L’emergenza Covid-19 vista da Palermo, tra lavoro sociale coi ragazzi e rivolte destinate ad allargarsi

di Wu Ming

1. «Casa», o quel che ne fa le veci

Scorrendo la lista delle attività che il Dpcm dello scorso 22 marzo definisce come «essenziali», arrivando al codice Ateco 87 si trovano i «servizi di assistenza sociale residenziale». Non c’erano molti dubbi, del resto, sul fatto che la comunità in cui lavoro non avrebbe chiuso, anche perché per i cinque ragazzi italiani e i cinque ragazzi stranieri che ci abitano, quella è l’unica cosa che si avvicina al concetto di «casa».

Anzi, per tutti loro #RestoaCasa vuol dire proprio restare tutto il giorno in comunità. Per carità, di questi tempi, per alcuni versi, è anche meglio. Almeno si sta in compagnia di altri ragazzi e qualche adulto, e di sicuro ci si annoia di meno.

Ma come se già il decreto #RestoaCasa non fosse abbastanza esplicito in merito alle limitazioni individuali per tutti i cittadini, le varie istituzioni con cui abbiamo a che fare si sono preoccupate di scriverci cosa fosse necessario sospendere in modo specifico per i ragazzi della comunità.■ La Procura della Repubblica ci ha invitati a «impedire gli allontanamenti arbitrari in ogni modo, anche chiudendo a chiave le strutture», invitandoci a segnalare alla Polizia qualsiasi abuso.
■ Il Tribunale per i Minori ha sospeso l’ingresso di persone esterne in struttura e negato gli eventuali rientri in famiglia del fine settimana.
■ La Questura ha rinviato a data da destinarsi la consegna dei Permessi di soggiorno.
■ L’ospedale ha rimandato a tempi migliori la risonanza magnetica prenotata tre mesi prima.
■ I Servizi sociali hanno annullato l’appuntamento per farci incontrare una nuova possibile famiglia affidataria. Gli incontri con psicoterapeuti, tutori e assistenti sociali, va da sé, tutti sospesi.

In poche parole tutti hanno comunicato a perfezione cosa questi ragazzi non debbano fare, ma nessuno si è preoccupato di dire come possano passare le giornate.

Ovviamente anche le loro scuole sono chiuse. I più grandi, inseriti in progetti di inserimento lavorativo, hanno visto sospendere il tirocinio proprio la settimana prima della possibile assunzione.

Anche le partitelle di calcio al prato della Favorita sono saltate, così come gli allenamenti di basket di un ragazzo che gioca in serie B o il corso di nuoto frequentato dai più piccoli.

Chi ha la fidanzata la incontra soltanto in chilometriche videochiamate, effettuate con scarsissima privacy.

Così, tra la didattica online da seguire nei due computer a disposizione di tutti, lunghi tornei di playstation, serie tv, palestra casalinga e musica a palla mandata in contemporanea da tre casse bluetooth diverse, ogni giorno ci si inventa qualcosa di nuovo per passare la giornata. Al fondo del barile hanno trovato anche l’entusiasmo per appendere al balcone lo striscione arcobaleno con la scritta «Vinceremo tutti insieme». L’alternativa, «Tutti coltiviamo sogni, ma nessuno è disposto a zappare», ha perso al ballottaggio.

Le giornate per il resto sono scandite dall’aggiornamento delle 12.00 della Regione Siciliana e da quello delle 18.00 della Protezione Civile, ai quali si aggiunge la ricerca di notizie sull’evoluzione dei contagi in Gambia, Costa D’Avorio, Tunisia, Guinea e Guinea Bissau.

Come per ogni adolescente abituato ad avere una vita frenetica, anche per loro questa nuova dimensione ha qualcosa di irreale. Sono passati dal vivere le giornate in modalità costantemente accelerata ad un rallentamento pressoché assoluto.

Ci continuiamo a chiedere che senso abbia avuto vietare anche la corsetta, o una passeggiata in solitaria, a ragazzi abituati in alcuni casi a fare ogni giorno allenamenti agonistici o attività fisica di vario tipo?

Fino ad oggi hanno reagito bene al coprifuoco, con buono spirito di adattamento. C’è stato un grande livello di comprensione della situazione e di condivisione delle responsabilità. Si sono messi da parte i conflitti precedenti e si provano a tenere a bada anche i propri drammi personali.

Ma quanto può durare questa situazione?

La dimensione di sospensione generale ha per tutti una forte componente straniante, ma quando da mesi si è in attesa di un Permesso di soggiorno o, ancora di più, quando si aspetta costantemente una convocazione di un Giudice che deve presentare una nuova possibile famiglia, questa improvvisa dimensione fuori dal tempo diventa insopportabile.

2. Io esco di casa per andare in un’altra casa

Una volta sospeso l’ingresso in comunità di amici, volontari e tirocinanti, a condividere le giornate con i ragazzi siamo rimasti soltanto il gruppo di operatori e operatrici che lavoriamo in struttura, alternandoci, come sempre, in turni che garantiscono una presenza 24 ore su 24.

Già, perché mentre si fa terrorismo con #IoNonEsco, c’è chi quotidianamente deve uscire di casa.

E non solo deve farlo, ma deve anche passare tre checkpoint di carabinieri, polizia ed esercito, produrre un’autocertificazione diversa ogni settimana e sottoporsi agli sguardi inquisitori di chi, vedendolo per strada, lo considera alla stregua di un untore.

Le reazioni dei colleghi al coronavirus e alle relative disposizioni, sono state varie: da chi è stato assalito dal panico a chi ha mantenuto all’apparenza i nervi saldi. In un caso o nell’altro, del resto, a fine turno ognuno deve tornare regolarmente a casa propria, con le legittime preoccupazioni per i propri familiari.

Ma nessuno dei colleghi ha fatto venire meno la solidarietà reciproca e l’attenzione verso i ragazzi. Nessuno, cioè, ha provato a trovare soluzioni individuali per assentarsi dal lavoro. Anche per quelli che sono stati avvolti dalla paura all’idea di uscire di casa, era chiaro che mettersi in ferie o in congedo parentale, in questo momento avrebbe messo in difficoltà i colleghi e avrebbe lasciato più soli i ragazzi.

Già nei primi giorni sono state effettuate tutte le operazioni necessarie a sanificare la struttura, e si sono predisposte le procedure per i possibili scenari a venire.

Tutto quello che si è fatto, comunque lo si è realizzato grazie all’attenzione e alla buona volontà dell’ente per cui lavoriamo. Non tutte le comunità hanno seguito gli stessi protocolli. Molti colleghi di altri servizi non hanno ricevuto le nostre stesse tutele. Da parte di tutte le istituzioni di cui sopra – Questura, Procura, Tribunale, Comune, ecc. – sono arrivati mille dépliants in cui viene spiegato cosa fare e cosa non fare. Ma non è arrivato nessun supporto di altro tipo per aiutarci a rispettare i protocolli.

C’è da dire che si fa anche di necessità virtù. Ormai il turno di lavoro è diventato l’unica occasione per uscire di casa, un vero e proprio tuffo nella mondanità. A chi capita di questi tempi di uscire ed incontrare altre dieci persone? Onestamente, una boccata d’aria fresca. Anche perché, in queste ultime settimane, ho preso l’abitudine di andare a lavoro a piedi e concedermi quei tre chilometri di camminata, evitando così di prendere la vespa. Fino a quando Musumeci non decreterà anche sul mezzo con cui andare a lavoro, conto di continuare a farlo.

In ogni caso, per forza di cose, la fisicità interna alla struttura è sostanzialmente cambiata. Si prova a conformare i comportamenti di tutti alle avvertenze che arrivano. Ma, con tutte le attenzioni che è possibile avere, ci sono comunque una dozzina di persone che condividono lo stesso appartamento e stiamo parlando pur sempre di lavoro di cura, fatto anche di intimità relazionale e contatto umano.

3. Gli «Eroi»

Confrontandomi con colleghi e colleghe che lavorano in servizi di altro tipo, mi rendo conto di non essere poi messo così male. La maggior parte degli altri progetti sono stati bloccati fino a nuove disposizioni: da un giorno all’altro hanno sospeso la propria attività gli sportelli sociali, i doposcuola, i laboratori di quartiere, gli oratori, i camper che si occupano di dipendenze, i centri antiviolenza, i progetti di educativa di strada…

Anzi, sono state chiuse proprio le strade. Tutti sono ritornati nelle proprie case, chiudendo tra quattro mura anche la drammaticità delle singole condizioni individuali.

Chi lavora in questi servizi, alla preoccupazione per il destino delle persone che si seguivano, oggi deve aggiungere quella per la propria situazione.

In tantissimi si sono accorti che il decreto «Cura Italia» non si cura di chi cura in Italia. Specialmente chi lavora per piccole associazioni, legate a finanziamenti di progetti, spesso per committenza di fondazioni private, si ritrova oggi senza alcun tipo di tutela.

Lungi dall’essere il regno de «I buoni», il mondo dell’associazionismo è stato negli anni terreno di sperimentazione di tecniche di precarizzazione del lavoro. Per una dolorosa eterogenesi dei fini, la spinta all’eguaglianza invece di ampliare la quota di diritti dei destinatari, ha finito per spogliare dei propri diritti gli stessi operatori.

L’intervento sociale si è spesso ricoperto di presuntuosi presupposti salvifici. L’epica della «Prima linea» e la retorica della «Trincea» hanno prodotto sequele di Esperti su ogni aspetto della marginalità. Capaci solo di alimentare uno sguardo pulp, in bilico tra paternalismo pietistico e fascinazione per il degrado.

Tanto più si diventava Eroi della condizione altrui, tanto più si diventava Martiri della condizione propria.

Il cosiddetto «lavoro sociale» (come se esistesse un lavoro non sociale), anche e soprattutto in un momento come questo, ci racconta di come la crescita delle disuguaglianza non sia un effetto collaterale di decenni di politiche liberiste, una sorta di disfunzione del sistema, ma la diretta conseguenza di una società organizzata a partire dalla competizione individuale.

La condizione di chi lavora nel mondo dell’associazionismo rimane incastrata tra una spinta salvifica onnipotente ed una scorata rassegnazione all’impotenza, tra il dovere di offrire soluzioni a tutti i mali del mondo e il ritrovarsi all’improvviso immersi fino al collo in quei mali.

L’ambigua formula dell’«Impresa sociale» ha finito, anche questa volta, per prestare il fianco al mantra «meno Stato più Mercato».

Eppure, con tutti i limiti, il lavoro sociale in alcuni contesti rappresenta l’unica presenza rimasta a contrastare il dilagare della diseguaglianza. In molti quartieri di periferia la presenza delle associazioni rappresenta l’unica possibilità per accedere a spazi di socialità. Senza l’impegno capillare e plurale del terzo settore intere categorie sociali vedrebbero profondamente negati i loro diritti.

In questi giorni di reclusione forzata in tanti ci si confronta su quali spazi di intervento siano ancora possibili.

Ci si chiede: che fine fa il lavoro sociale, nel momento in cui viene sospesa la socialità?

Ma anche: che fine fa la società, nel momento in cui viene meno anche il lavoro sociale?

Si naviga a vista e si prova a inventare delle risposte estemporanee. In queste settimane a Palermo sono nate improvvisamente tre radio comunitarie, si leggono fiabe a telefono e si sfogliano libri registrando video, si organizza l’animazione a distanza e si proseguono i colloqui in videochiamata.

4. Se non esprimiamo critica e conflitto oggi, come potremo farlo domani?

Ma soprattutto, ci si incomincia ad interrogare su come sarà dopo.

Come sarà possibile recuperare la fisicità su cui si basavano le nostre vite?
Come faremo a ricostruire spazi di socialità e a riappropriarci di spazi pubblici?
Come faremo a porre un argine alla crescente diseguaglianza che deriverà da questo periodo?
E come sarà possibile organizzare reti sociali per proteggerci collettivamente dall’infelicità e dalla solitudine?

Infine, come sarà possibile riuscire a porci queste domande domani, se oggi sospendiamo ogni possibilità di critica e di conflitto?

Come scrive lo psicoterapeuta Calogero Lo Piccolo in un suo recente articolo dal titolo «La gestione dell’attuale e gli ambasciatori», nel quale parla dei costi, al tempo stesso psicopatologici e sociopolitici, dell’attuale sospensione della sfera sociale:

«Non è solo un problema di salvarsi la vita, non è solo un problema di salvaguardare la propria salute mentale, è anche un problema, soprattutto per certi versi, di salvaguardare lo spazio sociale della politica, e del nostro essere soggetti che abitano criticamente lo spazio della polis come bisogno fondamentale.»

5. Tra disperazione e autorganizzazione

Negli ultimi giorni ha destato molta attenzione una notizia proveniente da Palermo: in un hard discount a metà strada tra il Cep e Cruillas, una quindicina di persone ha riempito i carrelli della spesa provando ad andare via senza passare dalle casse, motivando, molto limpidamente: «Non abbiamo soldi e non vogliamo pagare».

Mentre si moltiplicavano sui vari social network le reazioni di apprezzamento e le promesse di emulazione, è arrivata la netta condanna del Sindaco Leoluca Orlando, che ha subito definito «sciacalli del sottobosco mafioso» tanto i protagonisti della vicenda quanto i loro tifosi.

Va sottolineato come la matrice mafiosa sia stata decretata in base all’analisi semantica dell’immaginario caratterizzante le pagine Facebook dei sostenitori. L’invito del Sindaco, in ogni caso, è stato quello alla denuncia capillare: «Chiedo a tutti i cittadini di segnalarli alle autorità di Polizia, di segnalare i loro account come promotori di violenza agli amministratori di social network perché siano immediatamente bloccati.»

Nel frattempo sono stati organizzati presidi di carabinieri, finanzieri e poliziotti davanti ai grossi ipermercati della città.

Clicca per ingrandire.

Che si sia trattato di «espropri proletari» o di azioni di «sciacallaggio», questa vicenda testimonia in ogni caso la drammaticità delle conseguenze di questo periodo in contesti già molto poveri come Palermo. C’è da scommetterci che manifestazioni del genere saranno sempre più frequenti nei tempi a venire. E criminalizzarle non contribuirà a migliorare la situazione.

Sono state 1800 le famiglie che nei primi tre giorni si sono registrate al portale del Comune per richiedere gli aiuti alimentari. Sulle pagine locali di Repubblica di oggi, in un articolo su La povertà da coronavirus, viene indicata la cifra di 50mila palermitani rimasti senza reddito. Ma sembra una stima al ribasso, considerato che già prima del coronavirus il tasso di disoccupazione in città era al 17,7% e i cittadini inattivi erano il 49,6%.

Il mercato dell’usato dell’Albergheria prima dell’emergenza (2019).

Segnalo, infine, un’iniziativa nata dal basso a Ballarò per iniziativa dell’associazione Sbaratto, costituita dagli ambulanti del mercato abusivo dell’usato, da anni protagonisti di una vertenza per vedere riconosciuta lo propria attività e spesso stigmatizzati come principale minaccia per il decoro urbano. Negli ultimi giorni, chiuso il mercato e messe da parte le bancarelle, si sono mobilitati in prima persona per distribuire in modo capillare cibo e beni di prima necessità a tutto il quartiere Albergheria.


Totò Cavaleri vive a Palermo, dove alterna alle vesti di attivista dei movimenti quelle dell’operatore sociale. In entrambi i ruoli si è occupato di adolescenti, rifugiati e interventi nelle periferie. Attualmente lavora in una comunità alloggio per minori. Su alcuni dei temi trattati nell’articolo ha curato i volumi Luoghi d’artificio. Narrazioni della metropoli al tempo della crisi (Navarra, 2011) e L’inutile fatica. Soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo (Mimesis, 2016).

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