dover far fronte.
Questa manovra, mai adottata prima nella storia della Repubblica italiana, ci chiama all’appello di una nuova forma, seppur temporanea, di esistenza e sopravvivenza. Tuttavia c’è un passato, neanche troppo lontano, in cui la reclusione, l’isolamento e l’alienazione hanno rappresentato le uniche forme possibili di sopravvivenza di una fetta nutrita della nostra popolazione, rea unicamente di vivere uno stato di fragilità psichica, più o meno evidente. Stiamo parlando delle forme di internamento e contenzione dei pazienti psichiatrici, di cui ancora oggi troppo poco ci si occupa e troppo poco si parla.
La storia manicomiale è, di fatto, un fuori-storia, sono i racconti di celle troppo umide, graffiti ai muri tracciati con le unghie, pratiche di elettroshock e disumanizzazione dei corpi e dell’anima. È una storia che non ci appartiene, non prima almeno di quella che è stata la rivoluzione basagliana che ha poi portato all’approvazione della legge 180 in materia di «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori».
Il manicomio ha rappresentato il luogo elettivo privilegiato per bonificare la società normativa da una certa quota di eccedenza, di bizzarrìa; poco importava che a entrarci fosse uno schizofrenico o un dissidente, l’importante era garantire il decoro urbano, preferibilmente lontano da sguardi indiscreti.
Prima dell’avvento di Franco Basaglia, che attraverso la bellissima immagine di Marco Cavallo – installazione di legno realizzata nel 1973 come opera collettiva all’interno del manicomio di Trieste ispirata a un cavallo realmente esistito, salvato dal macello, che si occupava del trasporto della biancheria in un ospedale psichiatrico – ci ha restituito una cesura con il passato e una fenditura attraverso la quale era possibile finalmente vedere, il manicomio ha rappresentato da sempre il luogo dell’altro, un altro da noi e un altro ben lontano da qualsivoglia forma di umanità. I volti tutti uguali, lo sguardo fisso, ce li racconta bene Alda Merini ne L’altra verità. Diario di una diversa, il racconto lucido di più di dieci anni dentro e fuori, soprattutto dentro, i manicomi. «Nelle malattie mentali la parte primitiva del nostro essere, la parte strisciante, preistorica, viene a galla e così ci troviamo ad essere rettili, mammiferi, pesci, ma non più esseri umani», là dove amori impossibili, baci sognati, mani sfiorate, rappresentavano l’unico appiglio a quell’umanità negata, quella che nemmeno le grate e i muri di cinta potevano riuscire a contenere.
La storia dell’isolamento, quella che in questi giorni ci giochiamo in una partita ancora aperta nei nostri luoghi a causa di questa emergenza, è la storia di tanti e tante che ancora oggi, quotidianamente, combattono quei fantasmi di dentro, quelli che ti logorano, ti assordano e non ti permettono di sentirti parte di una comunità di intenti. Quella rivoluzione basagliana (e con Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia tanti e tante che hanno lottato per l’ottenimento di questa legge), per quanto illuminata, non è ancora una storia a lieto fine, ce lo ricordano non andando troppo in là con la memoria gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), Franco Mastrogiovanni, e tutte quelle famiglie e strutture che quotidianamente lottano per garantire la dignità soggettiva dei pazienti psichiatrici, troppe volte abbandonati dalle stesse istituzioni.
Non dimentichiamo che il Covid-19 è anche un’emergenza psichiatrica, che coinvolge, secondo i dati del Sism (Sistema Informativo Salute Mentale) del 2017, circa 851.189 persone, quelle seguite dai servizi specialistici, a cui si aggiunge una marea silenziosa di invisibili che non hanno avuto modo e possibilità di rivolgersi ai servizi territoriali. È molto probabile, per non dire certo, che l’isolamento di questi giorni contribuisca ad acuire quelli che sono i disturbi di base, gli stati ansiosi e depressivi, aumentando il rischio di insorgenze psicotiche, soprattutto nei più giovani, e passaggi all’atto, nel tentativo di far fronte a uno stato di frattura con la realtà esterna percepita come intollerabile. Il rischio sarà maggiore per tutte quelle forme di fragilità psichiatriche latenti oppure trattate in maniera inadeguata, da un punto di vista clinico e/o farmacologico.
L’isolamento non ha mai aiutato nessuno, ancora meno coloro che vivono in una continua emergenza, che affrontano quotidianamente il dramma di un sistema sanitario pubblico al collasso, che non è in grado di prendersi carico di loro e di famiglie che non sanno come gestire situazioni troppo grandi e complesse.
E allora quale possibilità abbiamo? L’unica praticabile, la più controindicata e la più pericolosa: riduciamo le distanze. Oggi, attraverso la visibilità della parola e del racconto di quello che è il disagio, dalla possibilità di sostenersi attraverso reti sociali di mutuo aiuto, scambi umani e vivi di possibile relazioni e sostegno; domani attraverso la presa di coscienza di un sistema fallace, il potenziamento dei servizi territoriali e il sostegno alle comunità che quotidianamente lavorano con il disagio psichico.
Per forza di cose, ci troviamo oggi in una realtà distopica che potrebbe fare da sfondo a un episodio di Black Mirror, solo che dall’altra parte del muro di cinta ci siamo noi, «contenuti» in pratiche e abitudini forzate, lontani dai nostri affetti, magari soverchiati da quei fantasmi che nel tran tran quotidiano riusciamo a scacciare via, indaffarati e presi come siamo a riempire il nostro tempo. Ora e per un tempo limitato siamo chiamati in quel dentro che è la nostra vita e la nostra storia.
Leggo dei moti a esistere, anche ironici, tali per cui per salvare il mondo dobbiamo solo restarcene a casa e non fare assolutamente nulla, minimizzando lo sforzo di questa temporanea sospensione della nostra vita. Per alcuni non è così, anzi forse proprio per nessuno, molti di noi in questo momento sono nelle proprie case, o in una struttura, e quelle fragilità tornano a bussare alla porta della nostra mente con maggiore insistenza. Bene, anche alla luce di quello che è stato e che quel fuori-storia forse ci ha restituito, proviamo a dirci che è normale provare quello che proviamo, che è normale concedersi sentimenti di tristezza, ansia, noia o quel che sia, ma soprattutto che non siamo soli e sole. Proviamo, stavolta, a far parte davvero tutti e tutte della storia, facciamo in modo che quel «andrà tutto bene» accolga finalmente ognuno di noi.
Cosa ci resta di quel passato, nella nostra quarantena, cosa può insegnarci quell’asfissia delle pratiche di contenimento che erano l’internamento manicomiale? Sicuramente la necessità di rivedere le politiche securitarie di criminalizzazione delle forme di povertà, le stesse politiche che hanno trasformato i servizi rivolti alla comunità in strumenti di sorveglianza e controllo delle classi sociali deboli, le più pericolose per l’assetto normativo. Il contenimento repressivo e il ricorso sistematico alle pratiche di coercizione e controllo sono le stesse, in forma mutevole, che nella storia hanno investito e relegato il diverso, quelli che ieri erano i matti, quelli che oggi sono i migranti da respingere, le donne da depotenziare nelle pratiche soggettive di autodeterminazione, le soggettività eccedenti che devono essere inquadrate in schemi binari eteronormati. Il mantenimento di un sistema, iniquo e feroce, ha avuto nel manicomio più valore dell’oggetto di cura in sé, che anzi si perdeva totalmente di vista. Questa asfissia può e deve insegnarci il valore degli spazi di libertà, che sono gli stessi spazi di dignità troppo spesso negata a soggettività a cui viene sottratta voce e possibilità di esistere in un mondo che dimostra quotidianamente di non volerli. Non c’è più tempo, non ci sono più attese, è ora il tempo di rivendicare diritti per tutti e tutte, perchè domani sarà troppo tardi, Marco Cavallo è alle porte della nostra società e aspetta soltanto di riconquistare uno spazio che ha il valore di una storia, la nostra.
Questo insegnamento conta poco e niente per la società del capitale, dell’accumulo e del profitto, perché è solo un marchio che ti segna a vita, folle, malato o untore che sia, è il valore di una carezza e di un abbraccio negato, di un legame e di calore umano, che è quello che non dimenticheremo domani, che è quello che cercheremo, forse, di non negare più a nessuno.
* Federica di Martino è psicoanalista e attivista femminista.