È SCONTRO APERTO TRA «COSCIENZA DI SPECIE» E INTERESSI NAZIONALI

I falchi tacciono. Dopo il riflesso pavloviano della presidente della Bce Christine Lagarde, che ha messo in agitazione anche i loro nidi finanziari. Ora è tutta una promessa di flessibilità, di nuova liquidità da immettere sui mercati.

I signori dello «zero nero», die schwarze Null, di spesa in deficit, fanno finta di niente mentre il governo di Berlino si appresta a sostenere con 550 miliardi l’economia tedesca e il suo export. «Una misura senza precedenti nella storia della Germania del dopoguerra» dichiara il ministro dell’economia Peter Altmeier.

MA TUTTI si affrettano ad aggiungere che le istituzioni dell’Unione europea sono consenzienti e «le regole sugli aiuti di stato non verranno violate». Questo è il punto che più sta a cuore ai guardiani dell’ordine economico. La catastrofe pandemica richiede misure eccezionali, ma non mette minimamente in questione le regole di funzionamento del sistema, ritenuto non responsabile delle condizioni nelle quali diversi paesi si trovano oggi a fronteggiare l’emergenza. Rispetto al potere politico, che può usare e ha usato nel corso della storia lo stato di necessità per ridurre fino a cancellare lo spazio della democrazia (non sembra però il caso del nostro attuale governo con l’eccezione di qualche cacicco locale), il potere economico ha tutto l’interesse a scongiurare qualsiasi cambio di paradigma che non porti a un allargamento del processo di accumulazione. Questo spiega anche la continua oscillazione e la compresenza di drammatizzazione e minimizzazione. Nel peggiore dei casi (i più prossimi sembrerebbero quelli di Donald Trump e Boris Johnson) le due esigenze contrastanti, di cambiamento e conservazione, possono confluire in un’unica linea di condotta cinica e autoritaria. Così come la chiusura nazionalista non comporta la rinuncia alla salvaguardia dei propri mercati globali. Ne abbiamo potuto osservare numerosi esempi negli ultimi anni e l’esplosione della pandemia potrebbe addirittura accentuare questo connubio e giocare l’inevitabile sostegno ai comparti economici nazionali in chiave di competizione se non di guerra commerciale.

LE SPERANZE riposte in una rinnovata «coscienza di specie», in uno slancio di solidarietà globale, nella diffusa consapevolezza di un destino comune, rischiano di essere rapidamente deluse e sopraffatte dalla «priorità dell’interesse nazionale». Del resto i tentennamenti, le furberie e gli egoismi con i quali è stata fin qui affrontata l’emergenza climatica non lasciano presagire nulla di buono. Non vi è insomma nessun automatismo tra l’emergenza di un pericolo globale e la scelta di un cambio, o anche solo di una radicale correzione di sistema. Ragione per la quale il tempo del pericolo non può essere quello del silenzio e dell’affidamento. Neanche nei confronti degli esperti che, se pure dispongono di saperi necessari, ancorati a dati empirici e risultati di ricerca, esprimono sovente posizioni divergenti quando non contraddittorie. Per non parlare delle previsioni, dalle quali i più seri tendono ad astenersi.

E SULLE QUALI la peggiore politica non manca invece di appuntare le sue fantasie. Così, per esempio, Boris Johnson che, nel mantenere nei minimi termini le misure di argine del contagio, avverte i cittadini britannici che avranno parecchi morti da piangere. Nessuno, è ovvio, si azzarda a dirlo apertamente ma è assai probabile che la scomparsa di un buon numero di anziani, di malati, di emarginati esclusi da profilassi e cure faccia gola a chi vagherggia un alleggerimento degli istituti previdenziali e assistenziali, liberando così risorse da destinare ad altri più profittevoli settori. Questo inconfessabile cinismo si porrebbe perfettamente in linea di continuità con le politiche di taglio e ridimensionamento delle strutture sanitarie perseguite in molti paesi negli ultimi decenni. E che oggi sono sotto accusa per aver fortemente indebolito la capacità di risposta all’emergenza pandemica. Non si tratta, beninteso, di un oscuro complotto ma delle estreme conseguenze a cui ci condurrebbe la dogmatica dell’efficienza, del profitto e dell’accumulazione. Tanto più che i sistemi produttivi contemporanei non abbisognano di uno sterminato «esercito industriale di riserva» (ancor più se con deboli capacità di consumo), cosicché nessuna catastrofe epidemica finirebbe con il favorire la forza contrattuale dei lavoratori come avvenne invece con la loro decimazione durante la pestilenza del 1300.

LE FORME di lavoro mediate dal controllo asettico e capillare delle piattaforme si propongono ora come garanti della produzione ai tempi del coronavirus. Individui fisicamente separati, connessi dal cervello dell’impresa e organizzati secondo i suoi scopi.

Alla verticalità del telelavoro si può certo contrapporre una teleresistenza. Ma la libertà della cooperazione sociale, per sua natura, non può essere confinata nel cyberspazio. Questo ci spinge a pensare «oltre la pandemia» e a cercare di condizionare i possibili e contrastanti decorsi della crisi.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 15 marzo 2020.

 

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