“Corsi e ricorsi storici”, così titolava un articolo de “Il Giorno” del 4 marzo 2020, ricordando l’epidemia influenzale che colpì Milano e l’Italia nel dicembre 1969 (1). Penso che pochi di noi ricordino quel lontano episodio forse perché occupati in tutt’altre vicende, come l’autunno caldo, la bomba di Piazza Fontana, l’assassinio di Pinelli. Eppure quel virus influenzale chiamato A2 e ribattezzato anche “Hong Kong 68”, perché proveniente dalla Cina, o “Spaziale” in omaggio ai viaggi lunari, aveva colpito 13 milioni di persone in Italia e causato 5mila morti. Il vaccino per questo virus esisteva, ma non era stato distribuito in Italia, e non risulta che allora vennero prese misure preventive paragonabili a quelle prese nell’occasione odierna. Come si spiega questa differenza? Ritorneremo su questo punto.
La comparsa e la successione in epoca recente di epidemie e pandemie dovute a mutazioni virali, dal virus HIV/AIDS degli anni 80/90 alla SARS del 2003, dall’influenza aviaria del 2013 all’attuale coronavirus Covid 19, ha fatto avanzare diverse ipotesi scientifiche sull’origine di queste mutazioni, tutte comunque riconducibili al tipo di sviluppo distorto generato da un capitalismo selvaggio in fase di declino storico. Alcuni autori hanno chiamato in causa, come fattore favorevole allo sviluppo dei virus e alle loro mutazioni, il sovraffollamento presente nelle grandi megalopoli moderne con decine di milioni di abitanti, altri hanno parlato di un rapporto cambiato fra specie umana e specie animali, a causa degli allevamenti intensivi e della presenza nelle grandi città di volatili che non c’erano prima, dai pipistrelli ai gabbiani. Tutte conseguenze queste di un rapporto alterato fra genere umano e mondo naturale in un’era che gli esperti definiscono come “antropocene”, o, per meglio dire, “capitalocene”. Per non parlare poi dell’inquinamento atmosferico, o, meglio, della presenza nell’aria delle polveri sottili che costituiscono un ottimo veicolo per la diffusione del virus nell’ambiente. Una circostanza questa che potrebbe spiegare la più rapida diffusione del virus in pianura padana rispetto alle regioni del Sud. Tutte ipotesi queste che meriterebbero da parte nostra una maggiore attenzione e approfondimenti ulteriori.
Ad ogni modo, qualunque sia l’origine del Covid 19, l’aspetto più sconvolgente è il linguaggio da tempo di guerra che è diventato subito virale nei mass media di regime. Espressioni da caserma come “siamo in prima linea sul fronte” o “omaggio agli eroi di guerra” sono state ripetute all’infinito, insieme al ritorno di una retorica patriottarda fuori tempo e agli inni nazionali sui balconi, anche questi durati poco, di fronte al precipitare della situazione sanitaria. Le strade deserte hanno reso l’idea di una situazione di coprifuoco che, fino ad un certo punto, ha finito per oscurare i termini scientifici dell’evoluzione della pandemia e delle possibili soluzioni di prevenzione e terapia. Non si tratta qui di mettere in discussione alcune misure necessarie messe in campo, come l’uso di mascherine, la quarantena, il distanziamento fra le persone, la chiusura dei locali pubblici e la limitazione delle relazioni sociali quanto l’inserimento di queste misure entro una cornice che richiama la simulazione di una situazione di guerra.
Anche se poi, alla fine, i dati reali sulla pandemia, sul suo andamento ciclico costituito da una fase ascendente, un plateau e una fase discendente per una durata complessiva di circa tre mesi, sulle misure di prevenzione mediante un uso generalizzato dei tamponi, sulle possibili terapie, sul vaccino specifico, sul potenziamento della medicina del territorio (2), sulla necessità di finanziare adeguatamente gli ospedali pubblici e la ricerca in campo sanitario hanno finito per prendere il sopravvento.
Per arrivare ora agli aspetti economici della vicenda coronavirus, alcuni fenomeni possono far ritornare alla mente situazioni tipiche di una economia di guerra. Per esempio la riconversione industriale in alcune fabbriche per la produzione di merci non più reperibili sul mercato nazionale, come le mascherine o i respiratori, ma si tratta, in questo caso, di fenomeni molto limitati, mentre la produzione di armi (quelle vere) è tranquillamente continuata, anche nell’emergenza, come per gli F35 alla Leonardo di Cameri. Niente di paragonabile con l’autarchia dei tempi di guerra naturalmente, caso mai si tratta oggi della interruzione di filiere produttive multinazionali, risultato della divisione internazionale del lavoro capitalistica affermatasi negli ultimi decenni, impropriamente definita “globalizzazione”, e da cui è difficile, o improbabile ritornare a una economia nazionale auto centrata.
Un altro fenomeno che può richiamare una economia di guerra è la limitazione, certo notevole anche se limitata nel tempo, dei consumi interni, fatta eccezione per il settore alimentare e farmaceutico. Tutto ciò comporta naturalmente un aumento del risparmio privato, che diviene perciò obiettivo privilegiato sia dei fondi di investimento che delle emissioni dei titoli di stato. Certo non siamo ancora ai crediti di guerra obbligatori o alla raccolta di oro per la patria, anche perché il mercato finanziario è diventato così automatico, veloce e ramificato da rendere estremamente difficile una sua regolamentazione da parte di una qualsiasi autorità nazionale. Qualche probabilità in più avrebbero gli eurobond, ammesso che questa entità sfuggente chiamata Unione Europea, o, per meglio dire, la sua Banca Centrale riuscisse a trovare una mediazione ragionevole fra i vari appetiti nazionali. Il tutto si tradurrà comunque in una crescita esponenziale dell’indebitamento, sia pubblico che privato. Ma i debiti alla fine vanno comunque ripagati.
Nella vicenda dell’emergenza da Covid 19 hanno riacquistato visibilità alcune variegate tendenze autodefinitesi “di sinistra” che riprendono le teorie keynesiane per l’uscita dalla crisi capitalistica: un neokeynesismo di ritorno. Le politiche keynesiane furono applicate negli Stati Uniti durante la grande depressione degli anni 30, con le riforme introdotte da Roosevelt, e in altri stati capitalistici europei con altre forme e modi. Esse consistono sostanzialmente in un intervento massiccio dello stato nell’economia al fine di creare una domanda aggiuntiva, attraverso imponenti opere pubbliche, e riassorbire così anche la dilagante disoccupazione. Naturalmente queste misure operano un tamponamento sociale degli effetti della crisi, nella prospettiva di una ripresa dei profitti capitalistici che può avvenire attraverso la concentrazione dei capitali e la riduzione dei salari operai. L’efficacia di queste politiche non è comunque sicura, tanto è vero che dopo un breve periodo di parziale ripresa esse sfociarono in un “keynesismo di guerra”, quando, durante la seconda guerra mondiale, quasi tutta la produzione era comprata dallo stato, dai carri armati ai bottoni delle divise.
Nel secondo dopoguerra, durante la trentennale golden age capitalistica, in cui comunque il debito pubblico era sceso ai minimi storici, le politiche keynesiane si identificarono in alcuni paesi dell’Europa occidentale, fra cui l’Italia, in un sistema di “economia mista”, stato/privato, e nel welfare state, ovverosia nella gestione da parte dello stato di una parte consistente del salario operaio, indiretto o sociale, a fronte del versamento nelle casse statali di ingenti contributi sociali da parte dei lavoratori dipendenti o, per loro conto, dai datori di lavoro. Questo sistema è stato comunque ridotto al minimo, o quasi smantellato, sotto i colpi della crisi iniziata negli anni 70, a forza di privatizzazioni e di delocalizzazioni industriali in paesi a basso costo del lavoro. Dunque le tendenze neokeynesiane, che presentano però una pericolosa convergenza con le tendenze “sovraniste di destra”, condividono con queste ultime un alto tasso di improbabilità, vista la predominanza assunta negli ultimi decenni dalle grandi multinazionali “senza patria” e dal capitalismo finanziario internazionale sugli stati nazionali.
Inoltre sembra, come sostiene Paul Mattick in un suo articolo del 1940, che anche la guerra abbia perso la sua capacità di risoluzione della crisi capitalistica. Dice Mattick: “Nell’andamento ciclico del modo di produzione capitalistico una rapida accumulazione di capitale porta di conseguenza alla depressione e alla crisi, mentre il meccanismo stesso di risoluzione della crisi porta a una nuova fase di accumulazione e sviluppo. In maniera direttamente conseguente un periodo di pace capitalistica porta alla guerra, e la guerra riapre a un nuovo periodo di pace. Ma cosa succede se la depressione economica diviene permanente? Anche la guerra seguirà lo stesso andamento e quindi la guerra permanente è figlia della depressione economica permanente.” Mattick porta poi alle estreme conseguenze la sua analisi quando afferma: “Oggigiorno, si tratta solo di vedere se, nella misura in cui la depressione non sembra più poter ricostituire le basi di una nuova prosperità, la guerra stessa non abbia perduto la sua funzione classica di distruzione-ricostruzione indispensabile per innescare un processo di rapida accumulazione capitalistica e di pacifica prosperità postbellica”(3). Ora la guerra permanente si è svolta finora in aree capitalistiche semiperiferiche, come il Medio Oriente, l’Africa o l’Afghanistan, per cui sorge il sospetto che la pandemia da coronavirus possa costituire un surrogato della guerra permanente che coinvolge invece i paesi capitalisticamente sviluppati. Un surrogato che è contemporaneamente troppo e troppo poco: troppo per i sacrifici sociali che comporta e troppo poco per risolvere la crisi capitalistica. Alla fine di questa storia non ci sarà una ripresa economica, ma neanche un crollo del capitalismo ma, probabilmente una accelerazione dei processi di crisi già in corso.(4)
Ma torniamo alla domanda iniziale: come si spiega la differenza nel comportamento dei vari governi in occasione delle altre recenti epidemie e nella attuale epidemia da Covid 19. Il fatto è che questa epidemia è il prodotto di una crisi generale del capitalismo già in corso da tempo e, nello stesso tempo, un fattore di accelerazione di questa crisi. Anche rimanendo nella sola Europa la differenza fra le misure prese dai diversi governi è stata notevole a partire dal caso estremo della Gran Bretagna post Brexit che ha rimandato al massimo le decisioni, forse pensando a una soluzione improntata al “darwinismo sociale” ovvero alla selezione naturale operata dal virus nei confronti dei soggetti più deboli, anziani, soggetti già affetti da altre patologie ecc. Anche le differenze nelle misure adottate dai governi tedesco e italiano nell’emergenza si possono spiegare se consideriamo la loro rispettiva struttura economica. La Germania è un capitalismo forte e concentrato con una potente struttura industriale votata all’esportazione. Mettere in pericolo la produzione di questa grande industria è impossibile e fuori discussione. L’Italia invece è un capitalismo più debole, in cui la grande industria è stata praticamente smantellata e dove esiste una pletora di “classe media”, ristoratori, albergatori, piccoli imprenditori, lavoratori autonomi ecc. Saranno proprio questi a subire gli effetti più devastanti della crisi, molti saranno costretti a chiudere, dando il via a un imponente processo di concentrazione capitalistica, i cui effetti sono, al momento, imprevedibili.
In una fase successiva dell’emergenza ha acquistato maggiore credibilità il metodo adottato in Corea del Sud, in contrapposizione al metodo cinese/italiano basato su una quarantena generalizzata obbligatoria. Il metodo sudcoreano è basato essenzialmente su uno screening a tappeto mediante tampone, sull’individuazione dei contagiati i cui movimenti vengono tracciati attraverso sofisticate tecnologie informatiche per individuare i contatti e, quindi, i possibili focolai di infezione. Sembra che questo metodo abbia avuto buoni risultati senza imporre quarantene generalizzate, ma è stato accusato di violazione della privacy e di inaugurare una forma di invasivo controllo sociale(5). Nelle “democrazie occidentali” invece, lungi dal favorire forme di centralizzazione del comando, l’emergenza ha dato adito al proliferare di diversi centri di potere, fra il governo centrale (federale negli USA), governatori statali o regionali alla ricerca di visibilità politica, moltiplicazione di sindaci sceriffi, improbabili esperti di virologia ecc.
In Italia la situazione è stata resa più pesante dagli ingenti tagli alla sanità operati da tutti i governi negli ultimi decenni e dai finanziamenti accordati alla sanità privata a scapito di quella pubblica, a partire proprio dalle privatizzazioni favorite dalla Regione Lombardia da Formigoni in poi. Mentre, al contrario, nella situazione di emergenza la classe operaia ha riacquistato visibilità, concretezza e forza nel conflitto: gli scioperi che si sono succeduti in diversi stabilimenti hanno chiarito che “gli operai non ci stanno a morire per il profitto”, costringendo il governo a emanare una serie di misure, insufficienti comunque e peraltro non applicate nella maggioranza delle fabbriche.
Ma come andranno le cose quando tutto questo sarà finito? Come già detto ci sarà una accelerazione della crisi già in corso. Qualcuno già parla di “grande recessione” e di ritorno agli anni 30 del 900. Fra giochi di borsa e politiche monetarie espansive i grandi gruppi finanziari troveranno il modo di incrementare la loro ricchezza. Le grandi multinazionali si concentreranno ancora di più per aumentare i loro profitti. La concentrazione capitalistica provocherà il fallimento di tante piccole e medie imprese con il conseguente aumento esponenziale della disoccupazione. Il debito pubblico e privato aumenterà ulteriormente e verranno messe in cantiere opere pubbliche distruttive per l’ambiente, come la TAV o il TAP. Riprenderanno fiato le tendenze “sovraniste” che invocheranno la chiusura dei confini con le relative coreografie patriottarde, anche se è ormai difficile rimettere in discussione la divisione internazionale del lavoro che si è affermata negli ultimi decenni (in Italia non produciamo più neanche le mascherine!). Si imporranno forme di governo autoritarie e decisioniste fino ad invocare la militarizzazione della società. Insomma, per parafrasare uno slogan di moda: NON ANDRA’ TUTTO BENE. Da parte nostra dobbiamo prepararci a dare risposte a una prevedibile radicalizzazione dello scontro sociale e a prospettare una fuoriuscita da un modo di produzione capitalistico sempre più distruttivo e mortifero.
Visconte Grisi
N O T E
1) ”Virus dalla Cina”: è la “spaziale” del 1969 di Massimiliano Mingoia in IL GIORNO del 4 marzo 2020 pag.11.
2) In un convegno tenuto a Milano nell’aprile 2014 sulla privatizzazione della sanità uno dei temi trattati è stato proprio la crisi della medicina generale e della medicina preventiva del territorio.
3) Per una critica delle teorie di Keynes vedi Paul Mattick : Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista. De Donato Editore 1972. Di P. Mattick vedi anche “La guerra è permanente” http://www.leftcom.org/it/articles/1940-01-01/la-guerra-è-permanente. Vedi anche un mio articolo con lo stesso titolo in Umanità Nova n. 29 del 28/10/2018.
4) Per una critica della teoria del crollo vedi Paolo Giussani: Lo schema numerico del crollo del capitalismo di Henryk Grossmann – 1998