Gli studi parlano di sintomi paragonabili alla sindrome da carcerati, anche a distanza di tempo. In futuro occorrerà investire anche nella salute mentale.
Dopo una prima fase di tentennamento, il governo italiano ha varato provvedimenti che hanno trasformato l’Italia nel primo paese europeo a instaurare una quarantena precauzionale di massa. Dopo la sospensione di tutte le attività comunitarie e ricreative, il governo sta facendo di tutto per convincere i propri cittadini a rimanere a casa, utilizzando in maniera percussiva tanto i media tradizionali quanto i social. Se inizialmente il consenso per la linea dura voluta dall’esecutivo era pressoché unanime, col passare dei giorni si assiste ad episodi sempre più numerosi di disobbedienza ai divieti, una disobbedienza che raramente contesta politicamente le scelte prese dall’autorità, preferendo aggirarne le disposizioni in sordina. Questi comportamenti vengono stigmatizzati tanto dalla politica e dai media, quanto dai cittadini che osservano in maniera scrupolosa la quarantena.
Ma perché col passare dei giorni (ribadiamo giorni, non mesi) le infrazioni sono sempre più numerose? Perché l’isolamento forzato e la coabitazione coatta hanno un costo psicologico enorme e documentato su cui è necessario riflettere. Precedenti ricerche condotte per la quarantene dovute alla Sars, in Australia e a Taiwan, mostrano come 4 settimane di quarantena bastino a generare nel 28% dei genitori costretti ad essere reclusi con i propri figli, sintomi da stress post-traumatico (per intenderci, simile a quello provato dai militari al ritorno dal fronte). Lo stesso studio ci dice che 3 anni dopo la fine della quarantena, il 10% dei soggetti sottoposti al provvedimento dimostravano sintomi di depressione acuta, legata al trauma non curato del periodo di isolamento. Ancora più alta è la percentuale di danni psicologici di cui soffre il personale medico e infermieristico: il 34% sviluppa stress post traumatico dovuto al mix fra isolamento forzato e all’eccesso di lavoro a cui era sottoposto prima di essere contagiato. Se questo non bastasse, i 2/3 della popolazione sottoposta alla quarantena mostra aumenti significativi di irritabilità, insonnia, ansia e apatia, un mix che facilita esplosioni di violenza ai danni di soggetti deboli come donne, bambini e disabili.
In un altro studio condotto in Senegal sono stati analizzati i collegamenti fra disagio economico dovuto alla quarantena e traumi psicologici: fra chi ha visto diminuire significativamente il proprio fatturato, ha chiuso l’attività o ridotto (quando non perso) il lavoro dipendente, ci sono stati aumenti significativi di depressione, apatia, ansia acuta, senso di inadeguatezza sociale anni dopo la fine della quarantena e la ripresa della vita normale. Questo fenomeno diventa particolarmente grave lì dove i quarantenati sono costretti a chiedere aiuto finanziario a parenti e/o amici per poter sopravvivere, demolendo così la loro immagine di uomini (e donne) capaci di provvedere a se stessi. Di fronte a questi pochi dati, risulta evidente che le notizie che i media mettono sotto la rubrica di costume (il famoso aumento di divorzi post quarantena in Cina) sono frutto di dinamiche socio-psicologiche dovute all’isolamento forzato e non a inadeguatezza individuale.
Quello che assolutamente occorre capire è che più si prolunga la quarantena di massa, più il disagio psicologico si farà grave e richiederà d’essere curato: danni significativi si manifestano appena dopo 4 settimane di isolamento e/o coabitazione forzata, e questi danni si fanno sentire in alcuni casi anni dopo la fine della reclusione. I paper scientifici (e non i titolisti dei giornali) paragonano esplicitamente i sintomi della quarantena a quelli provati dai carcerati, trovando analogie significative fra le due condizioni. Questo significa che già da ora dobbiamo cominciare a pensare nuove forme di solidarietà e vicinanza con cui ricreare il tessuto relazionale appena sarà finita la quarantena, perché i danni inferti da questo sospensione forzata della normale vita sociale saranno enormi. Inoltre è necessario premere perché il governo destini adeguate risorse a chi per professione cura i problemi psicologici, voce di spesa talmente marginale per il nostro sistema sanitario da rasentare il ridicolo. Il coronavirus ci costringe dunque a ripensare totalmente il nostro approccio alla salute mentale, alla sanità pubblica, alla socialità: una sfida politico-culturale nuova che deve essere affrontata con idee e soluzioni nuove. Ne saremo capaci?