La viralità del decoro. Controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-19. Seconda puntata (di 2)

Napoli, 11 marzo 2020. Il poliziotto che al Vomero, urlandogli «io sono lo stato», fa alzare l’anziano che si riposava un momento dopo aver fatto la spesa, riassume in sé tutte le guardie, vigili e portatori vari di divisa che in questi anni di «decoro» hanno svegliato, scosso, costretto ad alzarsi, daspato e multato chi si era assopito, perché stanco o senza casa, su una panchina. Video qui. Da notare: ha ragione l’anziano («Lei mi sta dando informazioni sbagliate», dice e ribadisce con calma), ma l’articolo di Fanpage tifa poliziotto. Per correttezza, precisiamo che è stato pubblicato due giorni prima dell’ordinanza di De Luca commentata nel post di Wolf qui sotto, talmente estrema che ha fatto già cambiare approccio a molte persone.

di Wolf Bukowski *

I parchi, luogo di degrado e di contagio

Lo scorso 13 marzo Beppe Sala, già maître della più grande spaghettata per il capitalismo italiano, poi sindaco «di sinistra» di Milano, ha annunciato la chiusura dei parchi recintati della città; «ovviamente», ha aggiunto contrito, non è possibile farlo con quelli non recintati. La recinzione dei parchi – che andrà estendendosi a passo di marcia nel prossimo futuro – è ben più di un topos del «decoro»; essa è, in qualche modo, il suo marchio di fabbrica.

Nella New York di fine Ottanta e inizio Novanta, una città che portava ancora i segni della crisi economica del 1975, convergono infatti due movimenti. Uno è quello schiettamente securitario e poliziesco che troverà espressione nella «tolleranza zero» di Rudy Giuliani; l’altro, meno noto, è quello della «quality of life». Si tratta di ciò che da noi è stato chiamato «decoro».

Nella genesi del movimento per la «quality of life» i parchi sono fondamentali. I parchi poco curati, perché abbandonati dai servizi di giardinaggio pubblici (la municipalità aveva tagliato quasi della metà i giardinieri!) vengono infatti «adottati» da gruppi di cittadini bianchi e di classe media. Costoro – anziché usare il loro peso politico per ottenere nuove assunzioni nei servizi pubblici – indossano la salopette più stilosa, comprano le cesoie più ergonomiche, e giocano a fare i giardinieri volontari, tronfi d’orgoglio. Come scrive Fred Siegel, apologeta e teorico della «quality of life»:

«These efforts cultivate character as well as flowers. They catalyze neighborhood energies and can become an emblem of pride for local communities.»

Ma la redenzione (classista) degli spazi pubblici è una strada in salita, e presto i volenterosi giardinieri del decoro realizzano di non potersi più accontentare di mettere a dimora ciclamini. Di notte, infatti, gli spettri urbani, non sapendo dove altro andare, tornano ad abitare i parchi:

«mentally ill, homeless, transvestite prostitutes, as well as the usual drunks and drug addicts, [that] sleep in the park and use its bathrooms for sex.»

Ed ecco quindi la soluzione: ringhiere e cancelli. Si realizza così quella fusione tra risposta al disagio sociale e architettura ostile che ancora oggi è tipica delle politiche del «decoro». E qui platealmente, come accennava Wu Ming in introduzione al primo di questi due articoli, «basta sostituire “degrado” con “contagio” e il gioco è fatto».

Ha detto mio cuggino medico a Milano

Nello stesso videomessaggio Beppe Sala annuncia la sanificazione delle strade di Milano. Anche qui ciò che accade è qualcosa che era già perfettamente tipico prima del Covid:

1) politici e media mainstream producono contenuti emotivi e allarmistici (di solito è la destra a fare da apripista, ma in questa fase la sinistra punta al sorpasso);

2) una fake news – un accorato audio Whatsapp che circola di chat in chat: «stasera ci ha telefonato uno dei nostri amici medici di Milano» – declina quello stesso messaggio in modo da spargere il terrore: «utilizzate solo un paio di scarpe per uscire: il virus riesca a rimanere vivo per 9 giorni sull’asfalto»;

3) il contenuto della fake news – cioè, tecnicamente: della stronzata – rientra dalla finestra nel dibattito pubblico, e gli stessi politici e media che hanno prodotto il terreno di coltura in cui poteva svilupparsi ora possono interpretarlo in modo fermo ma rassicurante, dicendo: stiamo facendo tutto il necessario, niente panico ci siamo noi (tecnicamente: ci sono mamma e papà).

La sanificazione delle strade si diffonde come un delirio (un costoso delirio) per tutta la penisola; flutti di candeggina spazzano via ogni residuo di ragione dalle strade del paese, e nella tempesta d’ipoclorito di sodio è quasi impossibile udire la voce della «scienza», ovvero proprio quel sapere che i politici fingono teatralmente di ascoltare. E la scienza dice, inequivocabilmente, che tale prassi non serve a niente e, anzi, inquina:

«Non vi è evidenza che spruzzare ipoclorito di sodio all’aperto, massivamente, sui manti stradali, possa avere efficacia per il contrasto alla diffusione del CODIV-19 dal momento che le pavimentazioni esterne non consentono interazione con le vie di trasmissione umana. Si ritiene invece che iniziative mirate, rivolte a superfici in ambiente interno o esterno destinate a venire a contatto con le mani, possano conseguire risultati migliori in ottica di prevenzione di diffusione del contagio. E’ comunque da sottolineare che l’ipoclorito di sodio, componente principale della candeggina, è sostanza inquinante che potrà nel tempo contaminare le acque di falda, direttamente o attraverso i suoi prodotti di degradazione. Si invitano pertanto i Sindaci a tenere conto di queste indicazioni, concentrando gli sforzi nella direzione di maggior efficacia degli interventi di lotta al COVID-19. (Arpa Piemonte, 15 marzo

Sarà da indagare – in futuro – come il «non vi è evidenza» del lessico scientifico, che nell’esempio citato significa, grossomodo, «abbiamo verificato fatti e letteratura, e non serve a un cazzo», sia lost in translation nel discorso pubblico fobico, che ne trae invece la conclusione opposta: «non c’è evidenza ma facciamolo lo stesso, tanto male non fa». Quando invece fa male: perché alimenta la paura inutilmente, perché distoglie energie da prassi sensate (sanificare i corrimano), e perché inquina.

«Spruzza, spruzza, ché male non fa!»

Diffondere la paura piuttosto che contenere il contagio

La malafede pseudoscientifica dei candeggiatori di strade ha il suo perfetto corrispondente nell’abbandono sbracato di alcuni presupposti giuridici di fondo; anzi di quello che regge l’intero sistema, il cosiddetto «principio di libertà», espresso dall’articolo 13 della costituzione:

«Non è ammessa forma alcuna di […] restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.»

Il punto non è – giova ripeterlo per i duri di comprendonio – escludere che sia necessaria, in questa situazione, una restrizione anche forte delle libertà personali. Non sto facendo «negazionismo del virus»; e tantomeno libertarianismo spicciolo (dell’intreccio tra diritti civili e sociali abbiamo discusso ampiamente qui). Sto dicendo che più sono forti quelle restrizioni più devono essere precisi e correttamente delimitati i «casi e modi previsti dalla legge».

E invece i DPCM vigenti sono costruiti esattamente all’opposto: le loro disposizioni contengono in ultima sostanza un unico messaggio, quello che «esiste un divieto». E, come spiega nel suo prezioso post Luca Casarotti,

«[n]ella logica dell’emergenza, lasciar aleggiare lo spettro di un generale divieto, senza precisarne i confini, induce paura.»

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La diffusione della paura, non il «contenimento del contagio», è la prima cura praticata dalla classe politica sul corpo sociale – in perfetta continuità con il securitarismo. La vaghezza legislativa produce effetti confusivi: Sandra Zampa, sottosegretaria alla salute, cerca di far chiarezza sulla possibilità di fare attività all’aperto (sport o passeggiata), e dice che si può fare. Nello stesso momento, sul sito della polizia, si usa una formulazione involuta con cui si «raccomanda di non spostarsi per fare una passeggiata (se lo facessero tutti ci si ritroverebbe in massa in strada) o per andare a trovare un amico». Formulazione in cui si mischia una cosa concessa (la passeggiata), con una probabilmente vietata (visitare un amico); e il tutto sulla base di una motivazione che ha la stessa pregnanza logica del «World Jump Day» del 2006, il flash mob con cui, saltando in modo coordinato, si immaginava di poter spostare l’asse terrestre. Sempre contemporaneamente, la stessa polizia di stato fa girare un’infografica che dice che si può fare attività motoria all’aperto.

Questa situazione si traduce – ed è davanti agli occhi di chiunque voglia vederlo – nel totale arbitrio concesso alle forze dell’ordine, nella sospensione della certezza del diritto (un valore borghese? Sì, certo: quel valore borghese che ti consentiva di non finire al gabbio senza almeno un processo), e apre un varco a due fenomeni complementari.

Il primo è il terrore paralizzante per i cittadini, che temono di non poter fare quello che invece possono fare – e che non ha nulla a che vedere con la diffusione del virus. Persone che avrebbero bisogno di fare attività fisica e non la fanno, persone che ritengono sia obbligatorio indossare la mascherina in automobile da soli, altre che pensano che pur vivendo insieme devono camminare a un metro di distanza…

Questo terrore per alcuni si rovescia nel suo contrario: l’immenso piacere voyeuristico di spiare, fare delazione, mandare foto sui social additando altri che pure si stanno comportando perfettamente secondo le regole.

Il terreno alla fascistizzazione della società, dissodato dall’ideologia del «decoro», viene oggi inondato di sementi; domani germoglierà messi abbondanti.

Il secondo effetto è riconoscibile nel malcelato godimento della classe politica locale, che si trova investita del potere pressoché illimitato di rilanciare al rialzo qualsiasi divieto previsto dalle leggi emergenziali nazionali. Nell’imporre misure prive di ogni razionalità rispetto all’epidemia agiscono tanto le personali e pubbliche paranoie e idiosincrasie, quanto il protagonismo del sindaco, frutto avvelenato della sua elezione diretta, sciaguratamente voluta dal parlamento nel 1993 (col voto favorevole dell’ex-Pci).

A sån sté a la fira ed San Làzer… mo an i era ‘nción! Un deserto.

La già citata Isabella Conti, sindaca renziana di San Lazzaro di Savena, dichiara per ordinanza il «divieto di utilizzare le biciclette per ragioni ludico-ricreative», e presto si genera in calce al video in cui lo annuncia un vero assalto di fanatici nei confronti dei pochi che chiedono il rispetto della legge (ovvero il poter fare attività sportiva, per non devastarsi nel corpo oltre che nello spirito). I fanatici scrivono cose come «vai a fare in culo e stai a casa, senza rompere i coglioni»; oppure «ma perché per una volta non si prova tutti a fare quello che ci viene chiesto invece di voler sempre fare i primi della classe???» (come se non fosse Conti a voler fare la prima della classe, imponendo divieti non previsti dalla legge!); «Robe da matti. Un Paese in ginocchio e questo vuole andare in bicicletta!»; «…si vanno a spulciare i decreti ma …ora occorre usare il buon senso/senso civico…».

A Messina il sindaco Cateno de Luca è costretto a ritirare – ma di volta in volta reitera, con piccole modifiche – ordinanze «coprifuoco» in aperto contrasto con le norme emanate dal governo; e l’altro De Luca, Vincenzo, quello campano, «vieta le passeggiate» con un’ordinanza che il giurista Alberto Lucarelli giudica anticostituzionale. Immagino facilmente la reazione-fotocopia degli haters-di-regime: «Ah, il signor professore va a spulciare la costituzione ma… occorre usare il buon senso/senso civico!».


Tutto ciò avviene per mezzo di «ordinanze», ovvero dello strumento utilizzato e abusato since 2008 contro le finte emergenze della «sicurezza urbana» e del «decoro». Anche se apparentemente, in questo caso, l’uso delle ordinanze è giuridicamente più fondato (il sindaco è responsabile in questioni di salute pubblica), esse sono utilizzate sostanzialmente nella logica del «decoro», e non in quella del «contenimento del contagio». Esse accontentano, ma soprattutto provocano e amplificano, i più bassi istinti nella base elettorale; plasmano una popolazione che chiede di essere governata con la paura, non con una qualche forma di ragionevolezza (neppure con la ragione epidemiologica). D’altronde, come dice una stucchevole poesia circolata in rete la settimana scorsa,

«Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.»

Siamo bambini che l’hanno fatta grossa; e politici fanaticamente neoliberisti, nella loro quasi totalità responsabili o complici (per appartenenza di partito) dello smantellamento della sanità pubblica, sono mamma e papà. In Sardegna, premurosi, si preoccupano persino di operare un controllo sulle notizie che potrebbero arrivare a sos pitzinnos: «non è un programma per bambini, cambia canale!». Siamo di fronte, a ben vedere, a uno di quei rari e dolorosi casi in cui sarebbe opportuna la revoca della potestà genitoriale.

Gioite agnelli, è quasi Pasqua!

O ancora, in un tripudio di immagini di docilità autolesionista, siamo non solo bambini ma pecore spaventate dal lupo-virus:

«Un gregge di pecore o di capre che percorre insieme un sentiero. La pecora è davvero soggiogata al pastore? Oppure ciò che determina il legame tra il pastore e ogni singolo animale, provo a supporre, è soprattutto il sentimento della fiducia, la logica pratica e sicura della fiducia, qualcosa che corre tra gli uni e gli altri come una maglia energetica?»

Bucolico, eh? Peccato che ciò che corre tra pastore e pecora sia lo sfruttamento economico, e infine la lama del coltello.

Nel gregge si sta in sicurezza. Ecco un agnello.

Ma questa infantilizzazione e ovinizzazione non sono una novità nel panorama culturale. Siamo nel campo ampiamente analizzato da Daniele Giglioli, quello del paradigma vittimario, in cui si realizza

«ciò che l’egemonia corrente ingiunge oggi di essere, e cioè sottomessi, spaventati, bisognosi di protezione, desiderosi solo di essere governati – bene possibilmente; ma è lo stesso.» (Critica della vittima, Nottetempo, 2014)

L’essere vittima ci definisce, dice Giglioli, come soggetti meritevoli di ascolto in base non a «ciò che facciamo, ma [a] ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto». Tutta l’ideologia del «decoro», a ben vedere, è innestata di vittimismo. E questo proprio mentre, in apparente paradosso, gli illeciti del «degrado» sono spesso illeciti victimless. Chi è infatti la vittima di un senzatetto che dorme su una panchina? Lui e lui solo: in primis del capitalismo che gli ha tolto una casa, poi del «decoro» che gli toglierà anche la panchina. Ebbene: la magia del «decoro» è quello di rendere in modo immaginario tutta la città «vittima» del «degrado», e quindi vittima del senzatetto che dorme tra i cartoni. Che emerga quindi un immaginario vittimario in questa occasione non mi stupisce; esso, come quasi tutto ciò che accade ora, era già lì.

Milano, Sant’Ambrogio,. Panchine antivirali. Foto di SchiZo.

Lo spazio del discorso social è occupato militarmente da chi assume la postura del dar voce alle vittime, del parlare «per conto delle vittime». E si cerca così di zittire chi ragiona sulla complessità sociale di questa crisi perché sarebbe – a parere insindacabile degli autodichiarati portavoce delle vittime – non abbastanza empatico. In realtà neppure chi si pone come portavoce delle vittime sta, nel momento in cui parla, facendo qualcosa di concreto per le vittime reali. Non sta, per esempio, costruendo un respiratore: sta ragionando astrattamente. Proprio come chi ragiona sulla complessità, ma col di più di agitare una clava retorica.

Ma c’è di peggio: se il nazionalismo italiano è storicamente vittimista, il vittimismo italiano diventa immediatamente nazionalista, e questi giorni di bandiere e inni dal balcone sono qui a dimostrarlo; mentre i giorni che seguiranno potrebbero vedere la sua mutazione in fascismo (quali vesti assumerà tale fascismo non è dato sapere. Di certo non l’impolverato orbace: sarà più un tessuto tecnico). Non escludo che il canto della marcetta diventerà obbligo nelle scuole, quando riapriranno; ma ciò che dell’inno più mi colpisce – come nota anche questo commento – è quel suo verso, «siam pronti alla morte», che suona oggi non solo sinistro, ma anche beffardo.

Perché la nostra società, con tutta evidenza, a tutto è pronta tranne che «alla morte». Viene qui al pettine un nodo gigantesco: la rimozione della morte dal nostro panorama sociale, rinforzata da anni di favolette berlusconiane – diventate in seguito articoloni pseudoscientifici de La Repubblica – che ci promettevano di arrivare belli sani e arrapati fino a 120 anni. Poi arriva un virus da pipistrelli e ci dimostra che non è così, che non è per niente così.

Che ne faremo, domani, di questa agnizione arrivata tra capo e collo? La seppelliremo sotto montagne di fantasie tardo-adolescenziali sul postumano, sull’immortalità e gli innesti glam tra organico e inorganico, oppure proveremo a ritracciare strade, individuali e collettive, che ci aiutino ad affrontare l’inaffrontabile, a manipolare quell’inaccettabile che dà senso alla nostra vita, ovvero la sua finitezza?

«C’è dell’oro, credo, in questo tempo strano. Forse ci sono d[r]oni»**

«Voglio i droni, cazzo!» Clicca per ascoltare Control Punk di Filo Sottile.

Torno, qui e nell’epilogo, all’inizio di questa coppia di articoli. Dicevo allora, ricapitolando all’osso:

1) lo stato dispiega la propria forza militare ignorando – nelle confusive e contraddittorie modalità che si è detto – l’esigenza di trovare «un punto di equilibrio» tra la riduzione delle libertà e le esigenze di contenimento del contagio;

2) lo spazio politico (anche tra i critici del neoliberismo) viene occupato da una «responsabilità» individualizzata e acritica; e il giusto «non bisogna mettere in discussione la realtà dell’epidemia» diventa troppo facilmente «non bisogna mettere in discussione il modo in cui il governo affronta l’epidemia».

Se non esiste quindi il «punto di equilibrio» di cui al punto 1, e se non esiste spazio politico e morale che si ponga al di fuori delle modalità di «contenimento del contagio» (modalità che non è dato discutere: «lasciate parlare gli esperti!»), allora è chiaro che ogni intervento di controllo operato dal potere è lecito, se ha una funzione – cioè se riesce a accreditarsi retoricamente come – utile al contenimento del contagio. Il mirror non è più black: la distopia del controllo totale è già in opera, e riflette il nostro presente.

A Forlì i droni sorvegliano i parchi; per non dire del solito Nardella che usa il principale strumento del suo governo scopofilo, le mille telecamere dotate di AI, al fine di scovare assembramenti; ai telegiornali già si commentano i tracciati dei telefonini che dimostrerebbero che «la gente esce troppo spesso»; e sempre più di frequente si leggono cenni quasi acritici al metodo coreano, ovvero al tracciamento tramite gpsapp e tecnologie di sorveglianza di ogni spostamento e di ogni vita sociale.

Se non mettiamo in discussione 1 e 2, quindi, dovremo per la stessa logica accettare tutto, anche perché sarà un lento scivolamento – non un «prendere o lasciare», a cui sarebbe semplice opporsi – e perché tutto sarà in nome del «contenimento del contagio». Quindi accetteremo, tra le altre cose, la fine della possibilità di lottare (assembramento illegale rilevato! Inviare l’esercito!) per fermare il disastro sociale e ambientale; cioè per fermare anche quello smantellamento dei servizi sanitari pubblici e quell’ecocidio che hanno generato e amplificato la potenza epidemica stessa.

Si tratta di un vero e proprio paradosso virale da cui sarà necessario trovare una via d’uscita.

Ritorno a me

Scrive Roccosan, in un commento:

«Il “parto da me” non dovrebbe diventare […] un’operazione narcisistica ma […] un momento metodologico di un’indagine […]. Può allora descriversi fenomenologicamente una giornata di quarantena a patto che serva per definire i campi di forze con cui si entra in relazione e le modalità di tale relazione. In questo modo si può abbozzare un primo diagramma dentro cui certamente si trovano anche l’Io e il narcisismo ma che è anche uno strumento utile a riordinare, le storie, i piani di analisi e le interpretazioni disponibili».

Clicca per ingrandire.

Sono d’accordo; ed è proprio quello che fa Pietro Saitta nell’articolo che cito in quel paragrafo iniziale. La mia critica al «partire da sé» era indirizzata invece a certe narrazioni intimiste, a un uso pubblico privo di mediazioni delle proprie sacrosante angosce; e infine alla retorica del «mostrare la ferita». Mostrare la ferita è legittimo, è giusto; talvolta è personalmente liberatorio: facciamolo tutti e tutte, pure più spesso di così, e mica solo nell’occhio del lockdown.

Ma facciamolo con la piena consapevolezza che non ha potenziale rivoluzionario. Il «mostrare la ferita» è da tempo perfettamente integrato al neoliberismo, al coaching aziendale, all’aumento della performance tramite il (peloso) ascolto. E infatti il ministero della salute, già il 14 marzo, ha prodotto un «cartellino» di regime da appendere alla porta (rigorosamente chiusa) per imparare a «gestire lo stess».

Mostra la tua ferita, noi ti aiutiamo a gestirla, ma la società non cambia. Quindi avanti, dritti, verso il prossimo ecocidio e la prossima epidemia.

** I versi sono tratti dalla già citata stucchevole poesia.

Wolf Bukowski scrive su GiapJacobin Italia e Internazionale. È autore per Alegre di La danza delle mozzarelle: Slow Food, Eataly Coop e la loro narrazione (2015), La santa crociata del porco (2017) e La buona educazione degli oppressi: piccola storia del decoro (2019).

 

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