Esiste una relazione permanente tra l’idea che si ha della morte e l’idea che si ha di sé?
(Philippe Ariès, Storia della morte in occidente)
Le campane suonano a morto e per le strade del piccolo borgo di Alzano Sopra, in provincia di Bergamo, non va in giro nessuno. È aperto il portone della chiesa di San Lorenzo martire con la sua facciata austera, ma il porticato alla fine della scalinata di marmo è ancora vuoto. All’interno è stato allestito un altare, su cui è stata appoggiata un’urna nera, circondata da orchidee bianche. Prima di entrare, in mezzo alla navata centrale, c’è il distributore di gel per disinfettarsi le mani, sulle pareti ci sono cartelli che ricordano che indossare la mascherina è obbligatorio. L’unico segnale di una normalità che non può riprendere esattamente come prima.
Sull’altare c’è la foto di un uomo anziano con i capelli imbiancati, che guarda dritto nell’obiettivo e non sorride e sul cuscino di orchidee una scritta: “Con amore, i tuoi cari”. Poco dopo le tre del pomeriggio, dal fondo della valle cominciano ad arrivare a gruppi alcuni operatori della Croce rossa vestiti con le uniformi da soccorritori. Franco Gubinelli, ottant’anni, era uno dei responsabili della Croce rossa locale ed è morto a causa del covid-19 il 31 marzo 2020, ma i suoi funerali si sono svolti più di due mesi dopo, il 12 giugno. La salma di Gubinelli era stata trasferita con un mezzo militare a Firenze, per essere cremata, e poi è stata restituita alla famiglia più di un mese dopo.
Nel frattempo, la figlia e i nipoti hanno provato a fare i conti con la perdita improvvisa dell’uomo, senza neppure poter prendere commiato attraverso un rito funebre: un giorno Gubinelli è stato portato via dall’ambulanza e qualche settimana dopo era morto. Oltre al dolore, i familiari fanno fatica a rendersi conto di quello che è successo, senza aver potuto seguire il decorso della malattia da vicino, accompagnarlo nel momento della morte o tantomeno salutare la bara prima che fosse portata al cimitero.
Lutto sospeso
Questo intervallo di tempo tra l’ultimo ricordo e il funerale è un territorio sospeso, come un vuoto di memoria da cui Michela, la figlia, non riesce a prendere le distanze. Per questo ha voluto aspettare che finissero le restrizioni dovute alla pandemia di coronavirus per organizzare una funzione religiosa a cui potessero partecipare gli amici, i parenti e i conoscenti, perché il padre ha avuto sempre un ruolo di spicco nel paese. “Ho pensato che in tanti volessero partecipare al suo funerale”.
Alzano Sopra, Alzà Sura in dialetto bergamasco, è una frazione di Alzano Lombardo, un paese prealpino circondato da montagne, che si è sviluppato lungo le rive del fiume Serio, confinante con i paesi di Villa di Serio e Nembro. Nella frazione sorgevano alcuni stabilimenti industriali importanti, prima i lanifici, poi le cartiere Pigna infine il cementificio Italcementi, uno degli impianti di produzione di cemento più grande d’Europa. Su questa linea verticale che va dalla val Seriana alla provincia meridionale di Bergamo, seguendo il corso del fiume Serio, ma anche della Teb, la tramvia che collega Bergamo ad Albino, tra la fine di febbraio e la fine di aprile del 2020 è stato registrato il più alto numero di morti per coronavirus in Italia: una catastrofe che ha causato la morte di più di seimila persone.
In alcuni paesi è scomparsa un’intera generazione di ultrasessantenni ancora molto attiva e partecipe della vita sociale delle comunità. “Si sono creati dei buchi nella nostra trama sociale”, spiega il sindaco di Alzano Lombardo, Camillo Bertocchi. “Le persone scomparse in molti casi avevano ancora ruoli centrali nella nostra comunità, erano volontari nelle associazioni, negli oratori, nelle proloco. Erano figure di riferimento che sarà difficile sostituire. Questa è un’altra emergenza che ora dobbiamo affrontare”, continua il sindaco. Per Bertocchi “la comunità è una grande famiglia e la pandemia ha messo tutti di fronte a una realtà molto cruda: dipendiamo gli uni dagli altri”. In alcuni piccoli comuni della val Seriana e della val Brembana i decessi, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, sono aumentati del duemila per cento.
“Abbiamo evitato di poco le fosse comuni”, afferma ancora sotto shock Vanda Piccioli, titolare insieme a suo padre di un’impresa di pompe funebri ad Alzano Lombardo. La donna sembra un fiume in piena mentre racconta quello che ha vissuto negli ultimi mesi. Le lacrime le affiorano sulle palpebre, e anche se ha una lunga esperienza alle spalle dice di essere stata sconvolta dalla pandemia. “A volte prima di tornare a casa dai miei figli accostavo la macchina sul ciglio della strada e mi mettevo a piangere, per la paura, per la frustrazione e per la stanchezza”, racconta. “Abbiamo visto cose che ora vogliamo dimenticare”.
L’immagine delle fosse comuni è forte, ma verosimile, se si pensa che in altri paesi come gli Stati Uniti decine di salme sono state seppellite nelle fosse comuni, per esempio sull’isola di Hart, a New York, per far fronte alla mortalità fuori dal comune provocata dall’epidemia di covid-19. “La nostra società di solito opera in un anno 1.400 servizi funebri, nel mese di marzo abbiamo fatto 1.100 servizi, vuol dire che abbiamo fatto il lavoro di quasi un anno in un unico mese. Avevamo sessanta o ottanta defunti al giorno nei momenti di maggior lavoro, quando si parlava di voler fare o meno la zona rossa. Il 13, 14 e 15 marzo sono stati i giorni più difficili”, ricorda Piccioli.
Questa presenza diffusa della malattia e della morte in un contesto di piccoli paesi in cui tutti si conoscono e l’impossibilità di celebrare i riti funebri per più di due mesi hanno lasciato in molti una sensazione di angoscia e di sospensione, che in alcuni casi si è trasformata in un vero e proprio malessere psicologico. “In molti mi dicevano che non riuscivano a rendersi conto di quello che era successo, che si aspettavano che i genitori, la madre, il padre tornassero da un momento all’altro”, racconta Piccioli. La morte di una persona cara è diventata all’improvviso come una sparizione e il processo anche psicologico dell’elaborazione del lutto per molti si è bloccato.
L’assenza dei riti
Anche gli operatori si sono trovati davanti a una situazione nuova e difficile: “I defunti infatti non potevano essere lavati e vestiti, come avviene invece in situazioni normali, perché i loro corpi erano considerati infetti. Nella maggior parte delle strutture sanitarie ce li davano dentro un sacco nero, oppure avvolti in lenzuoli con il disinfettante, anche noi rischiavamo di infettarci”. Il problema nelle prime settimane era anche la mancanza di presidi sanitari e dispositivi di protezione per gli operatori delle pompe funebri.
In molti casi i parenti dei defunti gli affidavano degli oggetti o dei vestiti da mettere dentro la bara. “Ci sentivamo una specie di tramite tra le famiglie e il defunto. Ci conosciamo tutti da queste parti, quindi le persone mi scrivevano direttamente, mi chiedevano di dire una preghiera o di portare un oggetto che accompagnasse la persona, mi sono sentita una grande responsabilità”, conclude Piccioli.
Una delle immagini simbolo della pandemia in Italia è stata la fila di mezzi militari che trasportavano decine di bare dal cimitero di Bergamo ad altre città italiane per cremare le salme, un’altra immagine che rimarrà impressa nella memoria è le pagine di necrologi sul giornale locale l’Eco di Bergamo. Queste due fotografie a marzo hanno svegliato un paese che sembrava aver sottovalutato l’epidemia. Nella bergamasca c’è una tradizione molto radicata dei necrologi sul giornale, quando qualcuno scompare. Ma durate l’epidemia le pagine dedicate sono state decine, tanto da diventare un indicatore di quello che stava succedendo.
Il direttore del quotidiano Alberto Ceresoli ricorda: “Vedevamo che di giorno in giorno le pagine dedicate ai necrologi aumentavano, siamo arrivati ad avere tredici pagine di necrologi per un paio di settimane”. Anche per i giornalisti è stato scioccante: “Trovavamo tra gli annunci la notizia della morte di familiari, amici e conoscenti. C’è stato anche per noi un certo coinvolgimento, ma credo che in un certo senso la forza degli eventi ci abbia aiutato a tenere duro, non abbiamo avuto il tempo di soffermarci sul dolore che provavamo”.
Il quotidiano era contattato ogni giorno dai familiari dei malati, dagli stessi malati, dai sindaci e ha deciso di assumere un ruolo anche nell’elaborazione del lutto e della memoria. “Dal 30 aprile al 3 giugno abbiamo aperto un memoriale sulla facciata del giornale: abbiamo proiettato le foto di circa cinquemila persone. I bergamaschi arrivavano a tutte le ore, si raccoglievano davanti alla facciata, portavano dei fiori. Noi l’abbiamo fatto come un atto dovuto, bisognava ricordare queste seimila vittime. Credo che il ricordo sarà la benzina che farà ripartire la città, non c’è nessuna voglia di dimenticare”, conclude Ceresoli.
Come ha spiegato lo storico Philippe Ariès nel suo saggio Storia della morte in occidente, per mille anni e fino al Medioevo in Europa era normale che i defunti fossero tumulati in fosse comuni o in tombe anonime insieme ad altri, negli ossari e nelle cappelle delle chiese, ma a partire dall’età moderna si è imposto il culto dei morti e delle loro tombe, come avveniva nell’antichità. E per almeno due secoli l’idea di essere sepolti nelle fosse comuni è diventato un indice della barbarie che si scatena durante la guerra o in una catastrofe naturale, la perdita definitiva della propria identità come singoli e come comunità.
Allo stesso tempo, tuttavia, in epoca recente la morte è stata allontanata, espulsa dall’orizzonte dei vivi, sottratta dalla vista ed epurata dai discorsi. Più del sesso la morte è diventata un grande tabù. La pandemia e la conseguente sospensione dei riti funebri ha reso questa contraddizione ancora più evidente e ha portato alla luce il rapporto irrisolto che le nostre società hanno con la morte.
Metabolizzare il lutto
Questa situazione ha lasciato degli strascichi indelebili, delle ferite psicologiche diffuse in tutta la comunità, anche se di questo tema si fa molta fatica a parlare. Una recente indagine dell’istituto Mario Negri ha messo in luce che tra tutte le province della Lombardia quella di Bergamo è quella in cui la pandemia ha lasciato più conseguenze di tipo psicologico nelle persone. Quasi il 50 per cento degli intervistati ha dichiarato di avere sintomi di stress psicologico, il 5,3 ha dichiarato di avere sintomi gravi.
Maurizio Bonati, responsabile del dipartimento di salute pubblica dell’istituto Mario Negri, ha spiegato che “considerando i dati provenienti dalla regione Lombardia, è stata osservata una correlazione negativa tra il disturbo psicologico e la distanza dal luogo di residenza da una zona considerata rossa, quella tra Nembro e Alzano. Più ci si allontana, con un modello di propagazione circolare, e più i sintomi diminuiscono”. I sintomi peggiori sono stati rilevati “fino a 25 chilometri dalla zona rossa, in particolare di grave sofferenza fino a 15 chilometri”.
Il rischio tuttavia è che nella fase in cui ci troviamo, si volti velocemente le spalle alla sofferenza e si provi a dimenticare per ripartire, soprattutto da un punto di vista economico. Ma niente sarebbe più sbagliato, secondo gli esperti. “Qualcuno vorrebbe rimuovere, o già rimuove, il dramma vissuto, brandendo noti slogan testosteronici – dal più urbano ‘Bergamo non si ferma!’ al dialettale ‘mòla mìa!’ (non mollare) – che, mentre affermano la legittima propensione a resistere alla tragedia, rischiano di lasciare in circolo le tante scorie mortuarie prodotte da questo tempo infausto”, spiega Paolo Barcella, professore di storia contemporanea all’università di Bergamo e promotore di un progetto sull’elaborazione del lutto e il recupero della memoria che si sta svolgendo per il momento online con alcune persone di Nembro, il paese della val Seriana che ha registrato più morti per il coronavirus.
“La vera sfida consisterà invece nell’essere all’altezza di superare la catastrofe metabolizzando quelle scorie, rispettando i tempi e la necessità del lutto. La mancata elaborazione dei drammi vissuti è del resto proprio il terreno più fertile per l’emersione di una sofferenza psichica fuori controllo”.
Per Barcella c’è innanzitutto da capire cosa succede quando un’intera generazione, con le sue risorse e il suo bagaglio di memorie, scompare da una comunità, cosa succede quando i bambini vedono scomparire le voci che vengono dal loro passato e che spesso rappresentano il loro primo rapporto con la storia. Per il professore di storia contemporanea bisogna considerare che in contesti come quello della provincia di Bergamo c’è poca abitudine a ricorrere all’aiuto psicologico, percepito come uno stigma, e tuttavia andrebbero pensate delle risposte collettive per elaborare la catastrofe.
“L’ostilità nei confronti della psicoterapia è piaga diffusa anche in settori di popolazione con una formazione culturale medioalta, poiché è dominante l’idea che si debba comunque bastare a se stessi. E così finiscono col prevalere da un lato le somatizzazioni, le ipocondrie e le medicalizzazioni dei sintomi, dall’altro le indigeribili tendenze alla lamentazione e agli sfoghi, continui e autoreferenziali: tutto pur di non assumersi davvero la responsabilità del proprio limite”.
Alla stesura di questo articolo ha collaborato Isaia Invernizzi, giornalista dell’Eco di Bergamo.
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