Assistiamo oggi a quelli che sono dei processi estremi, nei quali raggiungiamo i limiti del nostro modo di vivere: limiti economici, limiti cognitivi. Sappiamo, tuttavia, che potranno essere raggiunti altri modi di vita, dopo, però, un incerto processo di trasformazione più o meno lungo, più o meno tortuoso, più o meno difficile. Marx ha dato a questo processo il nome di transizione. Ed è di questo che intendiamo occuparci qui.
Il comunismo, sosteneva Marx, può essere solo qualcosa che derivi dalle condizioni concrete attuali, e non una qualche idealizzazione. Allo stesso tempo, in relazione a quella che è una società che produce merci, il comunismo è una alterità. Dato che il comunismo è un’alterità derivata dall’esistente, allora bisogna dire della transizione, si deve parlare del passaggio tra l’esistente ed il comunismo.
Noi sosteniamo quanto segue: ci troviamo ad un punto di tracimazione di quelli che sono i limiti dei modi di vita esistenti, e tuttavia senza che ci sia alcuna garanzia che il futuro si traduca in comunismo; al contrario, ci sono delle prove contrarie a questo. Ci troviamo, pertanto, in un momento storico senza alcuna garanzia che si ottenga, come risposta, un’alternativa comunista. Stando così le cose, non possiamo perciò denominare questo momento come di transizione, ma piuttosto come di passaggio, di transito. Abbiamo elaborato quelle che sono tre provocazioni su ciò che chiamiamo transito e che vorremmo discutere con voi.
1 – L’impotenza della scienza ambientale
La prima provocazione riguarda la scienza ambientale. In uno strano opuscolo pubblicato nel 2014, gli storici della scienza Naomi Oreskes e Erik Conway hanno scritto un rapporto sul crollo della civiltà occidentale. La cosa curiosa di questa relazione è che essa è stata scritta come questo collasso fosse già avvenuto. La data della relazione è quella del 2327, in una comunità umana che ha già transitato ed è sorta dalle macerie della civiltà occidentale. In questa distopia, Oreskes e Conway realizzano l’ideale eroico di Günther Anders. Raccontava Anders (e questo, a sua volta, lo ha raccontato Jean-Pierre Dupuy) questa storia (Dupuy, 2015): «Un giorno Noè si era vestito di stracci e si era coperto il capo di cenere – e questo era permesso solo a coloro che avessero perso l’amata sposa, una figlia o un figlio – e si era recato nel centro della città per attirare l’attenzione dei suoi concittadini. Ben presto, intorno a lui si formò una piccola folla. Tutti cominciarono a porre domande, del tipo “chi è morto?”, “per chi piangi?” ed egli rispose che era per tutti loro – per quelli che domandavano – che portava il lutto e stava piangendo, perché erano tutti morti. Ci fu subito eccitazione generale: “Quando saremmo morti, Noè?”, domandarono. “Domani”, rispose Noè. “Dopodomani”, disse loro, “il diluvio è qualcosa che è già accaduto, e quando il diluvio è avvenuto, è come se non fosse esistito niente; domani sarà troppo tardi per ricordare, poiché non ci sarà più nessuno per poterlo fare. Quindi non ci sarà alcuna differenza tra i morti e quelli che sono a lutto. Se io vengo da voi anzi tempo, lo faccio per invertire il tempo, per celebrare oggi il lutto di domani”. Subito dopo, se ne andò nel suo laboratorio per cominciare a costruire un’arca di salvezza. Di tanto in tanto, ci furono alcuni carpentieri che andavano da lui, e ciascuno unendosi a Noè diceva: “sono venuto per aiutarti affinché quello che hai detto possa diventare falso”.».
Ed è esattamente quello che in questo libro fanno Oreskes e Conway. Nel libro, gli umani del futuro che è già avvenuto – o di come possiamo chiamare il futuro che è già passato, vale a dire, quel futuro che ha già fatto il transito – riflettono sul perché la scienza ambientale abbia previsto e abbia messo in guardia per tutto il tempo le persone circa le conseguenze catastrofiche dei cambiamenti climatici, eppure anche così facendo non abbia impedito tali esiti. «Nella preistoria della civiltà», scrivono gli storici del futuro nel libro di Oreskes e Conway, «molte società sono sorte sono crollate, ma poche hanno lasciate altrettante testimonianze di quello che è accaduto loro ed il perché, come hanno fatto gli Stati-nazione del XXI secolo, che si riferivano a sé stesse come Civiltà Occidentale. Perfino oggi, millenni dopo il collasso dell’impero romano e di quello dei Maya, ed un millennio dopo quello dell’impero bizantino e Inca, gli storici, gli archeologi e i paleo-analisti dei collassi non sono stati in grado di a mettersi d’accordo sulle cause primarie delle perdite di popolazione, di potere, di stabilità e di identità di queste società. Il caso della civiltà occidentale è diverso, perché le conseguenze di quelle che erano le sue azioni non solo erano prevedibili, ma sono state previste (…). Infatti, l’aspetto più saliente di questa storia è quanto le persone sapessero e quanto fossero incapaci di agire a partire da quello che sapevano. La conoscenza non si è tradotta in potere» (Oreskes e Conway, 2014).
Il fallimento della relazione tra conoscenza e potere che esperiamo in questo che chiamiamo passaggio, ci induce a ripensare questa relazione tra scienza e potere come un mezzo per una transizione comunista. In occasione di quest’evento, offriremo di certo delle riflessioni che saranno pertinenti in tal senso. In definitiva, perché la conoscenza dell’ambiente non è diventata un qualche tipo di scelta, o un’azione collettiva consapevole che si prestasse ad intervenire su questo ambiente? Questo ci riporta alla riflessione fatta da Slavoj Žižek a proposito del concetto di ideologia marxista: qui la questione non è più quella di «non lo sanno, ma lo fanno», ma piuttosto quella che «lo sanno, e anche così eppure lo fanno» (Zižek , 1997). E la cosa interessante è che per la psicoanalisi questa svolta corrisponde ad una struttura clinica della perversione: dietro questa relazione di impotenza tra il sapere ed il potere, esiste tutta un’intensa attività di negazione, una potente forma di rimozione. Un comunismo che si proponga effettivamente come ipotesi ha bisogno di pensare/agire su questa negazione, su questa rimozione, allo stesso modo in cui, in clinica, lo psicoanalista interviene nei casi di perversione.
2 – Il male senza cattiveria
La seconda provocazione riguarda la violenza. Perché non siamo felici, o non ci sentiamo confortati dopo che Steven Pinker nel suo libro “Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia“, ci ha mostrato, con non poca documentazione, che nel corso del tempo la violenza è diminuita? Sappiamo, e soprattutto sentiamo, che per il mondo gira libero un grande Male, ma non si discute con i numeri di Pinker – che mostrano che la malvagità è diminuita, che la violenza premeditata appare essere sempre meno. In questo non c’è alcuna contraddizione. In questo momento di passaggio, il Male si presenta sotto forma insondabile, il Male ci appare sempre più presente, sempre più vicino ed invincibile, in un altro senso, la malvagità, o come dice l’autore la violenza, si può presentare come se fosse in costante diminuzione. Da quando Hanna Arendt ed il suo concetto di “banalizzazione del male“, così come Günther Anders ed il suo concetto di “vergogna prometeica” , abbiamo la consapevolezza che il Male, nella contemporaneità, si allontana dalla malvagità, nel senso che le categorie della socializzazione realizzano il Male indipendentemente dalla cattiveria di chiunque di coloro che vengono coinvolti. Non ci sono cattivi che ci permettano di identificarci nelle brave persone. Da qui, l’origine della nostra colpa. È nella Nuova Critica del Valore che tutto questo guadagna quello che è il suo potente substrato di critica dell’economia politica, e più precisamente nel concetto della relazione di feticcio. Le relazioni di feticcio realizzano il Male senza cattiveria e, in tal modo, sfumano e vengono meno le distinzioni tra catastrofi naturali e catastrofi create dalla mano dell’uomo, sfumano le differenze tra i cattivi e i buoni, tra le vittime e gli aguzzini.
Riflettiamoci sopra: i giapponesi hanno parlato di conseguenze della bomba atomica dello “tsunami“; gran parte della stampa ha affermato che il disastro dell’uragano Katrina, a New Orleans, è stato «opera di mani umane», tale era stato il ruolo svolto dalle omissioni nel contenimento dell’emergenza, tale era stato il fallimento dello Stato nelle misure post-catastrofe. Il fatto che il Male si produca al di là della nostra comprensione delle azioni malvagie, appartiene esclusivamente alla nostra epoca: il Male senza cattiveria è un problema del nostro tempo nel mondo. Alcune immagini possono servire ad aiutarci a comprendere cosa stiamo dicendo. Nel 2016, la giornalista ungherese Petra László venne filmata mentre faceva lo sgambetto ad una bambina rifugiata che attraversava correndo i confini del paese. La sua cattiveria ha causato indignazione, ma che cos’è un crudele sgambetto davanti a 6,3 milioni di rifugiati [secondo i dati dell’ultimo rapporto dell’ONU] provenienti dalla Siria nel quadro di una guerra di ordinamento mondiale complessa e sfaccettata? Cosa sarà mai quell’atteggiamento meschino a fronte di 600 immigranti morti nella traversata del Mediterraneo, solo nel mese scorso, secondo quelli che sono i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni! Tuttavia, restiamo ipnotizzati di fronte alla malvagità della László, una radicale di destra, mentre restiamo impotenti di fronte al Male del collasso degli stati nazionali che oggi spingono nella condizione di rifugiati 68,5 milioni di persone.
Nel pluripremiato libro sulle vittime di Chernobyl, pubblicato alcuni anni fa da Svetlana Aleksiévitch, si può trovare il racconto delle ultime ore di Vassíli Ignátienko, raccontate dalla moglie Liudmilla, la quale gli è rimasta amorevolmente accanto mentre lui – fortemente colpito dalle radiazioni, in quanto è stato uno dei primi pompieri a rispondere alla chiamata di emergenza – letteralmente, si liquefaceva. Non esistono precedenti storici che avrebbero potuto preparare Liudmilla ad un Male come quello. Un Male senza alcuna cattiveria malvagia che riesca ad essere alla portata della nostra comprensione. Chernobyl è accaduta senza “malvagità“, anche se, dall’altro lato, non è stato affatto un evento “naturale“. È questo il Male al quale facciamo qui riferimento, ed è questo forse il motivo profondo del sottotitolo del libro della Aleksiévitch: «cronaca del futuro» ( Aleksiévitch, 2016).
Recentemente, l’amministrazione Trump ha promosso una politica carceraria che ha scioccato il mondo imprigionando i bambini separati dai loro genitori, immigrati clandestinamente. Le immagini dei bambini in gabbia hanno fatto il giro del mondo e hanno fatto sì che il presidente degli Stati Uniti tornasse sui suoi passi in quella che è la sua biopolitica carceraria. Come sappiamo a partire dai servizi del giornalista Michael Wolff, Donald Trump non è tanto un cattivo, quanto piuttosto un narcisista megalomane che vuole essere l’«uomo più famoso del mondo» grazie alle tecniche del “reality show” (Wolff, 2018). Il suo sogno, per quanto siamo portati a non crederci, non è quello di essere un super-cattivo, ma solo di essere famoso. L’esser tornato indietro sui suoi passi, indica questo: Trump ha ottenuto una delle copertine più interessanti di Times e ha portato a termine quello che è stato un “episodio” del suo reality. Un triste epilogo per l’espressione realpolitik. Ciò nonostante, la battuta di arresto biopolitica di Trump ha evidenziato qualcosa di ben reale: ci ha dato uno spoiler sul futuro, ed è in tal modo che dev’essere interpretato il grido lanciato dalla giornalista Rachel Maddow, di qualche settimana fa, che è anche arrivato in maniera virale sulle reti sociali, circa il fatto di non aver potuto dare notizie sui centri di detenzione per bambini e neonati. Non si tratta di un grido indignato a fronte di una malvagità, ma piuttosto di un grido simile a quello di Liudmila Ignátienko, davanti al marito che sta liquefando: un urlo dirompente dovuto al fatto di trovarsi davanti al Male, ma senza cattiveria.
3 – La scienza di fronte ai problemi ambientali, nessun problema, solo situazioni difficili.
Arriviamo così alla nostra terza ed ultima provocazione. Nel romanzo di Justin Cronin, “Il Passaggio“, il primo di una trilogia, seguiamo la storia di un personaggio che pensiamo forse rappresenti il dramma della scienza di fronte al passaggio che percepiamo. Dopo un disastro biologico causato dal rilascio di un virus che trasforma uomini e donne in zombie-vampiri dotati di superpoteri fisici, le comunità umane vivono asserragliati in piccoli accampamenti militarizzati. Una delle esigenze di questi campi è quella di mantenere un’intensa luce notturna in modo da poter tenere lontani gli zombie-vampiri. Qui, uno dei personaggi cui ci riferiamo è quello di Michael, il responsabile delle batterie che alimentano le luci notturne catturando l’energia solare, dal momento che non ci sono più centrali idroelettriche in funzione. Michael si rende conto che le batterie hanno un ciclo sempre minore, e che in breve tempo non saranno più in grado di alimentare la luce notturna per tutto il tempo necessario, condannando così il campo. Al problema delle batterie non c’è più alcuna soluzione possibile, quindi non si tratta più di un problema, ma di una situazione difficile per quella comunità – nella distinzione che tra problema è contingenza fa John Michael Greer – dal momento che non ci troviamo di fronte ad un problema cui dobbiamo trovare una delle soluzioni, bensì siamo davanti ad una contingenza, ad un destino del nostro tempo. A fronte di un problema, una soluzione, ma davanti ad una situazione, ad una contingenza c’è solo una risposta; davanti ai problemi, siamo risolutivi, ma di fronte ad una situazione siamo responsabili.
Il dramma di Michael “Circuito” è il seguente: «Ripararle era impossibile. Non erano fatte per essere riparate, ma per essere sostituite. Potevi cambiare tutte le guarnizioni che volevi, eliminare le parti corrose, sostituire i fili dei regolatori di carica, ma era fondamentalmente inutile, perché le membrane polimeriche erano cotte, irrimediabilmente incrostate di acido solfonico. Era questo che gli diceva il monitor con quei suoi singulti, giorno dopo giorno. A meno che non fosse arrivato l’esercito americano con un nuovo set di accumulatori freschi di fabbrica – “Oh, scusate, ci eravamo dimenticati di voi!” –, le luci si sarebbero spente. Un anno, due al massimo. E, a quel punto, sarebbe toccato a lui, Michael il Circuito, alzarsi e dire: “Statemi bene a sentire, tutti quanti, ho una notizia non tanto buona da darvi. Le previsioni meteo per stanotte? Buio, con urla diffuse. È stato bello tenere le luci accese, ma adesso è arrivata la mia ora: devo morire, come tutti voi”.» (Cronin, 2010).
Questo dramma, non corrisponde forse al dramma della scienza ambientale, che ogni giorno scopre che sono già in atto processi irreversibili di intensi mutamenti climatici? E che, perciò, ogni giorno, in sempre più zone di interesse umano, attraversiamo un punto di non ritorno? Che il momento degli allarmi per le soluzioni sta passando e che quindi ora rimangono solo i momenti di contingenza, di risposte, di responsabilità? Ma qui appare anche il dramma della comunità di destino, poiché lo scienziato si trova ad essere in una comunità di destino insieme a chi non è scienziato, dal momento che dopo tutto viviamo in un mondo comune, senza che questo possa essere negato in alcun modo, essendo la morte l’aspetto principale di questo destino – e non c’è da stupirsi che alcuni scienziati accarezzino il desiderio di «superare la barriera della morte». Il dramma sta nel fatto che sono nei momenti estremi appare evidente alla comunità il suo destino; solo di fronte ad un terribile incendio, viene finalmente compresa l’architettura dell’edificio.
Stando così le cose, laddove esiste il potenziale di/per una comunità di destino, si manifesta l’ipotesi comunista. Ed è in queste congiunzioni, che possiamo attribuire solo allo Spirito Santo [*1], che Michael deduce dall’ebraico Mi-kha-el, colui/quello (Mi), che è come (Kha) Dio (El). E non è forse questa l’esperienza fondamentale introdotta dal cristianesimo: che il figlio di Dio – colui che, in quanto figlio «è come» il padre, si è messo in comunità di destino con l’umanità, morendo insieme a tutti e a tutte?
Una delle domande importanti che rimane aperta è: potrebbe, il passaggio, dar luogo ad una realizzazione storica dell’idea di comunismo? Ciò dipende da quello che pensiamo e facciamo in quanto passeggeri.
E questo è tutto. Proprio come per Michael e le sue batterie della fine del mondo, è stato bello tenere accese le luci stando insieme a voi.
– Joelton Nascimento e Silvia Ramos Bezerra –
Conferenza tenuta il 3/7/2018 in occasione dell’evento “Scienza e Ipotesi Comunista“
NOTA:
[*1] – Qui, va ricordato che, per Lacan, lo Spirito Santo costituisce l’«ingresso del significante nel mondo» (Lacan, 1995).
Bibliografia:
– “Preghiera per Cernobyl’. Cronaca del futuro“, di Svetlana Aleksievic. Edizioni E/O.
– “Il Passaggio“, di Justin Cronin. Mondadori.
– “Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del mondo“, di Jean-Pierre Dupuy. Donzelli.
– “Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale 1956-1957“, di Jacques Lacan. Einaudi.
– “Il crollo della civiltà occidentale“, di Naomi Oreskes e Erik Conway. Edizioni Piano B.
– “L’epidemia dell’immaginario“, di Slavoj Žižek. Meltemi.