L’università delle piattaforme al tempo della pandemia

La tele-didattica sta trasformando radicalmente e rapidamente la produzione di sapere a livello universitario. Questi cambiamenti non finiranno con le misure anti-contagio, ma modificheranno a lungo termine il modo di studiare, insegnare e fare ricerca nell’accademia.

Oggi, per la prima volta nella storia, le attività di molte università tradizionali che si svolgevano negli spazi fisici dei campus di centinaia di città nel mondo si stanno danno nelle aule virtuali di Moodle, di Coursera piuttosto che di Rain Classrom eccedendo i confini dell’accademia per come l’abbiamo conosciuta. La chiusura dei campus di mezzo mondo, l’uso delle numerose piattaforme digitali dove interagire a distanza e degli strumenti online a supporto dell’insegnamento per condividere dispense, materiali video e audio stanno trasformando l’università in un’istituzione che sempre meno coincide con il perimetro tangibile della sua infrastruttura fisica.

Allo stesso tempo, studiare nell’università è il risultato dell’interazione con un considerevole numero di attori: informatici e sviluppatori di software, analisti di big data, internet provider, imprese e start up specializzate in intelligenza artificiale, sistemisti di rete, data miner, algoritmi, modelli predittivi. Imparare sta acquisendo una sua natura propriamente distribuita: è un’attività tradotta dal know-how tecnologico e dagli skill degli informatici che scrivono i codici degli algoritmi e delle piattaforme dove si interagisce; è condizionata dai sempre più presenti «oggetti smart» come i sensori che registrano la nostra voce e altre informazioni biometriche. Nell’ibrida composizione di elementi sociali e tecnologici, una moltitudine di astanti gioca un ruolo sempre più importante nel sapere accademico rendendo impossibile distinguere o separare nettamente tra umano e non umano, tra umano e più-che-umano.

In realtà, è già da qualche tempo che le università si stanno trasformando in complessi istituti che coinvolgono intelligenza umana e macchinica: nell’ultimo decennio sono state sempre più le università che hanno fatto affidamento ai big data, al learning analytics e al machine learning per prendere decisioni, disciplinare e prevedere diversi aspetti della ricerca e della vita accademica.  Tutto questo è stato reso possibile dalla sempre più voluminosa mole di informazioni disponibili, sotto forma digitale, sull’esperienza dello studio in tempo reale nell’università; tendenza che sembra accelerata dalla pandemia Covid-19. Infatti, la rapida attivazione di metodi alternativi di insegnamento a distanza usando tecnologie e piattaforme digitali sta rendendo disponibili una massa eterogenea e granulosa di dati senza precedenti.

 

È l’emersione, a livello globale, di quella che possiamo chiamare l’università delle piattaforme: un’istituzione che cerca lo studente ideale attraverso calcoli statistici; personalizza l’esperienza di studio, raggruppando gli studenti in percorsi scolastici differenziali secondo attitudini e capacità; è in grado di prevede chi si laureerà con successo e chi invece andrà fuori corso ancor prima di sostenere un solo esame.

 

Un esempio? L’università statunitense di Purdue ha sviluppato la piattaforma algoritmica course signals contro il fuoricorso e l’insuccesso scolastico, capace di prevedere le difficoltà accademiche e il comportamento dei suoi oltre 40.000 studenti iscritti. Combinando modelli predittivi e data mining, già dalla seconda settimana dall’inizio del semestre il calcolo algoritmico comprende la preparazione accademica dello studente, il suo impegno in un corso, e ne anticipa il futuro rendimento scolastico.

Calcola lo sforzo e la partecipazione alla vita universitaria attraverso la frequenza a lezione, il coinvolgimento nelle discussioni e il tempo dedicato ai compiti; conta il numero di click che lo studente compie nel leggere dispense online, registrando la sua puntualità nel consegnare i compiti, la qualità linguistica usata nello scrivere i post nei forum online piuttosto che il numero di interazioni nelle discussioni. In questo modo l’algoritmo definisce il «profilo di rischio» di ciascuno studente, e consente di intervenire tempestivamente con un percorso di sostegno personale condito da paternalismo, incentivi alla responsabilizzazione, spinte volte alla ricerca dell’autostima per cambiare le abitudini di studio.

Così, lo studente è bloccato in un’iper-coerenza narrativa dove ogni sottrazione è considerata sospetta: perché non frequenti le lezioni? Perché non hai scaricato le dispense del corso? Come mai non partecipi alle discussioni dei forum e non rispondi immediatamente ai messaggi? Dove sei, con chi sei, cosa fai? Un interrogatorio senza fine dove le nuove tecnologie digitali, sempre più pervasive, permettono la meticolosa tracciabilità delle abitudini e il monitoraggio dei comportamenti che ricordano da vicino il sistema di prevenzione usato per l’identificazione del «tipo criminale».

 

Il profiling criminale è, in un certo senso, l’antecedente culturale di quello dello studente.

 

Entrambi permettono di indentificare e suddividere i soggetti in gruppi sulla base del loro atteggiamento, trasformandoli in un oggetto misurabile, e dunque prevedibile dal management universitario che analizza petabyte di dati tracciando il comportamento degli studenti per orientarlo secondo principi prescrittivi.

Le università gestiscono partnership con le imprese hi-tech proprietarie dei codici con cui viene scritto l’algoritmo e con i data centre: vere e proprie fabbriche digitali che producono un enorme numero di calcoli consumando tanta energia quanto una città di piccole e medie dimensioni. Queste nuove piattaforme ibride – università, partnership e data centre –  creano graduatorie e soglie di inclusione mettendo in relazione le informazioni accumulate, identificando collegamenti, calcolando statisticamente attraverso correlazioni, regressioni e modelli di calcolo.

 

Studiare è diventata una performance legata a obiettivi automatizzati e gli studenti non devono seguire tanto il loro desiderio di studiare, ma gli standard e i criteri con cui gli algoritmi predittivi formano e performano la loro soggettività.

 

Ma se l’università è sempre più decisa a investire nei big data per migliorare la performance dei propri iscritti, oggi sono proprio loro i grandi assenti. La learning analytics sembra aver fallito, per ora, nel coinvolgere forse il più importante degli attori della formazione: gli studenti. L’uso dei big data nell’esperienza di studio sta producendo una diminuzione della loro autonomia e indipendenza. Ne mina il protagonismo e trasforma il rapporto con l’insegnante in qualcosa di puramente gerarchico tra chi controlla e usa le informazioni sugli studenti e questi ultimi, che sono misurati, resi oggetto, puri data.

 

La crisi pandemica Covid-19 cambierà forse per sempre il modo di studiare, di insegnare e fare ricerca nell’accademia. Probabilmente, nel prossimo futuro, studenti e docenti continueranno a preferire l’interazione faccia a faccia e la tradizionale esperienza di una lezione in un’aula fisica sarà forse il privilegio di studenti e docenti in buona salute delle università di prestigio.

 

Quali nuovi conflitti si daranno nel rapporto tra saperi tecnoscientifici e sistemi sociali, tra uso dei dispositivi digitali e le istituzioni? Quali lotte sui saperi si daranno nella linea d’ombra che separa la predizione dalla prescrizione di possibili futuri per rendere ancora disponibili delle opportunità anziché prevederle? Usare il metodo della tendenza nell’università della distanza consiste non tanto nel definire i futuri rapporti di forza, ma nell’indicare la soggettività che ne arricchirà il tratto storico della loro costruzione. È dove l’organizzazione dei saperi va immaginata. May the giant be with you…

 

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