Ecco, ci siamo. Da poche ore è stato dichiarato lo stato d’emergenza sanitaria su tutto il territorio nazionale. Serrata quasi totale. Strade e piazze semi-deserte. Proibito uscire di casa senza una ragione ritenuta valida (da chi? ma dalle autorità, naturalmente).
Proibito incontrarsi e abbracciarsi. Proibito organizzare qualsivoglia iniziativa che preveda anche solo un minimo di presenza umana (dalle feste ai raduni). Proibito stare troppo vicini. Sospensione di ogni socialità. Ammonimento a stare chiusi in casa il più possibile, aggrappati ad un qualche dispositivo elettronico in attesa di notizie. Obbligo di seguire le direttive. Obbligo di portare sempre con sé una «autocertificazione» che giustifichi i propri spostamenti, anche se si esce a piedi. Per chi non dovesse sottomettersi a simili misure è prevista una sanzione che può prevedere l’arresto e la detenzione.
E tutto ciò per cosa? Per un virus che tuttora divide gli stessi esperti istituzionali a proposito della sua effettiva pericolosità, come dimostrano le stesse polemiche fra virologi di pareri opposti (per non parlare della sostanziale indifferenza che gli mostrano non pochi paesi europei)? E se anziché il coronavirus, con il suo tasso di mortalità del 2-3% ovunque nel mondo tranne che nel nord Italia (chissà se è l’acido nucleico ad incattivirsi a contatto con la polenta, oppure se è la schiatta padana ad essere gracilina), fosse arrivato in queste lande un Ebola capace di decimare la popolazione dell’80-90%, cosa sarebbe accaduto? Si passava direttamente a sterilizzare i focolai tramite bombardamenti?
Certo, tenuto conto dei legami tra le dinamiche delle società industriali e la moderna concezione occidentale della libertà, non sorprende che per arginare un contagio virale si applichi una politica che impone a tutti gli arresti domiciliari e il coprifuoco. Ciò che stupisce semmai è che tali misure vengano recepite così passivamente, non soltanto tollerate, ma introiettate e giustificate dalla quasi totalità delle persone. E non solo dai menestrelli di corte che invitano tutti a starsene a casa, non solo dai cittadini perbene che si incoraggiano (e si controllano) a vicenda sicuri che «andrà tutto bene», ma persino da chi oggi — davanti allo spauracchio infettivo — non è più disponibile a sentire i (fino a ieri osannati) ritornelli contro lo «stato di eccezione», preferendo schierarsi a favore di una fantomatica materialità dei fatti. Per quel che vale, giacché mai come nei momenti di panico (con l’eclissi della ragione che comporta) ogni parola risulta inutile, torniamo sullo psicodramma popolare in corso nel Belpaese, sui suoi effetti sociali più che sulle sue cause biologiche.
Che questo virus provenga dai pipistrelli o da qualche laboratorio militare segreto, cosa cambia nell’immediato? Nulla, una ipotesi vale l’altra. Al di là della mancanza di informazioni e di competenze più precise al riguardo, resta pur sempre valida una banale constatazione: virus simili possono essere effettivamente trasmessi da determinate specie animali, così come fra i tanti apprendisti stregoni delle «armi non convenzionali» ci può ben essere qualcuno di più cinico o sbadato. E allora?
Ciò detto, dovrebbe essere fin troppo scontato che nel mondo attuale è l’informazione a decretare ciò che esiste. Letteralmente, esiste solo ciò di cui parlano i media. E ciò che tacciono, non esiste. Da questo punto di vista, ha ragione chi sostiene che per fermare l’epidemia basterebbe spegnere la televisione. Senza l’allarmismo mediatico che attorno ad essa è stato sollevato, inizialmente solo qui in Italia, nessuno avrebbe prestato grande attenzione ad una imprevista forma influenzale, le cui vittime sarebbero state ricordate solo dai loro cari e da qualche statistica. Non sarebbe la prima volta. È ciò che è accaduto con le 20.000 vittime provocate qui in Italia a partire dall’autunno del 1969 dall’influenza di Hong Kong, la cosiddetta «influenza spaziale». All’epoca i mass-media ne parlarono parecchio, era dall’anno precedente che seminava morte in giro per il pianeta, eppure venne considerata semplicemente come una forma influenzale più virulenta del solito. Tutto qui. Del resto, ve lo immaginate cosa avrebbe provocato in Italia la proclamazione dello stato di emergenza nel dicembre del 1969? Alle autorità avrebbe senz’altro fatto comodo, ma sapevano di non poterselo permettere. Sarebbe stata l’insurrezione. Si dovettero accontentare della paura seminata dalle stragi di Stato.
Ora, è sensato ritenere che un virus estremo-orientale sia esploso nel mondo con tale virulenza solo qui in Italia? È assai più verosimile che solo qui in Italia gli organi d’informazione abbiano deciso di dare risalto alla notizia dell’arrivo dell’epidemia. Che si sia trattato di una precisa scelta o di un errore di comunicazione, questo potrà essere a lungo materia di dibattito. Ad essere fin troppo palese, in compenso, è il panico che hanno scatenato. E a chi e a cosa esso giovi.
Perché, bisogna ammetterlo: non c’è nulla in grado di seminare terrore più di un virus. È il nemico perfetto, invisibile e potenzialmente onnipresente. A differenza di quanto accade con gli jihadisti medio-orientali, la sua minaccia estende e legittima pressoché all’infinito la necessità di controllo. Non vanno sorvegliati di tanto in tanto i possibili carnefici (alcuni), ma sempre e comunque le possibili vittime (tutti quanti). Non è sospetto «l’arabo» che si aggira con fare losco in luoghi considerati sensibili, ma chi respira perché respira. Se si trasforma un problema sanitario in un problema di ordine pubblico, se si pensa che il modo migliore per curare sia quello di reprimere, allora diventa chiaro il motivo per cui uno dei candidati al ruolo di super-commissario della lotta contro il coronavirus fosse l’ex-capo della polizia ai tempi del G8 di Genova 2001 ed attuale presidente della principale industria bellica italiana (ma poiché gli affari sono affari, alla fine gli è stato preferito un manager dalla formazione militare, l’amministratore delegato dell’agenzia nazionale per gli investimenti e lo sviluppo dell’impresa). Si tratta forse di rispondere alle esigenze espresse in Senato da un noto politico, il quale ha dichiarato che «questa è la terza guerra mondiale che la nostra generazione è impegnata a vivere, destinata a cambiare le nostre abitudini più dell’11 settembre»? Dopo Al-Qaeda, ecco il Covid-19. Ed ecco anche i bollettini di questa guerra al tempo stesso virtuale e virale, i numeri di morti e feriti, le cronache dai fronti di battaglia, la narrazione degli atti di sacrificio e di eroismo. Ora, a cosa è mai servita nel corso della storia la retorica della propaganda bellica, se non a mettere da parte ogni divergenza e mobilitarsi per fare quadrato attorno alle istituzioni? Nel momento del pericolo, non ci devono essere né divisioni né tantomeno critiche, ma solo unanime adesione dietro alla bandiera della patria. Così, in queste ore all’interno dei palazzi si sta ventilando l’ipotesi di dare vita ad un governo di salute pubblica. Senza dimenticare un primo effetto collaterale niente affatto sgradito: chiunque esca fuori dal coro non può che essere un disfattista, meritevole di linciaggio per alto tradimento.
Come già detto, noi non sappiamo se questa emergenza sia il frutto di un premeditato progetto strategico o di una corsa ai ripari dopo un errore compiuto. Sappiamo però che — oltre a spianare ogni resistenza al dominio di Big Pharma sulle nostre esistenze — servirà a diffondere e consolidare la servitù volontaria, a far introiettare l’obbedienza, ad abituare ad accettare ciò che è inaccettabile. Cosa c’è di meglio per un governo che ha perduto da tempo ogni minima parvenza di credibilità, e per estensione per una civiltà palesemente in putrefazione? La scommessa lanciata dal governo italiano è enorme: istituire una zona rossa di 300.000 chilometri quadrati come risposta al nulla. Può una popolazione di 60 milioni di persone scattare sull’attenti e gettarsi ai piedi di chi le promette di salvarla da una minaccia inesistente, come un cane di Pavlov sbavava al semplice suono di una campanella? Si tratta di un esperimento sociale il cui interesse per i risultati travalica i confini italiani. La fine delle risorse naturali, gli effetti della degradazione ambientale ed il costante sovraffollamento annunciano lo scatenamento un po’ dovunque di conflitti la cui prevenzione e gestione da parte del potere richiederà misure draconiane. È ciò che alcuni hanno già battezzato «ecofascismo», le cui prime misure non saranno molto dissimili da quelle prese oggi dal governo italiano (che infatti farebbero la delizia di ogni Stato di polizia). Per testare su larga scala provvedimenti del genere, l’Italia è il paese catalettico giusto e un virus è il pretesto trasversale perfetto.
Finora i risultati per gli ingegneri di anime ci sembrano entusiasmanti. Con pochissime eccezioni, tutti sono disponibili a rinunciare ad ogni libertà e dignità in cambio dell’illusione della salvezza. Se poi il vento a favore dovesse cambiare direzione, per impedire l’effetto boomerang potranno sempre annunciare che il pericoloso virus è stato debellato. Per adesso a farne le spese sono stati i detenuti uccisi o massacrati nel corso delle rivolte scoppiate in una trentina di penitenziari dopo la sospensione dei colloqui. Ma ovviamente non si è trattato di imbarazzante «macelleria messicana», bensì di lodevole disinfestazione italiana. Che l’emergenza offra a chi esercita l’autorità la possibilità di adottare pubblicamente comportamenti fino a ieri tenuti segreti, lo si nota anche nei piccoli fatti di cronaca: a Monza una donna di 78 anni visitata al policlinico perché affetta da febbre, tosse e difficoltà respiratoria, è stata sottoposta a Tso dopo aver rifiutato di farsi ospedalizzare per sospetto coronavirus. Poiché il Tso, istituito nel 1978 con la famosa legge 180, può essere applicato solo a cosiddetti malati psichici, quel ricovero coatto è stato un «abuso di potere» (come amano dire le anime belle democratiche). Uno dei tanti commessi quotidianamente, solo che in questo caso non è stato necessario minimizzarlo od occultarlo, ed è stato reso pubblico senza che si sollevasse la minima critica. Allo stesso modo, a Roma sono stati arrestati sette stranieri rei di… giocare a carte in un parco. È il minimo che potesse capitare a possibili untori privi di ogni «senso di responsabilità».
Già, la responsabilità. Si tratta di una parola oggi sulla bocca di tutti. Bisogna essere responsabili, sollecitazione che viene martellata di continuo e che tradotta dalla neo-lingua del potere significa una cosa sola: bisogna obbedire alle direttive. Eppure non è difficile capire che è proprio obbedendo che si evita ogni responsabilità. La responsabilità ha a che fare con la coscienza, il felice incontro fra sensibilità ed intelligenza. Indossare una mascherina o stare tappati in casa solo perché l’ha dettato un funzionario del governo non denota responsabilità attiva, bensì obbedienza passiva. Non è frutto di intelligenza e sensibilità, ma di creduloneria e dabbenaggine condite con una buona dose di pavidità. Per essere un atto di responsabilità dovrebbe sorgere dal cuore e dalla testa di ogni individuo, non venire ordinato dall’alto ed imposto dietro minaccia di punizione. Ma, come è facile intuire, se c’è una cosa che il potere teme più di ogni altra è proprio la coscienza. Perché è dalla coscienza che nasce la contestazione e la rivolta. Ed è proprio per sterilizzare ogni coscienza che veniamo bombardati 24 ore su 24 dai più futili programmi televisivi, intrattenimenti telematici, chiacchiericci radiofonici, cinguettii telefonici… mastodontica impresa di formattazione sociale il cui scopo è la produzione dell’idiozia di massa.
Ora, se si considerassero le ragioni avanzate per dichiarare questa emergenza con un minimo di sensibilità e di intelligenza, cosa ne verrebbe fuori? Che uno stato di emergenza inaccettabile è stato dichiarato per motivi inverosimili da un governo inattendibile. Può infatti uno Stato che ignora le 83.000 vittime provocate ogni anno da un mercato di cui detiene il monopolio, e che gli frutta un ricavo netto di 7,5 miliardi di euro, essere credibile quando afferma di istituire in tutto il paese una zona rossa per arginare la diffusione di un virus che — a detta di molti fra gli stessi virologi — contribuirà a provocare la morte di alcune centinaia di persone già ammalate, ammazzandone magari qualcuna direttamente? Forse che per impedire che ogni anno 80.000 persone crepino per l’inquinamento atmosferico, lorsignori hanno mai pensato di bloccare su tutto il territorio nazionale le fabbriche, le centrali elettriche, le automobili? Ed è questo stesso Stato che negli ultimi dieci anni ha chiuso oltre 150 ospedali ad invocare oggi maggiore responsabilità?
Quanto alla materialità dei fatti, ci sia permesso di dubitare che si voglia affrontarla veramente. Di certo non lo vogliono i sinistri imbecilli che di fronte al massacro attuato in ogni ambito da questa società sono capaci solo di tifare per la rivincita dello Stato sociale buono (con la sua sanità pubblica e le sue grandi opere utili) sullo Stato liberale cattivo (taccagno con i poveri e generoso con i ricchi, del tutto impreparato ed approssimativo ad affrontare la “crisi”). E ancor meno lo vogliono i bravi cittadini pronti a rimanere a digiuno di libertà pur di avere briciole di sicurezza.
Perché affrontare la materialità dei fatti significa anche e soprattutto considerare cosa si voglia fare del proprio corpo e della propria vita. Significa anche accettare che la morte ponga fine alla vita, perfino a causa di una pandemia. Significa anche rispettare la morte, e non pensare di poterla evitare affidandosi alla medicina. Tutti moriremo, nessuno escluso. È la condizione umana: soffriamo, ci ammaliamo, moriamo. A volte con poco, a volte con tanto dolore. La medicalizzazione forsennata, con il suo delirante proposito di sconfiggere la morte, non fa altro che radicare l’idea secondo cui la vita va conservata, non vissuta. Non è la stessa cosa.
Se la salute — come l’OMS si vanta di sostenere fin dal 1948 — non è la semplice assenza di malattia, bensì il pieno benessere fisico, psichico e sociale, è evidente che l’umanità intera è una malata cronica, e non certo a causa di un virus. E questo benessere totale come dovrebbe essere ottenuto, con un vaccino ed un antibiotico da assumere in ambiente asettico, oppure con una vita vissuta all’insegna della libertà e dell’autonomia? Se negli ospedali spacciano così facilmente la «presenza dei parametri vitali» per «forma di vita», non è perché si è ormai dimenticata la differenza fra vita e sopravvivenza?
Il leone, il cosiddetto re degli animali, simbolo di forza e bellezza, vive mediamente 10-12 anni finché è libero nella savana. Quando si trova in uno zoo, al sicuro, la durata della sua vita può raddoppiare. Chiuso in una gabbia è meno bello, meno forte — è triste ed obeso. Gli hanno tolto il rischio della libertà per dargli la certezza della sicurezza. Ma in questa maniera non vive più, può al massimo sopravvivere. L’essere umano è il solo animale che preferisce trascorrere i suoi giorni in cattività piuttosto che in natura. Non ha bisogno di un cacciatore che gli punti contro un fucile, ci sta volontariamente dietro le sbarre. Circondato ed intontito da protesi tecnologiche, la natura non sa più nemmeno cosa sia. Ed è felice, persino orgoglioso della superiorità della sua intelligenza. Avendo imparato a fare di conto, sa che otto giorni da essere umano sono più di uno da leone. I suoi parametri vitali sono presenti, soprattutto quello considerato fondamentale dalla nostra società: il consumo di merci.
C’è un che di paradossale nel fatto che gli abitanti della nostra titanica civiltà, così appassionata di superlativi, si agitino in preda al nervosismo di fronte ad uno dei più minuscoli microrganismi viventi. Come osano poche decine di milionesimi di centimetro di materiale genetico mettere a repentaglio la nostra pacifica esistenza? È la natura. Detto brutalmente fra noi, considerato ciò che le abbiamo fatto sarebbe anche giusto che ci spazzasse via. E tutti i vaccini, le terapie intensive, gli ospedali del mondo, non potranno mai farci nulla. Anziché pretendere di domarla, dovremmo (re)imparare a convivere con la natura. In società selvagge, cioè senza rapporti di potere, non in Stati civili.
Ma questo comporterebbe un «cambio di comportamento» assai poco gradito a chi ci governa, a chi vorrebbe governarci, a chi vuole essere governato.
«Scopo del terrore e dei suoi atti è di estorcere totalmente l’adattamento degli uomini al proprio principio, affinché anch’essi riconoscano, in definitiva, ancora solo uno scopo: quello dell’autoconservazione. Quanto più gli uomini hanno in mente senza scrupoli la propria sopravvivenza, tanto più diventano marionette psicologiche di un sistema che non ha altro scopo che mantenere se stesso al potere»
Leo Löwenthal, 1945