21 maggio 2020
La casa è diventata uno dei simboli di questa pandemia. Per tutta la durata del confinamento, l’abitazione si è rivelata il cuore pulsante di una comunità che ha cercato di salvaguardare il proprio quotidiano nonostante lo stato di emergenza. La casa si è fatta ufficio, scuola e piazza. Ma è bastato poco tempo perché ci si rendesse conto della ferocia di classe, razza e genere dell’oggetto-casa in uno stato di confinamento da emergenza sanitaria. Da oggi faremo i conti con una realtà di crisi ordinaria che ci ricorderà che non eravamo mai usciti da una situazione di emergenza abitativa e che questa ritornerà con ancora più forza.
L’Italia è un paese in cui la proprietà immobiliare è nella maggior parte dei casi prerogativa di stabilità e benessere. L’affitto è solitamente una soluzione residuale, cioè per la parte di popolazione più povera e precaria. Le politiche abitative degli ultimi decenni hanno determinato una situazione in cui circa venti milioni di famiglie residenti oggi in Italia (su un totale di circa venticinque milioni) vivono in una casa di proprietà, il trenta per cento in più rispetto ai primi anni Settanta. Questo incremento della casa di proprietà non ha riguardato, però, in maniera equa tutte le fasce sociali. È scontato che questo aumento si sia mosso lungo i solchi delle disuguaglianze di reddito. Il quintile più ricco delle famiglie che risiedono oggi in Italia vive in una casa in affitto solo per il sette per cento, contro il trenta per cento che si registrava nei primi anni Settanta. Nella quinta parte più povera del paese, invece, la percentuale di famiglie in affitto è rimasta pressoché invariata, intorno al quaranta per cento negli ultimi quarant’anni, per poi aumentare negli ultimi dieci.
In questo scenario è facile prevedere che l’effetto della pandemia sarà l’amplificazione del divario già esistente tra chi vive in proprietà e chi in affitto, soprattutto in termini di stabilità abitativa. Prima del Covid-19, stando all’“Indagine europea sui redditi e le condizioni di vita”, una condizione di disagio da abitazione, in cui le spese per la casa assorbono più del quaranta per cento del reddito familiare, è quasi dieci volte più diffusa tra chi vive in affitto rispetto a chi vive in un’abitazione di proprietà. Eppure nessuno degli interventi (né di cura né di rilancio) previsti dal governo in tempo di pandemia muove dalla consapevolezza di tale situazione.
Il decreto di marzo (Cura Italia) ha stanziato sessanta milioni per il Fondo nazionale per il sostegno alle abitazioni in locazione. Interventi minimi, se si considera che dal 2015 al 2018 il governo non aveva destinato alcuna risorsa al Fondo e che l’onda d’urto del Covid-19 sarà di portata eccezionale in termini di effetti sociali ed economici. Nessuno dei duecentocinquanta articoli del Decreto Rilancio, invece, è dedicato al sostegno delle famiglie che vivono in affitto. La manovra principale del decreto, quella dell’ecobonus al centodieci per cento per i lavori di intervento strutturale (art.128), è rivolta essenzialmente ai proprietari di casa. In particolare, la maxi-detrazione fiscale è destinata ai lavori di strutturazione (in chiave ecologia e antisismica) per tutte le case di un condominio; poco importa che siano esse prime o seconde case. Nessuno dei due decreti prevede alcun tipo di ridefinizione dei contratti di affitto, lasciando che siano gli inquilini e i proprietari di casa a rinegoziare l’importo dei canoni da pagare. Per di più tale possibilità sarà limitata solo al periodo dell’emergenza. È evidente la miopia della politica nel trattare la questione casa come un elemento di carattere emergenziale piuttosto che come una condizione di crisi strutturale che con l’effetto pandemia rischia di collassare sulle spalle di chi già sopporta il carico maggiore delle disuguaglianze abitative. Anche i sussidi stanziati dalle regioni per le famiglie in affitto sembrano del tutto inadeguati. In Campania, per esempio, la Regione bandisce dei supporti al pagamento del canone di affitto solo per tre mensilità e solo in copertura parziale, per un importo massimo complessivo di settecentocinquanta euro. Il dubbio è se questi sussidi siano pensati a sostegno di chi l’affitto lo paga o di chi lo incassa!
Infine, anche sulla questione sfratti, gli interventi previsti non assicurano nessuna garanzia, neppure minima, oltre la fase piena dell’emergenza. Il Cura Italia ha predisposto la sospensione degli sfratti fino al 30 settembre, ma non degli iter amministrativi per tutti quei provvedimenti che erano in corso prima della pandemia. Alcuni tribunali già hanno annunciato il dimezzamento dei tempi di udienza per smaltire tutti i procedimenti arretrati: è molto alto il rischio che il prossimo autunno risulti essere una stagione particolarmente calda per gli sfratti. Ricordiamo che nel 2018 sono state più di 25 mila le richieste di sfratto per incapacità dell’inquilino a pagare l’affitto. All’interno di questa crisi dell’abitare, amplificata dall’emergenza del Covid-19, si annida un’altra crisi, potenzialmente più pericolosa. È quella di chi ha un contratto di affitto in nero, che è già esposto a maggiori livelli di insicurezza abitativa e che ora risulta automaticamente escluso da qualunque tipo di misura di sostegno prevista dal governo.
Tutto ciò si sta giocando in un quadro urbano in cui larga parte del patrimonio abitativo si è di colpo svuotato con la pandemia, sedotto e abbandonato dal boom del turismo e poi dal Decreto Rilancio che ha tagliato fuori dai bonus vacanza tutte le piattaforme digitali di intermediazione turistica, tra cui AirBnB. Già ora è in atto il tentativo di una rapida riconversione per tutti quegli appartamenti, ristrutturati e ridisegnati a misura del viaggiatore/turista, che i proprietari tentano di ricollocare sul mercato degli affitti a lungo termine. È evidente che rimarranno vuoti ancora a lungo, alla luce delle misure in materia abitativa proposte dal governo. Alla fine della pandemia, se la rotta delle politiche abitative non sarà invertita, l’Italia si confermerà il paese del paradosso dell’abitare, quello delle case (ancora più) vuote e della popolazione (ancora più) bisognosa di case.
Da questa emergenza occorre allora uscirne rimettendo al centro del dibattito politico la casa come diritto, non come merce per la riproduzione del capitale, insistendo innanzitutto sulla distribuzione della proprietà immobiliare nel mercato degli affitti e cominciando a chiedersi qual è il suo livello di concentrazione, ovvero quante case possiede ogni proprietario. Questo smonterebbe la retorica del “piccolo proprietario” che continua a dominare gli interventi del governo e dei commentatori in materia di politiche abitative. Tuttavia, i dati sulla concentrazione degli immobili in locazione sono pressoché inesistenti. Stando a un’indagine dell’Agenzia delle entrate del 2019, per esempio, sono circa quattro milioni e mezzo gli immobili in Italia di cui non si conosce l’utilizzo. Sono tutti di proprietà di “persone non fisiche” (cioè imprese e società) e con finalità di investimento; è più che ipotizzabile che siano destinati al mercato degli affitti, anche se lo stato non ha modo di conoscere il loro uso. Di contro, si stima che solo un terzo dei locatori siano piccoli proprietari immobiliari. Tutto ciò delinea, quindi, uno scenario del mercato delle locazioni come importante settore di investimento per i proprietari di immobili che finiscono con l’essere i principali beneficiari delle politiche di cura e rilancio previste dal governo. I decreti di marzo e maggio sembrano, infatti, contribuire a rafforzare il regime di proprietà immobiliare senza curarsi del costo sociale post-Covid19, che promette di essere devastante per chi vive in affitto, cioè la parte più precaria del paese.
Su scala globale si sono diffuse, e continuano a diffondersi, le iniziative di auto-riduzione e sospensione dei canoni. Queste pratiche, sostenute da diverse campagne di sciopero degli affitti (in Italia Rent Strike Italy) si stanno delineando come le uniche misure potenzialmente in grado di arginare il collasso da disagio abitativo nei mesi a venire. Ciò che è in ballo, infatti, non riguarda interventi di carattere emergenziale (come la sospensione degli sfratti fino a settembre o i sussidi temporanei per il pagamento degli affitti), che se anche avranno qualche risultato sarà di alleviare, poco e per poco tempo, gli effetti immediati della pandemia. La necessità che viene fuori con forza è, invece, quella di mettere in discussione e sovvertire i meccanismi di lungo periodo che hanno reso la casa più un oggetto di investimento che un bene di funzione sociale, facendo della precarietà abitativa la condizione di normalità dell’abitare per molte persone. Tra questi meccanismi, uno centrale è proprio il mercato degli affitti. (emiliano esposito)