Retorica bellica e narrazione della pandemia

Da molte settimane ormai, da quando cioè l’epidemia di covid-19 è dilagata nel nostro Paese, una inarginabile retorica bellica si è impadronita del nostro linguaggio: risuona nelle ininterrotte trasmissioni televisive e negli editoriali della carta stampata; rimbomba nei messaggi alla nazione degli uomini politici e negli inviti al rispetto delle regole del distanziamento sociale e della quarantena di attori, cantanti e campioni sportivi; trabocca persino nelle più svariate pubblicità commerciali e nelle interminabili catene di messaggi che rimbalzano da un social all’altro. Insomma pare che l’Italia stia combattendo una guerra, con i suoi fronti, la prima linea, le retrovie, il fronte interno, l’economia di guerra e così via. Ma tutto questo è verosimile e credibile o si tratta di un fenomeno comunicativo e sociale che, al netto delle numerose mistificazioni, della guerra presenta in modo certo un solo aspetto, la propaganda?

Per rispondere, basterà forse pensare a quali esigenze risponda e quali effetti produca l’utilizzo della retorica bellica per la rappresentazione di un’epidemia. In primo luogo soddisfa una necessità “economica”, permettendo di fare ricorso ad un armamentario di immagini, simboli, metafore già belle e pronte, facilmente comprensibili e pertanto rapidamente riattivabili, perché presenti nel sottobosco del nostro immaginario da molto tempo, almeno da cent’anni e dalla guerra – guerra vera – allora effettivamente combattuta.

E allora non c’è alcun bisogno di elaborarne uno nuovo: l’immaginario bellico si presta perfettamente al compito che oggi gli viene assegnato, come ad altri svariati usi (l’abuso di terminologia militaresca nella descrizione di fatti sportivi ne è solo un esempio, il più noto a tutti). Ne consegue che, nell’anomala e destabilizzante situazione in cui siamo improvvisamente precipitati, esattamente come in una guerra e soprattutto nella sua rappresentazione retorica, esistono le figure positive e quelle negative, che ci permettono di mettere parzialmente in ordine le cose, catalogandole e semplificandole: ci sono gli “eroi”, i “martiri”, i “valorosi soldati” che sanno di poter contare sulla “tenacia patriottica” dei civili laboriosi; ma poi vengono anche i “sabotatori”, i “disertori”, i “vigliacchi traditori”. Allo stesso modo in queste settimane le medesime tipologie le attribuiamo agli altri e a noi stessi, insomma a tutti gli attori di questa cosiddetta “guerra”. E poco importa che le metafore belliche evochino scenari terribili, perché dinanzi all’ignoto – una pandemia veramente globale mai esperita in precedenza e in questi termini – anche le cupe immagini di guerra risultano paradossalmente più rassicuranti, perché meno sconosciute.

Infine, ma di certo non per importanza, viene il fatto che il ricorso martellante all’enfatico linguaggio bellico contribuisce in modo decisivo alla creazione di un clima di “unità nazionale”, che fa appello alle capacità di tutte le componenti del Paese di collaborare allo sforzo collettivo contro un comune nemico. Insomma una sorta di “sacra unione” della nazione che si stringe attorno a chi la guida e la rappresenta in un momento indubbiamente complicatissimo e che, nonostante da più parti sia giudicata come utile o addirittura necessaria per la tenuta sociale del Paese, sottende il rischio – forse voluto, certamente non evitato – della distrazione generalizzata per eccesso di focalizzazione su un unico problema, dell’ottundimento della facoltà di analisi della complessità, che si regge invece sulla capacità di distinguere i fenomeni e i loro molteplici aspetti, di leggere su più piani una realtà difficoltosa e preoccupante, che oggi risulta trasformata in un tutto unico ed indistinto, in cui si perdono i contorni delle cose.

E allora c’è bisogno di fare chiarezza, iniziando col chiamare le cose con i loro nomi, di certo più prosaici delle ridondanti immagini retoriche, ma validi ed adeguati allo scopo della comprensione di ciò che viviamo.
Non si tratta di una “guerra”, perché i virus non dichiarano e non combattono guerre, le guerre le fanno gli uomini sparandosi addosso per conseguire degli obiettivi che i virus non possono avere. Se di un agente patogeno che si replica continuamente qualora incontri un organismo ospite adatto volessimo proprio dare una “lettura culturale”, al massimo lo si potrebbe equiparare ad una manifestazione fenomenica tra le più elementari di una sorta di schopenhaueriana volontà di vivere, non certo al comportamento consapevole di un essere razionale che calcola, individua obiettivi, pianifica strategie, produce armi e dichiara guerra ad altri esseri ugualmente razionali. Definire “guerra” il contrasto medico sanitario alla diffusione di un’epidemia produce, allora, gli effetti rischiosi del fraintendimento del fenomeno e della fideistica attesa dell’arma decisiva e vittoriosa che ci farà prevalere sul nemico. Forse sarebbe più utile chiedersi se questa epidemia ed altre del recente passato o che potrebbero seguire in futuro non siano, almeno in parte, da mettere in relazione anche con i nostri modelli di vita, di produzione, di consumo e di “sviluppo” economico globali, al fine di pensare ed apportare aggiustamenti radicali e cambiamenti profondi ormai divenuti indispensabili ed indifferibili.

Bisognerebbe una volta per tutte chiarire che gli operatori del settore sanitario, non sono “eroi di guerra”, né hanno mai chiesto di essere considerati tali e che non nutrono alcuna aspirazione al sacrificio eroico, ma che sono dei “lavoratori” seri, quasi sempre sottopagati, che in modo responsabile e competente svolgono la loro professione in una situazione di estrema precarietà e che chiedono non la gloria imperitura dell’eroismo, ma molto più concretamente e legittimamente la possibilità di lavorare in condizioni di sicurezza, con i dispositivi di protezione previsti dalle normative, senza sottostare ai ricatti contrattuali del lavoro precario e in un sistema di sanità pubblica potenziato e supportato a dovere e non depauperato da processi di privatizzazione indiscriminata del welfare, per il vantaggio dei pochi sulle spalle dei molti. I tanti casi di contagio tra medici, infermieri ed operatori sanitari in genere – che sia chiaro! – non sono ferimenti e mutilazioni di una “guerra di trincea”, come viene ossessivamente ripetuto, ma “infortuni sul lavoro” e ancor di più i numerosissimi decessi che aumentano di giorno in giorno tra i lavoratori del settore sanitario non possono, non devono essere trasfigurati – e quindi mistificati – in casi di “martirio eroico”, perché si tratta di “morti sul lavoro”, troppi “morti sul lavoro”, che vanno ad aumentare il numero già altissimo di “morti bianche” che tutti gli anni si verificano nel nostro Paese.

La chiamata all’unità nazionale per ragioni “belliche”, ossessivamente e quotidianamente rinnovata, che evidentemente è ritenuta l’unica arma efficace per garantire il rispetto delle limitazioni imposte con la quarantena, rivela innanzi tutto quanto “paternalistico” sia nel nostro Paese il modo di intendere la relazione tra istituzioni e cittadini e in secondo luogo sta furtivamente introducendo strumenti sempre più pervasivi di controllo sociale, che facilmente potrebbero scivolare in direzione di forme più o meno esplicite di velleitarismo autoritario, al momento dai più accettate o messe in conto come inevitabili conseguenze collaterali di misure necessarie per la garanzia della salute pubblica, ma che una volta “entrate in circolo” potrebbero risultare molto difficili da disinnescare. E così come contraltare della figura positiva dell’”eroe di guerra” prende forma quella negativa del “sabotatore”, ossia colui che non canta all’unisono nel coro nazionale della retorica di guerra e che esprime pensieri dissenzienti e non omologati, assumendo condotte di “indisciplina sociale”. Sentire i media mainstream che in questi giorni definiscono certi comportamenti di scarso rispetto dei limiti di quarantena – sicuramente stupidi, probabilmente irresponsabili – come evidenti esempi di “sfida alle istituzioni”, lascia intravedere molto facilmente quale sia il potenziale di repressione implicito nelle dinamiche sociali a cui stiamo assistendo.

Una breve digressione storica può dare un contributo alla comprensione. Poco più di cent’anni fa, tutti i paesi coinvolti nella prima guerra mondiale della storia conobbero fenomeni di deriva autoritaria e di militarizzazione della vita politica e dei modi di governo. Nell’Impero austro-ungarico, per esempio, fin dal 1914 fu imposta una vera e propria dittatura militare e governativa attraverso l’emanazione da parte dell’imperatore di numerose ordinanze speciali, che attribuivano immediatamente forza di legge agli atti dell’imperatore stesso, sospendendo l’attività legislativa del parlamento, che limitavano le libertà fondamentali dei cittadini, che sottoponevano a stretto controllo le associazioni e i partiti politici, che comprimevano i diritti sindacali, che censuravano la stampa e la pubblicistica in genere. Anche in Italia si verificarono fenomeni analoghi a quelli austriaci di rafforzamento autoritario dell’esecutivo e parallelo indebolimento delle prerogative parlamentari, di militarizzazione sia della società sia della politica, di aumento esponenziale della repressione e del controllo sociali.

Chi scrive si rende ben conto come tra le società europee che avrebbero conosciuto in modo definitivo i processi di massificazione proprio attraverso la Grande Guerra e l’odierno mondo globale dei social media vi sia una distanza di molto superiore ai cent’anni trascorsi e come impostare confronti tra estremi così lontani possa ingenerare confusione e che sarebbe forse più cauto stabilire collegamenti tra termini più ravvicinati. Oppure, al contrario, si potrebbero allontanare i punti estremi della comparazione, fino a retrocedere al più lontano passato, dal momento che da quando l’uomo è attore della storia, la reale o presunta necessità di adottare rimedi estremi per le situazioni emergenziali causate dai conflitti ha sempre dato luogo a scorciatoie politiche autoritarie, a tal punto che si potrebbe essere tentati di passare dal piano storico a quello antropologico, per incardinare una costante fenomenologica storica in un aspetto della natura umana: la percezione del pericolo conduce allo scatenamento della forza e all’imposizione del più forte.

In ogni caso, limitando queste considerazioni alla contemporaneità, che dal “secolo breve” che ci sta alle spalle arriva fino a noi, è cosa certa che lo “stato di emergenza” proclamato in situazioni belliche abbia regolarmente prodotto un aumento esponenziale di forme e modi autoritari di esercizio del potere e in ogni ambito, quello sociale come quello politico, quello economico e del mondo del lavoro come quello dell’informazione, della cultura, della scuola, ecc. Oggi l’Italia, l’Europa, il mondo non stanno combattendo una guerra contro il virus chiamato covid-19 con trincee e fronti, carri armati e bombardamenti, droni e armi più o meno intelligenti, ma la rappresentazione di quel fenomeno – questo sì totalmente nuovo – che è la “quarantena globale” fa ricorso a mani basse agli stilemi narrativi, all’immaginario e alle formule retoriche della narrazione bellica e il pericolo che sul piano economico, su quello delle relazioni di lavoro e dei sistemi di produzione, sul piano politico come su quello della disciplina sociale e del controllo culturale si ingenerino i medesimi effetti autoritari dello “stato di guerra” dovrebbe indurre tutti quanti ad assumere un atteggiamento di vigile attenzione critica.

Pertanto, se l’Italia non è in guerra – come si è cercato di argomentare – la pandemia tanto imprevista quanto impegnativa che stiamo attraversando si potrà risolvere con gli strumenti della medicina, innanzi tutto e della scienza, più in generale e, in un secondo momento, con una ricerca che sia opportunamente sostenuta, ovverosia finanziata, e con un sistema sanitario nazionale che va difeso, rafforzato e migliorato e non smantellato a seguito di scellerate scelte ragionieristiche, figlie di miopi politiche di austerity, proprie di un liberismo tanto egemone quanto ottuso, egoista e prevaricatore. A nulla serve la retorica bellica e militare, se non a confondere le acque, a semplificare, a banalizzare e a travisare la sostanza delle cose.

Infine una riflessione che guarda a ciò che potrebbe accadere nei prossimi giorni. Tra poco ricorrerà il 25 aprile e il rischio che la Resistenza e la Lotta di liberazione dal fascismo finiscano per essere utilizzate per alimentare la retorica della guerra italiana al virus è più che concreto, anzi si può dire che questo processo sia già iniziato: corriamo il pericolo di sentir parlare di Resistenza alla pandemia e di Lotta di liberazione dalla malattia, il tutto con un duplice effetto deleterio. Ancora una volta eviteremmo di dare una rappresentazione realistica di quanto sta accadendo, infarcendone la narrazione con vuote e bislacche formule retoriche e presteremmo un pessimo servizio al dovere della memoria di eventi storici fondamentali e fondanti lo spirito stesso della nostra Repubblica, ma che a più di settant’anni di distanza ancora disturbano una parte del Paese, quella che forse non si farà sfuggire l’occasione di depotenziarne la valenza attraverso un loro utilizzo improprio. La Resistenza e la Lotta di liberazione ne uscirebbero svuotate della loro sostanza storico-politica e trasformate in inutili etichette astoriche da utilizzare per una abborracciata e fuorviante rappresentazione della situazione presente di emergenza sanitaria.

Usare le parole giuste aiuta a comprendere e comprendere può, forse, aiutare a risolvere anche i problemi più complessi.

 

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